Le dimissioni contano: Francesca Coin e la sociologia della fuga

Dopo la pandemia, anche l’Italia ha sperimentato un numero impressionante di fughe dal lavoro: si parla di più di due milioni di dimissioni volontarie. La sociologa Francesca Coin ne descrive caratteristiche, limiti e significati nel suo libro “Le grandi dimissioni”

Grandi dimissioni, fenomeno analizzato dalla sociologa Francesca Coin: una fila di lavoratori lascia la loro occupazione

Le grandi dimissioni, di cui i media in questi anni hanno parlato tanto e male, nascono dalle domande a cui ci ha costretti la pandemia: Chi sono, e che ruolo ricopre il lavoro nella mia vita? È il lavoro a definire la mia persona?

Partendo da questi interrogativi, milioni di persone hanno deciso di fare una scelta radicale: quella di dimettersi da un lavoro che non gli piaceva più o che addirittura odiavano, spesso senza un’alternativa sicura. Un vero e proprio salto nel vuoto che ha però permesso a molte persone di riflettere su che cosa volessero davvero dalla vita, che cosa fossero disposte a sacrificare per la carriera e quale fosse il limite da non superare in nome della produttività e della fedeltà all’azienda.

La sociologa Francesca Coin analizza questo fenomeno nel suo ultimo libro, edito da Einaudi, Le grandi dimissioni, indagando le cause profonde e le implicazioni meno intuitive di questo abbandono di massa.

Francesca Coin: le grandi dimissioni, una “crisi esistenziale” che trasforma il lavoro

Una premessa è doverosa: le grandi dimissioni non sono frutto dell’improvvisa mancanza di voglia di lavorare delle persone, specie dei giovani. Che cosa spinge allora i lavoratori e le lavoratrici a licenziarsi?

“Da questo punto di vista, le grandi dimissioni possono essere considerate un laboratorio antropologico che nasce all’interno di una specie di crisi esistenziale: alla base delle fughe c’è spesso l’urgenza di trasformare il mondo del lavoro, le sue modalità organizzative e i suoi obiettivi”, spiega la sociologa e docente universitaria Francesca Coin nel suo libro.

Sono quasi 2.200.000 le dimissioni registrate nel 2022, in aumento del 13,8% rispetto al 2021, quando in totale sono state 1.930.000. L’incremento è ancora più vistoso (+24%) se paragonato al 2019, anno precedente allo scoppio della pandemia. È quanto emerge dalla nota trimestrale sulle Comunicazioni Obbligatorie del ministero del Lavoro, relativa all’ultimo trimestre 2022. I dati certificano quindi l’esistenza, anche in Italia, del fenomeno delle grandi dimissioni, che ha caratterizzato il mercato del lavoro globale in seguito ai grandi sconvolgimenti causati dalla pandemia di COVID-19.

Diversi esperti hanno però sottolineato in questi mesi che in Italia, più che di grandi dimissioni, sarebbe il caso di parlare di “grande ricollocamento”: in effetti, il XXI Rapporto annuale dell’INPS dice che nel 2021 – a tre mesi dalla data delle dimissioni – poco più della metà (57%) delle persone che avevano un contratto a tempo indeterminato si è ricollocato.

Il problema risiede però nell’emorragia che alcuni settori si trovano a fronteggiare di fronte alla migrazione di queste grandi masse di persone: a rimetterci sono soprattutto il turismo, la ristorazione e la grande distribuzione, dove il numero di uscite è superiore a quello degli ingressi. Comparti molto instabili e precarizzati, dove la maggior parte dei servizi è oggi esternalizzata, ragione per cui risultano poco appetibili per chi è alla ricerca di un contratto stabile e di maggiori garanzie. Non a caso molti lavoratori decidono di spostarsi verso altri settori, come il terziario (14 %) o l’industria (4%). Per l’INPS, quindi, in questo frangente non ha contato “tanto la difficoltà a reclutare, quanto la difficoltà a trattenere”.

I settori più colpiti dalle grandi dimissioni: la sanità mette in fuga specialisti e infermieri

Un altro dato interessante che emerge dalle Comunicazioni Obbligatorie è quello della forte ripresa dei licenziamenti. Nel 2022 i rapporti di lavoro cessati per licenziamento ammontano a 752.000 unità. Se confrontati con i numeri riscontrati nel 2019 restano comunque inferiori di -116.000 unità, ma aumentano in modo consistente rispetto ai due anni precedenti. Si palesa quindi fin da subito una contraddizione tra un numero così elevato di licenziamenti e le quotidiane lamentele degli imprenditori sulla mancanza di personale. La maggior parte delle cessazioni riguarda infatti rapporti a tempo determinato che non sono stati rinnovati o trasformati in contratti a tempo indeterminato.

L’anomalia del caso italiano nel contesto internazionale è sottolineata anche dalla contraddizione tra la difficoltà che molti settori hanno nel reperire personale (ISTAT parla, nel primo trimestre 2023, di un tasso di posti vacanti, per il totale delle imprese con dipendenti, che si attesta al 2,1%) e la presenza di circa cinque milioni di persone disoccupate e non in cerca di lavoro. Per comprendere questo paradosso è necessario quindi capire quali sono i reali motivi che spingono le persone a dimettersi, e perché alcuni settori sono diventati sempre meno attrattivi nel corso degli anni per i lavoratori qualificati.

Coin focalizza la sua analisi su tre macrosettori, che sono stati particolarmente investiti dal fenomeno delle grandi dimissioni: la sanità pubblica, la ristorazione e la grande distribuzione, oltre a un accenno al settore culturale, dilaniato dal precariato e dalla retorica della passione per il proprio lavoro.

Un’indagine di ANAAO Assomed mostra, ad esempio, come tra i medici specialisti ci siano circa tremila casi di dimissioni volontarie all’anno, alle quali vanno sommate le uscite per pensionamento. In totale sono circa ottomila i medici specialisti che ogni anno lasciano il Sistema sanitario nazionale (SSN). Per gli autori dell’indagine si tratta di “una fuga senza precedenti, da Regioni con storie, organizzazioni e realtà sanitarie completamente diverse”. Altrettanto drammatica è la situazione per il personale infermieristico. Secondo il sindacato Nursing Up, nel 2021 tra infermieri e operatori sociosanitari (OSS) ci sono state più di duemila dimissioni in sei mesi. In entrambi i casi, la fuga dagli ospedali si innesta su una grave carenza di personale già esistente.

I motivi delle dimissioni sono legati all’estrema gravosità del compito che svolgono, ai carichi di lavoro insostenibili, alla carenza di personale, a cui si sono aggiunti di recente gli effetti devastanti della pandemia sulla salute psicofisica. Non stupisce allora che, secondo uno studio coordinato da Valentina Simonetti, ricercatrice al dipartimento di Scienze biomediche e Oncologia umana dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, il 71,4% degli infermieri accusa disturbi del sonno, il 33,2% ha problemi di ansia, mentre circa la metà ha difficoltà a fronteggiare lo stress. La conseguenza fisiologica di questa situazione è proprio la fuga dal lavoro: uno studio di Nurse forecasting in Europe evidenzia infatti che il 36% degli infermieri in Italia ha intenzione di lasciare il luogo di lavoro entro dodici mesi, mentre il 33% intende lasciare del tutto la professione.

Ristorazione e grande distribuzione, turni impossibili e paghe da fame: 40 ore a 500 euro

Problematiche simili – elevato turnover del personale, mancanza di equilibrio tra vita lavorativa e vita privata, orari di lavoro troppo lunghi, carichi di lavoro ingenti, ansia e disturbi del sonno – si riscontrano nel settore della ristorazione, dove, secondo Coin, “più che il Reddito di Cittadinanza, il problema è l’organizzazione del lavoro. Quando c’è una cattiva organizzazione – scrive la sociologa – i problemi seguono a cascata. Invece di pagare in busta lo si fa in nero, o metà in busta e metà in nero. Invece di assumere due persone si chiede a una di fare turni di dodici ore per coprire pranzo e cena. Invece di assumere un professionista con esperienza (che costa tanto), si arruolano studenti in stage, che costano poco o niente. Il quadro è completo: turni massacranti, giorni di riposo inesistenti e straordinari non pagati”.

Non vanno meglio le cose nel settore della grande distribuzione, dove cassieri, magazzinieri e scaffalisti hanno rischiato e in alcuni casi perso la vita durante la pandemia (l’11,5% delle denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale nel 2021 si sono verificate nel commercio), per garantire l’erogazione dei servizi essenziali.

Anche sotto il punto di vista della retribuzione la situazione non è affatto rosea: secondo un’inchiesta della Stampa pubblicata a inizio 2023, non è raro trovare in questo settore stagisti che lavorano per quaranta ore a settimana, sette giorni su sette, per poco più di cinquecento euro al mese.

“Di fatto – scrive Coin – il combinato disposto di part time involontari, lavoro sottopagato e cooperative, che spesso gestiscono i servizi di scarico e carico la notte, ha portato a galla la pervasività dello sfruttamento nella grande distribuzione”. E così, anche in questo caso, spesso le dimissioni sono l’unica via di fuga praticabile per sopravvivere.

Secondo una ricerca dell’Osservatorio Fida, realizzata con Format Research, negli ultimi due anni circa la metà delle società (47%) del settore ha avuto difficoltà a reperire il personale di cui aveva bisogno, con un impatto negativo sui ricavi. Tra le principali cause di questa carenza, si indicavano la scarsità di personale competente (64,1%), gli orari di lavoro ritenuti pesanti (40,2%), le mansioni poco attrattive (31,3%).

La fine del lavoro come lo odiano i lavoratori grazie alle “epifanie pandemiche”

Le cause delle grandi dimissioni quindi sono spesso molteplici e difficilmente ascrivibili all’introduzione del Reddito di Cittadinanza o alla mancanza di voglia/interesse dei giovani lavoratori (come sostiene invece una larga porzione dei media e dell’imprenditoria), ma piuttosto a problemi atavici del mercato del lavoro italiano, a sistemi opachi di pagamento e di contrattualizzazione, al progressivo deterioramento dei diritti e delle tutele dei lavoratori, a condizioni e ritmi di lavoro disumani, a paghe bassissime, a pratiche vessatorie e umilianti messe in atto dai superiori o dal datore di lavoro; ma anche a un cambio di paradigma rispetto al significato e al peso che occupa il lavoro nelle nostre vite. Un processo di profondo cambiamento che si era innescato già prima della pandemia, come dimostra un sondaggio svolto in centoquaranta Paesi, secondo il quale l’80% della popolazione occupata odia il proprio impiego, e che adesso ha raggiunto forza e proporzioni mai viste prima.

Lo psicologo Anthony Klotz ha parlato di “epifanie pandemiche” per descrivere i momenti di illuminazione che esprimevano la necessità di “sottrarre la nostra esistenza da una cornice economica che, per troppi anni, ha chiesto di fare sacrifici con la prospettiva di promesse che non sono state mantenute quasi mai”, come scrive Coin nel suo libro.

Siamo passati dal lavoro degli anni Ottanta – aspirazione, status symbol, occasione di riscatto – al disincanto che contraddistingue gli ultimi tempi. La domanda che si pongono oggi i lavoratori, e che è anche al centro delle grandi dimissioni, è: se le aziende non ci sono più fedeli, perché noi dovremmo essere fedeli a loro?

“La fuga dal lavoro produttivo sottesa alle grandi dimissioni […] – dice Coin – segna il rifiuto del lavoro come destino, e la presa di distanza dalle aspettative sociali. Per quanto il lavoro sia stato presentato, per anni, come una forma di emancipazione o di gratificazione, durante la pandemia questo immaginario è andato in frantumi”.

Sotto questo punto di vista, le grandi dimissioni sono la rappresentazione emblematica di un doppio fallimento: quello dei sindacati – che si sono rivelati incapaci di formare una forza lavoro organizzata in grado di resistere alla precarizzazione e alla svalutazione continua del lavoro – e quello di un certo modello aziendale, incapace di trattenere i propri dipendenti e talenti migliori, che hanno preferito fuggire piuttosto che continuare ad accettare vessazioni, ingiustizie e paghe misere.

Per Coin le grandi dimissioni sono quindi “un’affermazione di dignità e di libertà”, un segnale da non sottovalutare, che ci ricorda che “le norme che regolano il lavoro non sono eterne, ma si possono sempre riscrivere”.

"Non abbiamo più voglia di lavorare" da almeno centotrent'anni

C’è un cliché che i giornali e i media ripetono ormai da anni: “I giovani non hanno più voglia di lavorare”. Ma è davvero così? In realtà, come ha brillantemente dimostrato Paul Fairie, questo è un pregiudizio che ci portiamo dietro da quasi centotrent’anni. Il ricercatore canadese, nell’estate del 2022, ha pubblicato un thread su Twitter in cui illustrava “la breve storia del ‘nessuno vuole più lavorare’” con delle istantanee di vecchi articoli di giornali prodotti dalla stampa anglosassone sul tema, che andavano a ritroso dal 2022 fino al 1894, dimostrando l’infondatezza del pericolo.

La giornalista Charlotte Matteini ha fatto la stessa cosa per Il Fatto Quotidiano, ma limitandosi al contesto nazionale: ne emerge un quadro molto simile a quello anglosassone e a tratti grottesco. L’8 settembre 1959, ad esempio, La Stampa pubblicava un articolo dal titolo “Pochi giovani vogliono apprendere l’oscura e raffinata arte del cuoco”, in cui si raccontava che i ragazzi dell’epoca che lavoravano nel settore alberghiero preferivano fare i barman o i portieri anziché i cuochi, che si riducevano a una minoranza, nonostante “l’estremo prestigio” del mestiere e le importanti “potenzialità di carriera”.

Sempre La Stampa, nel 1983 titolava così: “La fabbrica dei giovani disoccupati”. Una cruda invettiva contro i giovani da parte degli imprenditori, che oggi ci suona piuttosto familiare: “Adagiarsi nella routine è uno del difetti del nostro Paese: i giovani che hanno trovato un posto vogliono essere certi che a una certa ora si va a casa, che il weekend è sempre e comunque sacro e inviolabile”. Arriviamo infine al 2002, quando da Roma si alza il coro di lamentele dei ristoratori che non riescono più a trovare cuochi. Scrive La Stampa: “Cuochi, meno male che ci sono gli immigrati”.

Più di vent’anni dopo, nulla è cambiato.

 

 

 

Photo credits: lavorosalute.it

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