Il mestiere del cronista ai tempi del web

Qualcuno li ha definiti i sopravvissuti. O se volete i testimoni di un tempo che fu. In effetti il cronista è l’unico mestiere, nell’ambito del giornalismo, che sopravvive all’invasione della tecnologia internet, alla comunicazione via Twitter o via web o se si vuole alla mediazione della rete. Il cronista sia esso di cronaca nera, di […]

Qualcuno li ha definiti i sopravvissuti. O se volete i testimoni di un tempo che fu. In effetti il cronista è l’unico mestiere, nell’ambito del giornalismo, che sopravvive all’invasione della tecnologia internet, alla comunicazione via Twitter o via web o se si vuole alla mediazione della rete.

Il cronista sia esso di cronaca nera, di finanza o di giudiziaria, di carta stampata o di televisione, è l’unico giornalista che è costretto a mantenere ancora un rapporto diretto con la realtà. È l’unico giornalista offline. Lo si potrebbe definire un giornalista di strada, unico testimone del cambiamento di pelle che il giornalismo ha subito in tutto il mondo con l’avvento della cosiddetta grande ragnatela del mondo, l’ormai nota World Wide Web.

Con Peter Gomez abbiamo parlato di questo e di altro: di come è cambiato il mestiere del cronista ma anche dei rapporti tra giornalismo e potere.
Peter Gomez è nato a New York nel 1963. È stato per anni cronista giudiziario del Giornale e poi della Voce con Indro Montanelli, inviato dell’Espresso, fondatore assieme a Marco Travaglio del Fatto Quotidiano, autore di decine di saggi su Mafia, Politica e Corruzione e oggi direttore del Fatto Quotidiano online.

“Direi che con l’avvento di Internet non è cambiato soltanto il mestiere del cronista ma più in generale il mestiere del giornalista. Con Internet il giornalista è sottoposto a continue verifiche. Una volta i nostri pezzi venivano dimenticati e sotterrati in archivio, oggi tutto ciò che scriviamo rimane in rete e quindi sei sottoposto a un giudizio continuo e permanente. Certo, penso che tu abbia ragione, il cronista è l’unico che sopravvive al cambiamento, è l’unico che lavora dentro i fatti, è l’unico che sta per strada. Oggi, tuttavia, di cronisti che stanno per strada ce ne sono meno di una volta. Con Internet davvero tutto è cambiato. È anche vero però che i nuovi mezzi ti consentono, per esempio attraverso i file audio e video, di raccontare storie molto belle in modo diverso. La multimedialità in questo senso è molto positiva”.

Ma se tu dovessi dare un giudizio sul giornalismo di ieri e di oggi?
“Direi che è peggiorato. Per vent’anni gli editori hanno fatto scelte sbagliate, invece di far emergere i più bravi, i più competenti, hanno favorito all’interno dei giornali quei giornalisti che avevano un buon rapporto con le proprietà dei giornali o con i poteri economici e politici.

E tu sai meglio di me che il corto circuito sta proprio lì, visto che la gran parte della stampa italiana non è controllata da editori puri ma da grandi gruppi industriali pronti a usare i mezzi di informazione per difendere i propri interessi. Io credo che sia anche per questo motivo che i giornali italiani sono poco credibili”.

Hai in mente qualche caso che ti ha colpito particolarmente?
“Di anomalie ce ne sono tante. A me viene in mente il caso degli Angelucci, gli imprenditori che fino a qualche anno fa controllavano un giornale di destra, Libero, e un giornale di sinistra, Il Riformista. Non ti sembra una stranezza? Eppure era così. E sai perché? Semplice. Agli Angelucci non interessava tanto fare gli editori, loro i quattrini li facevano con le cliniche e avere un giornale di destra e uno di sinistra favoriva questa missione”.

Ma a tuo parere il cancro della corruzione, oltre ad avere devastato le istituzioni politiche italiane ha lambito anche il giornalismo in questi anni?
“Direi proprio di sì. E la causa è sempre la stessa: un rapporto poco trasparente e assai compromesso con i poteri. Non voglio dire che i giornalisti italiani siano corrotti ma la struttura proprietaria favorisce fenomeni di questo tipo. Ti ricorderai quando negli anni ‘90 durante l’inchiesta “Mani Pulite” ci occupavamo dei rapporti non certo trasparenti tra alcuni giornalisti e la Montedison. Direi che da allora qualcosa è cambiato in meglio ma il fenomeno non è affatto scomparso: prima di Tangentopoli c’era una corruzione spicciola fatta di viaggi gratis, magari con tutta la famiglia, collaborazioni con Centri Studi di grandi aziende, strani sconti sui titoli di Borsa emessi dalle aziende. Oggi temo che la cosa sia più sottile.

I giornali sono in crisi, hanno bisogno di soldi e dunque spesso si va al di là della corruzione spicciola. Ti faccio un esempio: ho letto che per la comunicazione dell’Expo sono stati stanziati 55 milioni di euro. 5 milioni sono andati all’estero e 50 milioni sono stati spesi in Italia. Perché così tanti soldi per la comunicazione? Sarebbe interessante capire con quale criterio sono stati dati alla stampa tutti quei quattrini. Vi è poi un altro aspetto politico del rapporto tra stampa e potere. In Italia la delega all’editoria è affidata alla Presidenza del Consiglio. Il governo attraverso la legge eroga finanziamenti ai giornali e questo certamente toglie autonomia alla stampa. Mi ricordo che quando ero all’Espresso feci fatica a scrivere che il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta, era indagato”.

Qual è secondo te la categoria di giornalisti più a rischio in materia di corruzione?
“Il giornalismo finanziario, come dimostrò l’inchiesta Mani Pulite che si occupò del caso Enimont. Per anni in Italia l’insider trading, ovvero l’utilizzo di informazioni riservate a fini di arricchimento personale, non è stato un reato”.

Quanto la pubblicità condiziona i giornali?
“Soprattutto in tempi di crisi dei giornali la pubblicità pesa parecchio. È anche per questo che il Fatto Quotidiano e il Fatto online hanno deciso di avere tanti piccoli inserzionisti invece di pochi grandi. Se un inserzionista ti toglie la pubblicità per ragioni politiche, come capitò a noi con Unipol, è un guaio. Se invece hai tanti piccoli inserzionisti, la rinuncia di uno di loro a darti pubblicità pesa meno sui bilanci”.

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