Che siano necessarie emozioni forti, ora nelle vesti di improvvisati atleti ora in quelle di futuri astronauti, per diventare o continuare ad essere un buon manager è un concetto ormai universalmente sdoganato nel mondo aziendale al punto da essere quasi superato. Negli ultimi tre lustri nel grande generico contenitore della formazione esperienziale o outdoor training […]
Imprenditori analogici che cercano collaboratori nell’era digitale
Per la selezione del personale questo è stato l’anno del fenomeno che in un articolo molto dettagliato, a giugno di quest’anno ho chiamato la Saga delle Aziende che non trovano candidati. Un modello comunicativo generato da chi non ha considerato il ruolo dei social network nell’uso quotidiano e la sua importanza nell’ottica reputazionale di chi […]
Per la selezione del personale questo è stato l’anno del fenomeno che in un articolo molto dettagliato, a giugno di quest’anno ho chiamato la Saga delle Aziende che non trovano candidati.
Un modello comunicativo generato da chi non ha considerato il ruolo dei social network nell’uso quotidiano e la sua importanza nell’ottica reputazionale di chi comunica per le aziende e crede ancora nell’ autorevolezza di una notizia data dal “giornale”. Ai più attenti non sfugge ormai da tempo che gli attori di questa inconsapevole debacle comunicativa siano da una parte proprio i giornali stessi. In evidente crisi di lettori, hanno convertito quelli che una volta erano dei fruttuosi publiredazionali in notizie strillate spesso senza fondamento, i cui titoli per certi versi e in un certo ambiente (sempre più ridotto e limitato) sono sufficienti per raccattare qualche click in più a favore di inserzionisti. Dall’altro lato – ancor più grave – qualche imprenditore in affanno di visibilità di clienti e probabilmente anche in odore di crisi con i fornitori. Il sospetto è che da una parte si cerchi della banalissima pubblicità per comparire sui giornali a costo zero, dall’altra che si cerchi di giustificare ai propri stakeholders (i fornitori e i clienti, per esempio) alcune carenze dovute “non per colpa nostra”, ma per mancanza di personale, cavallette, peste, invasione delle rane, tramutazione dell’acqua in sangue e tutte le altre piaghe d’Egitto.
Non si spiega altrimenti il fatto che ci siano aziende a conduzione familiare (spesso gestite da un padre molto anziano e un figlio/a di seconda generazione, uniche presenze “manageriali”) con un numero di dipendenti al di sotto della decina che lamentano necessità di assunzioni fino a tre o quattro volte la forza lavoro esistente. Così come resta inspiegabile il motivo per cui anche le aziende più strutturate non riescano a trovare lavoratori specializzati fra migliaia di cv ricevuti.
Le spiegazioni sono sempre le stesse, ma anche i dubbi:
– “i giovani non ne vogliono sapere di lavorare per turni”. Nelle ultime versioni più generaliste: “i giovani non hanno voglia di faticare (testuale)“. Sorge in dubbio che non si stia parlando di “personale specializzato” ma di operai in catena di montaggio o di bassa manovalanza o alla meglio fornai e guardiani di notte. Perché se stai cercando “giovani”, in quanto tali non potranno mai essere così “specializzati” (se per specializzazione intendiamo anche una esperienza temporale consistente. Poi per carità, ho visto esperti con sei mesi di esperienza dare consulenze urbi et orbi).
– “offriamo 1500 euro al mese e nessuno risponde”, peccato che un tecnico specializzato per far fronte alle sfide dell’industria 4.0 – come molti di questi imprenditori dichiarano nei titoli – di certo non può costare quella cifra, il più delle volte smentita.
– “offriamo stipendi al di sopra della media e non troviamo candidati”, il punto è che quegli “stipendi al di sopra della media” spesso lo sono per i datori di lavoro che non hanno evidentemente parametri sufficienti per conoscere i regimi di mercato. A conferma ulteriore dello scarso allenamento all’assunzione.
– l’utilizzo di strumenti inadeguati per il recruiting. Il passaparola è per certi imprenditori il metodo più innovativo che conoscono. Fermi a dei siti vetrina spesso non consultabili in mobile, assenti le pagine del lavora con noi, nessun tipo di strategia di social recruiting né tantomeno – guai solo a parlarne – l’intervento di un recruiter specializzato laddove la ricerca in proprio non ha dato i risultati sperati (ma lamentarsi e dare la colpa ai giovani d’oggi è lo sport nazionale più diffuso insieme ai candidati che hanno mandato 300 cv senza ottenere risposta)
Manca sempre la seconda domanda: “Ma come li avete cercati?”
A questo va aggiunta da parte dei giornalisti che curano questi reportage, l’incapacità di fare la seconda famosa domanda: “come li avete cercati?”. Perché è qui che si sbroglia il nodo della situazione in cui scopriremo caselle di posta che esplodono di cv che nessuno controlla, inserzioni gratuite su giornaletti locali, prevenzione nei confronti di extracomunitari ma anche da emigranti provenienti dal Sud (a cui, se non offri uno stipendio che motivi il trasferimento è più che giustificato che restino a casa loro o nella migliore delle ipotesi accetteranno l’incarico per poi parcheggiarsi in attesa di una vera opportunità professionale), problemi sindacali nell’attuare correttamente i contratti collettivi di riferimento specialmente per quanto riguarda la gestione degli straordinari, problemi reputazionali dovuti alla gestione garibaldina di imprenditori e titolari.
L’anno si conclude con l’ennesima storia dell’imprenditore di successo che non riesce a trovare personale qualificato perché “i giovani non vogliono faticare”. Non è secondario che il grido di allarme arrivi dalla Lombardia – quando non è il Veneto – area geografica in cui quest’ anno si è concentrato il piagnisteo imprenditoriale. Ancor meno credibile, considerando che sugli stessi territori altri colleghi imprenditori (veri) nelle stesse regioni e anche a pochi chilometri, registrino un tasso di assunzioni da record.
Non pago delle critiche e dei commenti negativi che ognuno di questi articoli ha generato precedentemente, il Corriere della Sera decide di ospitare nella rubrica dedicata al lavoro la lettera di Francesco Casile, imprenditore della moda milanese, area geografica in cui è noto a tutti che ci sia carenza di figure che vogliano intraprendere la carriera in questo campo:
Ma da quando il rischio di impresa è del collaboratore ?
Sopravvolando – come cantava Corrado Guzzanti ad Avanzi – sullo stile dell’intervento che da solo annovera una serie di imprecisioni, di presupposti, di pregiudizi che nessun giornale dovrebbe ospitare anche solo per decoro professionale, stupisce l’accanimento del Corriere della Sera a cui non devono essere bastati i commenti dei lettori ben più preparati e giudiziosi del capo redattore che ha deciso la pubblicazione del birbante trafiletto.
Inoltre, il testo smentisce completamente il titolo, poiché è evidente che Casile non stia cercando un dipendente ma una figura (una!) a partita IVA, con auto propria, che gestisca le sue spese. In pratica, un altro esempio di imprenditore che ribalta il rischio di impresa sull’eventuale collaboratore. Un metodo molto in uso quando non si ha intenzione di assumere proprio nessuno, ma di fare solo scalpore senza intenzioni serie.
C’è da fare a mio avviso due considerazioni molto importanti su questo genere di comunicazione.
La prima riguarda il modo con cui la stampa più autorevole (o quantomeno tradizionale), dal Corriere della Sera che ha avvallato la polemica senza un minimo di approfondimento e asinamente ribattuta da Il Giornale, il Messaggero e altri per poi vedere la consacrazione definitiva nell’ospitata a Porta a Porta. Nessuna di queste testate ha aggiunto una parola in più scopiazzandosi gli articoli gli uni con gli altri. Nessuno ha pensato di fare due domande ulteriori all’imprenditore o (per carità) verificare se quanto dichiarato fosse attendibile. Non un solo commento a corredo dell’articolo. Ci hanno invece pensato decine di lettori che hanno sentito puzza di bruciato lontano un miglio, a dimostrazione che questo genere di notizie non solo non tirano più, ma sono talmente tante e ripetute con una costanza degna della miglior goccia cinese che non ci crede più nessuno. Ma forse, il caro vecchio adagio “basta che se ne parli” è sufficiente ad un certo tipo di giornali per crogiolarsi nel fatto che mille persone abbiano letto un articolo. Se poi i riscontri sono tutti a sfavore o aumentano la percezione negativa nei confronti del giornalista, dell’argomento, del giornale o del protagonista dell’articolo, evidentemente non è un dato di interesse.
Da segnalare l’Huffington Post che in un impeto di clickbaitismo, pur di non fare la necessaria seconda domanda ha ben pensato di fomentare il Casile – pensiero che in questa occasione l’ha buttata in politica dando la colpa al reddito di cittadinanza. Tutto fa brodo.
La seconda considerazione riguarda invece la stampa meno convenzionale, che in alcuni eccellenti casi ha fatto emergere il sano buon senso, un minimo di spirito di servizio verso un giornalismo più sano e ancora troppo spesso non firmato da giornalisti di professione. I migliori articoli sull’argomento li abbiamo letti su Bufale.net blog specializzato sul disinnesco delle fake news, su Next Quotidiano e precedentemente su Valigia Blu, e su Vice.
Almeno qui, qualcuno si è preso la briga di fare il giornalista.
Ma il vero tema è la scarsa consapevolezza nell’uso della comunicazione aziendale
Tuttavia la chiave di volta di tutto l’episodio riguarda l’uso della comunicazione aziendale e di quanti ancora, soprattutto nelle aziende padronali, non abbiano consapevolezza del ruolo dei social network e come questi influiscano sulla reputazione aziendale. Perché a fare i fenomeni con la comunicazione a una via sono tutti bravi. Andare in televisione da Bruno Vespa che scodinzola di fronte al presunto scoop acchiappacitrulli, essere ribattuto sui giornali dopo aver mandato in giro un comunicato stampa che viene scopiazzato a destra e a manca, ma quando poi si tratta di esporsi al confronto pubblico è qui che casca l’asino, perché diventi parte di una conversazione in cui che tu ci sia o non ci sia, gli altri parlano di te e se per caso la discussione inizia a prendere una brutta piega non solo è bene che tu sia attrezzato adeguatamente, psicologicamente e professionalmente a rispondere, ma è bene anche che tu abbia delle ottime argomentazioni.
Impossibile monitorare le centinaia di conversazioni che si sono aperte sui social, pertanto prenderò in prestito alcuni interventi comparsi su un post da me pubblicato su Linkedin, il network professionale per eccellenza.
Hai gli strumenti giusti per cercare personale?
Ad un lettore che faceva notare che se si cerca personale, quantomeno bisogna usare gli strumenti adeguati, a partire da un sito che sia letto anche da mobile, particolare non irrilevante considerando che tutti i siti degli ultimi 5 anni prestano attenzione a questo aspetto, in virtù del tipo di strumenti con cui oggi gli utenti usufruiscono prevalentemente dei contenuti web: cellulare o tablet.
Da questo momento in avanti, laddove due lettori fanno presente un aspetto certo molto tecnico ma che potrebbe seriamente influire sul risultato della ricerca del sig. Casile, questi non riesce a far altro che sbeffeggiare ogni intervento, al punto tale che un lettore fa presente:
A questo punto della conversazione la reputazione è già abbastanza minata: il sig. Casile non ha spiegato i motivi per cui non riesce a trovare personale, la sua ricerca di figura professionale si è ridotta di almeno 3 livelli finendo per ricercare niente più che un agente di commercio, ma siccome questi richiedono un impegno economico non indifferente perché gli agenti sono vecchi lupi che conoscono molto bene il loro mestiere, spostiamo l’attenzione su un giovanotto di buone speranze e di buona volontà, disposto a tutto. Casile sposta la conversazione affidando ai media il compito di ritenere degno di nota ciò che lui ha da dire, ma è un lettore che ancora una volta interviene e spiega all’imprenditore che non si può andare in televisione e sui giornali insultando giovani e persone che hanno serie intenzioni di lavorare, solo perché non rientrano nel suo modello di collaborazione e poi non sostenerne le motivazioni o quantomeno mettersi in discussione.
Basta che se ne parli?
In definitiva, con un salto carpiato all’indietro rovinando miseramente sul grammofono del nonno, sembra che “se se ne parla tanto, vuol dire che sono stato bravo“. Indubbiamente Casile ha ottenuto la sua visibilità e il suo momento di gloria; c’è da chiedersi se il brand ne abbia risentito o meno, se alla fine abbia davvero trovato la persona che cercava, se valeva la pena per UNA figura di così basso livello professionale generare un casino di questa portata e se il nome di Casile sarà danneggiato da questo episodio nelle ricerche future. Sta di fatto che il cerchio si chiude con un commento da parte di Luca Bertozzi (nonché nostro collaboratore) che in tre righe riassume una lezione di comunicazione senza la minima sbavatura se non si intende continuare a dialogare in digitale usando la clava.
(Triste) Epilogo finale
Di fronte a tanta meraviglia autoprodotta, non possiamo però chiudere un occhio sul lavoro di chi invece, nonostante il “brand di riferimento”, riesce a tessere degli annunci di lavoro che sono delle vere e proprie perle di (in)competenza. La mia categoria (quella dei recruiter) già non gode di grande popolarità sui social network, ma dobbiamo ammettere che certi colleghi – a proposito di clava – amino particolarmente puntarsela nella direzione sbagliata.
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