La lite Totti-Spalletti: bega calcistica o case-history da studiare?

Dentro o fuori? In campo o in panchina? La lite tra l’allenatore della Roma Luciano Spalletti e Francesco Totti è esplosa a metà febbraio sulle prime pagine dei quotidiani italiani, graficamente incastonata tra le drammatiche corrispondenze sull’emergenza migranti nei Balcani e l’aspra lotta politica sulla legge delle unioni civili. Ora, è bene esser chiari: puntato […]

Dentro o fuori? In campo o in panchina? La lite tra l’allenatore della Roma Luciano Spalletti e Francesco Totti è esplosa a metà febbraio sulle prime pagine dei quotidiani italiani, graficamente incastonata tra le drammatiche corrispondenze sull’emergenza migranti nei Balcani e l’aspra lotta politica sulla legge delle unioni civili.

Ora, è bene esser chiari: puntato il compasso su Roma e tracciato un raggio di 150 chilometri, esternamente a questo cerchio la vicenda è stata trattata come una bega calcistica in casa giallorossa, più o meno interessante; internamente, la litigata tra il mister e il bomber è stata vissuta come una faccenda terribilmente seria, un vero e proprio psicodramma familiare, divisivo, con toni concitati e partecipati.

A ben vedere però l’episodio (il fuoriclasse che critica l’allenatore che per questo non lo fa giocare) si presta a considerazioni che vanno oltre il mondo del pallone e la tifoseria. Abbiamo chiesto un’analisi della vicenda all’economista Andrea Piccaluga, professore di business administration e management dell’innovazione alla Scuola Superiore S.Anna di Pisa (della quale è anche prorettore) nonché presidente di Netval, il consorzio italiano che raggruppa 60 tra università ed enti pubblici di ricerca. Fin qua i meriti accademici. Si dà il caso infatti che Piccaluga, classe 1964, genovese naturalizzato a Pisa, abbia scoperto la fede romanista da adulto (grazie alla passione del figlioletto Iacopo per Totti) mentre, da adolescente, sia finito su tutti i giornali europei come vincitore del primo campionato del mondo di Subbuteo.

Era il 1978 e al centro congressi di Wembley, dopo aver battuto in semifinale il Belgio e travolto in finale la Germania (3-0) Piccaluga fu investito del titolo con tanto di trofeo. L’anno successivo fu ingaggiato per una tournè di tre settimane in Inghilterra e Scozia disputando (e vincendo) 400 partite, grazie al suo dito indice che per l’occasione venne assicurato dagli organizzatori per 50mila sterline. Il catalogo 1980 del Subbuteo definì Piccaluga “un ambasciatore dello sport italiano”.

Professore, inquadriamo il caso Totti-Spalletti  come fosse un case-history aziendale…
“Cominciamo con una considerazione: “people matter!”, perché le organizzazioni, complesse o no, sono fatte di uomini e donne. Tutti sono fondamentali, dal top manager fino alla persona che ti accoglie alla reception con un sorriso o con il broncio. Ci sono regole e routine che devono essere note a tutti e tutti contribuiscono a costruire il presente e il futuro delle organizzazioni. Dunque se “people matter”, anche “Totti importa”, eccome, ma è anche importante che alle persone sia chiaro l’insieme delle regole, le routine di gestione dell’azienda, anche quelle non scritte, che sono forse ancora più importanti”.

Detto questo?
“Detto questo, è altrettanto vero che si possono fare anche dei “controesempi”. Per esempio, soprattutto nelle imprese fortemente innovative ci sono delle persone particolarmente talentuose alle quali – se lo chiedono – va data “briglia sciolta”: vogliono indossare in ufficio i calzoni corti? Gli si dice di si. Magari anche i sandali? No problem. Vogliono venire a lavorare quando gli pare, magari di notte? Bisogna consentirglielo.
Queste persone, questi talenti sono così importanti che soltanto se messi pienamente a loro agio riescono a produrre idee e concetti inestimabili. Insomma, si tratta di soggetti che forniscono contributi così importanti e spesso unici che devono essere messi in grado di dare il meglio di loro nelle modalità che credono. Anche se questo comporta il mancato rispetto di regole che invece valgono per la maggior parte degli altri lavoratori”.

Non ho ancora capito in quale tra le due opzioni inquadri Totti.
“Bisogna fare due osservazioni. Primo: il confine tra il bisogno di far rispettare le regole aziendali e la possibilità di accordare la “briglia sciolta” a qualcuno è davvero sottile. Secondo: i talenti che si meritano carta bianca sul comportamento sono pochissimi, si contano sulle dita di una mano. Ora, io penso che il caso Totti si collochi esattamente a metà tra queste due considerazioni.
Innanzitutto il Capitano ha probabilmente infranto una regola importante: non si parla alla stampa criticando o lamentandosi dell’allenatore; queste sono cose che si fanno in separata sede, casomai nello spogliatoio o a quattr’occhi. In un’azienda ben gestita il manager e il Talento quando hanno un serio problema si incontrano e cercano di trovare una soluzione, al limite aiutati da un facilitatore interno. Ma, se mi consente, in questo caso specifico andrei oltre. Dobbiamo infatti domandarci se il buon management passa sempre attraverso il dialogo e il politicaly correct! La risposta è: no”.

A volte anche un po’ di sano conflitto, apparentemente traumatico, può portare a delle discontinuità positive.
“Nelle aziende creative, nelle start up ad esempio, la letteratura scientifica certifica che anche il “politicaly non correct”, in certa misura, genera innovazione. Come dire che un po’ di sano litigio, di sano conflitto, può scardinare dei meccanismi organizzativi e relazionali che magari si erano pericolosamente incancreniti. Sulla vicenda Totti-Spalletti i tifosi e gli sportivi in generale un po’ soffrono, ma proprio questa situazione di tensione – mi passi il termine, “creativa” – potrebbe portare ad un risvolto positivo, ossia ad una migliore gestione del campione da parte della società calcistica.
E qui arriviamo all’altro aspetto che ha appassionato e suscitato discussioni tra i tifosi: il rispetto. Nello sport, come nelle aziende, chi ha dato tanto ad un’organizzazione merita senza dubbio rispetto; un rispetto quasi incondizionato, iconico. A meno che, ovviamente, con il suo comportamento rischi di fare danni clamorosi, compromettendo gravemente un’impresa o in questo caso la squadra. Ma non mi sembra il caso recente di Totti”.

Scusi professore, ma Totti non è un campione a fine corsa? Cosa deve fare in questi casi una squadra o un’azienda che si trova con un talento agli sgoccioli?
“Lei ha toccato il cuore della vicenda. Il singolo talento va gestito in maniera diversa nelle diverse fasi della sua carriera, nello sport come in azienda. Nel mondo della ricerca – torno a fare questo esempio, che è l’ambito che conosco meglio – di solito nel periodo giovanile c’è un periodo di massima produttività, ti arrivano idee, intuizioni, ma poi inevitabilmente subentra la fase della maturità dove cerchi di mettere la tua esperienza al servizio del sistema e magari passi a coordinare i progetti dei gruppi di ricerca. Ora, non sta a me dire se Totti debba esser fatto dirigente domattina, ma forse si poteva cominciare a trattarlo in maniera diversa da almeno un paio di anni: la Roma avrebbe dovuto cominciare a valutare seriamente come utilizzare in maniera differente la sua professionalità.

Mi vengono in mente due casi simili, Del Piero e Xavier Zanetti. Nel primo caso la gestione manageriale del campione a fine carriera mi sembra sia stata, da parte della Juventus, oculata: l’hanno fatto progressivamente giocare meno, magari entrava negli ultimi minuti, ma aveva il suo ruolo, la sua dignità. Sembrava una soluzione concordata. Nel caso di Zanetti, anche qua per quel che ricordo c’è stata una buona gestione: appena ha appeso le scarpe al chiodo, l’Inter gli ha dato un ruolo gestionale importante”.

Sempre continuando il paragone aziendale: forse la Roma risente di una gestione manageriale più americana?

“Non ho elementi precisi per giudicare, ma non si può trascurare il fattore presenza per il top management. E’ vero che oggi le grandi multinazionali vengono gestite anche tramite email e video-conferenza però è altrettanto vero che incontrarsi di persona è importante – c’è sempre l’aereo – e in effetti colpisce che il presidente Pallotta sia sbarcato a Roma lo scorso lunedì dopo un anno di assenza”.

Il suo passato di campione del mondo di Subbuteo l’ha in qualche modo agevolata nella sua carriera accademica?
(risata) “Non esageriamo. È vero che grazie al Subbuteo ho vissuto esperienze molto belle, anche all’estero, però una cosa voglio dirgliela: a volte mi capita di partecipare a riunioni di lavoro, con serissimi top manager di ogni parte del mondo, della mia età, quindi cinquantenni, appena conosciuti. Finita la parte formale della riunione, spesso durante il coffee break mi avvicinano e senza farsi vedere mi sussurrano: “Ma lei è per caso il Piccaluga campione del mondo di Subbuteo?”. Quando confermo, immediatamente scattano i ricordi di gioventù. E quando si riprende la riunione l’atmosfera è decisamente più amichevole!”.

 

(Credits photo: Andrea Piccaluga. “1977, Londra: Andrea Piccaluga tra Kevin Keegan (col maglione) e Emlyn Hughes, allora rispettivamente ala destra e difensore del Liverpool nonchè titolari della Nazionale Inglese” 

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