La scuola italiana alla prova del Recovery Fund

Le riforme della scuola da Giovanni Gentile a oggi: la parabola di un’istituzione che ha rappresentato, e formato, la società di ieri e oggi.

Ci voleva il COVID-19 per scoprire che la scuola e la formazione sono gli assi strategici di qualsiasi società che voglia dirsi moderna? Ci voleva la più drammatica pandemia degli ultimi secoli per far tornare al centro della politica italiana la scuola e i servizi essenziali erogati dallo Stato? E ancora, ci voleva il COVID-19 per rivalutare il ruolo dello Stato sociale keynesiano, unica alternativa, forse, all’anarchia del libero mercato?

Potrebbero sembrare domande retoriche, ma paradossalmente la risposta non può che essere affermativa. Ed è molto probabile che, con il ritorno della centralità della scuola e della sanità, ovvero con la rivalutazione dei servizi pubblici, torni uno dei vizi capitali della politica italiana: l’utilizzo del welfare state a fini di consenso elettorale e politico.

La scuola, i 200 miliardi e l’ombra del clientelismo

È una storia vecchia, nel nostro Paese, che risale all’Italia del secondo dopoguerra, all’epoca del dominio democristiano, sulla quale vale la pena di riflettere.

Ma a voler ben guardare è anche storia recente: per la prima volta dal piano Marshall, possiamo gestire ampie risorse finanziarie; possiamo sforare con il consenso dell’Europa il gigantesco debito pubblico; abbiamo a disposizione oltre 200 miliardi di euro da distribuire nei settori strategici della nostra disastrata economia, con tutte le insidie che questa improvvisa quantità di risorse finanziarie porta con sé. Una sorta di piano Marshall che l’Europa intera si è data per guarire i guasti devastanti del Coronavirus.

Un test importante da questo punto di vista saranno proprio i criteri con i quali si faranno gli investimenti nella sanità e nella scuola. L’esperienza ci dice che dove ci sono risorse pubbliche c’è il rischio della corruzione. Ci sarà un ritorno al clientelismo? Le riforme e i finanziamenti saranno guidati dall’obiettivo del risanamento e della crescita o si tornerà ad usare le riforme come grimaldello per acquisire consensi?

La cronaca ci dice già qualcosa a questo proposito. La sacrosanta regolarizzazione di 85.000 precari annunciata dal ministro Azzolina è certamente la risposta giusta all’emergenza COVID-19, ma è pur vero che sul popolo degli insegnanti (800.000 secondo il Miur), ci sembra già di intravedere i grandi appetiti elettorali dei partiti, che in vista delle elezioni hanno aperto una caccia senza quartiere ai consensi nel pubblico impiego.

La scuola gentiliana e le riforme democristiane

Non è stato sempre così. Anzi, la scuola di massa esploderà soltanto alla fine degli anni Sessanta. Prima di allora la scuola italiana era permeata dal classismo di Giovanni Gentile, filosofo hegeliano e ministro fascista della Pubblica Istruzione nei primi anni del regime. Con la sua riforma varata nel 1923 – l’anno dopo la marcia su Roma – Gentile diede alla scuola italiana un’impronta classista che sembrava indelebile: licei classici e scientifici pensati per la formazione delle le classi dirigenti, ragioneria e istituti tecnici per il ceto medio e avviamento al lavoro per il proletariato. È una stigmate umanistico-hegeliana che durerà nel tempo e che ritarderà l’attenzione della scuola italiana verso le materie scientifiche e verso lo sviluppo economico, così come la mobilità sociale verticale.

Nel dopoguerra e fino agli anni Settanta quel modello non è più congeniale alla Democrazia Cristiana, uscita stravincente dalle elezioni del 1948. La larga adesione popolare allo scudo crociato impone la nascita dell’interclassismo. La DC non si può permettere di essere soltanto il partito principe delle classi dirigenti uscite dalla guerra: lo scudo crociato deve mettere radici nel ceto medio produttivo e nel settore del pubblico impiego per creare e consolidare quel blocco sociale emerso dal conflitto (un ruolo chiave da questo punto di vista sarà quello della Cisl, il sindacato cattolico molto presente in quegli anni nel mondo della scuola).

Così, accanto al liberismo di Luigi Einaudi che segnò in parte la ricostruzione degli anni Cinquanta, si sviluppa nel partito di maggioranza relativa il primo germe del clientelismo: la DC intuisce che per governare ha bisogno di un consenso di massa. E il consenso di massa per un partito di governo lo si può ottenere soltanto facendo leva sul potere pubblico, e soprattutto sul denaro pubblico.

Nasce un patto non scritto, un compromesso sociale e politico tra il potere democristiano e il pubblico impiego da sempre base elettorale della DC. Un compromesso che nel caso della scuola si basa su due presupposti: lavoronobilema a bassi salari in cambio della stabilità (il “posto fisso” su cui ci ha intrattenuto la comicità di Zalone), e sul quale si è basata tutta la filosofia del lavoro nel pubblico impiego per decenni. Un ruolo chiave in questo disegno lo hanno avuto le donne, che potevano godere di un lavoro a metà tempo, sia pure mal pagato, e garantire un reddito di supporto a quello del marito. Il lato negativo era che in alcuni casi il mestiere dell’insegnante veniva considerato più un hobby che un vero lavoro.

La scuola di massa e l’esplosione del debito pubblico

L’esplosione del ‘68 e la scolarizzazione di massa non riescono più a garantire questo compromesso. Scoppia il debito pubblico. Nel 1969 gli accessi all’università vengono estesi anche agli studenti provenienti da qualsiasi istituto superiore, togliendo il privilegio al liceo classico. Nascono appunto la scuola secondaria e l’università di massa. Il posto fisso tanto ambito da ampi settori del ceto medio e del proletariato vacilla paurosamente, e la piena occupazione diventa un sogno del passato. Nasce la figura inedita del precario.

Per tutti gli anni Ottanta mi è capitato di fare l’insegnante di liceo, e ricordo con angoscia la poltrona situata accanto al telefono in attesa che arrivasse qualche supplenza. Ricordo anche che un preside molto benevolo verso i nuovi precari mi annunciò con il sorriso sulle labbra che aveva convinto un’insegnante a fare un figlio e che io potevo finalmente sostituirla per tutto l’anno.

Sono gli anni in cui il debito pubblico si allarga a dismisura proprio per contenere l’ingresso in massa di insegnanti e studenti nella scuola. Sono gli stessi anni in cui lo Stato italiano chiede alle famiglie italiane di sottoscrivere un altro patto: finanziare il debito attraverso l’emissione di BOT in cambio di interessi a due cifre. Nascono i BOT people.

Tutte le riforme della scuola che si sono succedute in quegli anni hanno tentato di sopperire alle carenze strutturali della scuola italiana, come l’eccessiva distanza tra scuola e lavoro, ma nessuna riforma è riuscita a estirpare il precariato crescente, affrontato nei decenni a botte di regolarizzazioni dal sapore elettorale più che riformista.

Gli ultimi vent’anni della scuola: la deriva, la crisi e (forse) la rinascita

Negli anni Novanta, tuttavia, arriva l’autonomia scolastica, che consente un uso più efficiente delle risorse finanziarie. E nel 2000 arriva la riforma firmata da Luigi Berlinguer, la prima vera riforma di sistema che tenta di rompere con il modello classista gentiliano attraverso un “mosaico” riformatore sistematico che rivaluta il ruolo dell’insegnante ma lo costringe a un carico di lavoro a tempo pieno.

La riforma Berlinguer, anche con l’opposizione corporativa del corpo docente, dura poco. Con la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi nel 2001, cambia tutto. Come dirà Letizia Moratti, siamo “punto e a capo”. I punti cardinali dei progetti del centrodestra firmati da Letizia Moratti sono un ridimensionamento dell’intervento dello Stato e un’esaltazione della concorrenza tra scuola pubblica e privata. Il centrodestra pensa che le risorse da dedicare alla scuola siano eccessive, come è eccessivo il tempo pieno: meglio tornare al passato delle mogli-insegnanti.

Al di là delle riforme Moratti-Gelmini, per oltre un decennio con l’avvento dell’era berlusconiana si verifica un vero e proprio mutamento culturale che avrà un peso anche sulla scuola. L’idea del denaro facile e del successo a portata di mano, magari attraverso la carriera di velina, spinge molti giovani a sottovalutare il ruolo della formazione scolastica e culturale. Forse non è un caso che proprio a partire da quegli anni la scuola viene trascurata, come peraltro la sanità. Le risorse finanziarie vanno altrove, ma non certo ai servizi pubblici essenziali.

Un periodo buio per la scuola, che diventerà drammatico con la devastante crisi finanziaria del 2008, quando l’Europa in cambio del salvataggio ci chiederà di toccare i servizi essenziali del nostro Paese. Ora, mentre il virus circola ancora, il pianeta sembra mutato. L’Italia è in testa alla lista dei Paesi che possono godere dei miliardi del Recovery Fund. Speriamo che la gestione di quei soldi tenga conto del passato, e che i 200 miliardi vengano utilizzati appunto per sanare e magari sviluppare i servizi essenziali, oltre che gli asset strategici dell’economia italiana.

Visto che la prima volta non fu un bel capitolo della nostra storia, si spera che la seconda non sia una farsa. Anche perché un’occasione così appetitosa di gestire denaro pubblico a volontà non la ritroviamo più.

Foto di Andrea Piacquadio da Pexels

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