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Il terremoto in Emilia non ha spezzato le imprese
Domenica 20 maggio 2012, alle 4 del mattino, i cellulari di molte persone in Emilia-Romagna, in una zona sismica di livello 3, squillano tra messaggi e chiamate. A Mirandola l’80% delle aziende risulta danneggiata. Si contano i morti. La tragedia sorprende le imprese metalmeccaniche che costruiscono i pezzi per la Ferrari e del biomedicale. Le […]
Domenica 20 maggio 2012, alle 4 del mattino, i cellulari di molte persone in Emilia-Romagna, in una zona sismica di livello 3, squillano tra messaggi e chiamate. A Mirandola l’80% delle aziende risulta danneggiata. Si contano i morti. La tragedia sorprende le imprese metalmeccaniche che costruiscono i pezzi per la Ferrari e del biomedicale. Le successive scosse spezzano la catena logistica di imprese dell’elettromedicale come Gambro, e in Italia migliaia di pazienti rischiano di non avere accesso alle terapie salvavita fornite dall’azienda. A causa del sisma alcune stalle subiscono danni gravi ed è necessario far uscire gli animali, che grazie alla solidarietà degli allevatori vengono ospitati presso strutture di altre aziende. Il 50% del personale dello stabilimento produttivo di Granarolo di Soliera si trova a vivere in tenda o in camper o in garage, e nel 90% dei casi passa le notti fuori casa. Le scosse del 20 e 29 maggio causano 28 morti e 300 feriti, 45.000 persone sfollate e danni per 13,2 miliardi di euro.
Oggi, 7 anni dopo il terremoto “dei capannoni”, l’Emilia va più veloce di prima: nell’area colpita dall’evento si misurano più occupati ed export, con un incremento del PIL superiore a quello regionale. Le comunità colpite dal terremoto non hanno mai sospeso i processi di innovazione e sviluppo sul territorio. Tre anni dopo l’emergenza era già riaperta la fabbrica Monitor, fiore all’occhiello del polo biomedicale di Mirandola e stabilimento principe della produzione di macchine per dialisi per il mercato mondiale. Nel territorio dei container, degli sfollati, della rabbia e dello sconforto oggi si costruisce futuro. Del resto aspettare e arrendersi non sono verbi d’uso nella bassa modenese.
Paura del futuro: tornare a lavorare dopo il terremoto in Emilia
L’Italia è un territorio particolarmente soggetto agli eventi catastrofici: terremoti, dissesti idrogeologici e trombe d’aria insediano la produzione e producono danni cospicui agli impianti. Queste sciagure segnano il corpo del territorio, lasciando ferite profonde sulle economie locali.
Le imprese, le comunità e le persone, in un momento di discontinuità, prendono coscienza della loro inferiorità di fronte all’irruenza della natura o del sistema sociale e organizzativo nel quale sono immerse. Dopo aver governato la prima emergenza, ogni comunità aziendale verifica la propria capacità collettiva di affrontare il nuovo scenario sul piano emotivo, superando lo stress post-traumatico e gestendo la paura del futuro. Disturbi del sonno, difficoltà cognitive, ansia, stress e depressione impediscono alle persone di esprimere una buona energia sul posto di lavoro.
La resilienza di una comunità come quella emiliana è il processo che connette una rete di capacità con la fase necessaria di adattamento: un sistema di conoscenze e competenze permette alle persone di partecipare pienamente alla ripresa. Una traversia può diventare anche il punto di svolta. Nei momenti più duri della loro vita le imprese, anziché aspirare alla resilienza, decidono con tenacia di valorizzare il rischio e l’incertezza per rigenerarsi e per crescere.
Le persone che vivono nel cratere organizzativo aperto da un terremoto devono riappropriarsi del territorio aziendale senza avere a disposizione tutte le risorse necessarie. In questa fase è emersa la capacità di resilienza della comunità emiliana, ovvero “la solerzia nel risollevarci dalla crisi partendo da noi”. La depressione collettiva e il senso di insicurezza hanno saputo lasciare spazio alla consapevolezza e all’ingegnosità nella risoluzione dei problemi.
Abbiamo soppesato spesso in Italia la capacità maggiore o minore di reagire all’avversità di certi territori e certe regioni. I friulani dopo il terremoto del 1976 si dimostrarono gente ingegnosa. Alla Pittini in due mesi avevano rimesso in piedi i reparti a freddo. L’invito dell’arcivescovo di Udine, Alfredo Battisti, fu “prima le fabbriche, poi le case, poi le chiese”: per chi era rimasto senza casa ma era in grado di lavorare, nell’emergenza coordinata dal governo di Aldo Moro, furono recuperate migliaia di roulotte in giro per l’Italia allo scopo di garantire la continuità del lavoro nelle aziende che non erano state colpite. A causa dei danni patiti dalle imprese furono ben 18.000 i dipendenti rimasti senza lavoro che, in pochi mesi, vennero riassorbiti nel ciclo produttivo, tanto che gli occupati nel settore industriale aumentarono sensibilmente tra il 1978 e il 1979.
Una perseveranza che abbiamo rivisto in Emilia: hanno fatto la differenza l’attaccamento alle aziende e i comportamenti di cittadinanza organizzativa. La capacità di impegno reciproco intorno a valori condivisi, un vissuto di connessione e condivisione e uno spirito di servizio sono tutte priorità da coltivare per trattenere i talenti nei periodi più complessi della propria storia. Una sfida essenziale nella ripresa è rappresentata dalla promozione di una cultura della responsabilità, ovvero, etimologicamente, di una cultura che sostenga la capacità di risposta delle persone (respondere) e sia basata sull’impegno di ciascuno di fronte al peso (pondus) della crisi. Costruire un orizzonte di speranza non significa sedersi e sperare che qualcuno intervenga. La speranza non è affidarsi alla buona sorte, non è un facile ottimismo, non è il contrario della disperazione. La speranza consiste nella possibilità di costruire il futuro insieme a partire dal contributo individuale di ciascuno: “Tutto è fatto per il futuro, andate avanti con coraggio” (Pietro Barilla).
La società, il lavoro e gli anticorpi alle avversità
Il senso che le persone di un luogo o di un’azienda attribuiscono alla parola comunità, il valore attribuito alla tradizione o all’innovazione, le norme di reciprocità, un atteggiamento aperto alla collaborazione con tutti piuttosto che teso alla protezione esclusiva della propria famiglia o del proprio gruppo, l’interesse per la diversità di opinioni e di prospettive, la possibilità di sfidare l’autorità quando sbaglia: tutti questi fattori culturali sono rilevanti nella ricostruzione e nel rinnovamento.
Numerose ricerche hanno dimostrato il ruolo delle credenze delle persone nei processi di sviluppo economico e nella capacità di istituzioni e di imprese di darsi un governo efficace. Un’analisi curata dai politologi Ronald Inglehart e Christian Welzel osserva le diverse culture sotto la prospettiva dei valori di sopravvivenza rispetto ai valori di autoespressione.
Le culture della sopravvivenza pongono l’accento sulla sicurezza economica e fisica. Questi valori sono collegati a una visione relativamente etnocentrica e a bassi livelli di fiducia verso gli altri. Il concetto di felicità non è centrale nel dibattito organizzativo; l’organizzazione è guidata dalla gerarchia. Le culture dell’autoespressione, tipicamente la cultura emiliana, invece attribuiscono un’elevata priorità all’inclusione, promuovendo l’aumento della domanda di partecipazione al processo decisionale nella vita economica e politica. Il desiderio di autonomia è un’aspirazione umana universale, ma non rappresenta la priorità nei contesti in cui la vita è a rischio. Solo quando vengono soddisfatti i bisogni fisiologici e di sicurezza di base cresce l’enfasi sociale sui valori di autoespressione.
Come scriveva Eraclito, per darsi un destino bisogna avere un carattere. La parola perseveranza riassume la volontà di continuare a fare bene soprattutto in mezzo alle difficoltà e alle tribolazioni. Nel cambiamento vincono le organizzazioni che sanno riconoscere la loro fragilità e sanno chiedere aiuto agli stakeholder: le filiere che condividono valori comuni sono più forti. L’intera costruzione della società umana si fonda su questa propensione di dire all’altra persona “aiutami, fallo insieme a me, ti aiuto, tu mi insegni”. La fragilità diventa allora un passaporto verso un vero lavoro collettivo sul piano emotivo e sociale. Per questo uno dei passaggi importanti della gestione del cambiamento è il coinvolgimento attivo di tutti coloro che hanno un reale interesse alla vita dell’organizzazione e della comunità: riconoscere di fronte a loro la propria fragilità diventa un punto di forza.
In Sudafrica Mandela usava la parola Ubuntu per descrivere il fatto che tutti siamo legati gli uni con gli altri. Gli emiliani hanno saputo esprimere, in una chiave di continuità, lo spirito che caratterizza le comunità forti: “Dove è il pericolo, cresce anche ciò che ti salva” (Holderlin).
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