L’addio di Peter Aufreiter e la battaglia sui musei: “Amo l’Italia e vado via”

“Io sono molto innamorato dell’Italia, in tutti i sensi: mia moglie è italiana, di Urbino. Qui ci metto tre anni per fare quello che in Austria farei in un anno. Eppure, non so spiegarlo, ho amato lo stesso ogni piccola cosa costruita nelle Marche”. Peter Aufreiter, 44 anni, austriaco, impasta la R che ha superato […]

Io sono molto innamorato dell’Italia, in tutti i sensi: mia moglie è italiana, di Urbino. Qui ci metto tre anni per fare quello che in Austria farei in un anno. Eppure, non so spiegarlo, ho amato lo stesso ogni piccola cosa costruita nelle Marche”.

Peter Aufreiter, 44 anni, austriaco, impasta la R che ha superato il Tirolo, con un italiano corretto. Da quattro anni è direttore della Galleria nazionale delle Marche di Urbino, la sintesi della bellezza italiana. Nella forma è ospitata in un memorabile palazzo rinascimentale; nel contenuto comprende opere di Raffaello, Tiziano, Piero della Francesca, Lorenzo Lotto. Al suo interno è presente anche il simbolo pittorico del Rinascimento, La città ideale.

 

Palazzo Ducale, Urbino. Foto da terrediurbino.it

Una storia italiana: “Gli sparuti, incostanti, sprazzi di bellezza”

Quello che Aufreiter “non sa spiegare” è una storia che più italiana non si può: la tensione continua verso la bellezza, e il desiderio di unirla al pragmatismo richiesto dalla contemporaneità. Vale a dire poter dare servizi, in strutture che funzionino, per valorizzare lo sterminato patrimonio culturale italiano: “Le dico solo – puntualizza il direttore – che in Austria abbiamo sei musei pubblici, in Italia ce ne sono cinquecento”.

È una storia italiana perché Aufreiter è ai saluti finali: il 1 gennaio 2020 entrerà in servizio come nuovo direttore del Technischen Museums (Museo della Tecnica) di Vienna. E poco contano i quattro anni alla guida della Galleria nazionale con risultati positivi: “I visitatori sono aumentati del 30%, nonostante il terremoto, e gli incassi sono raddoppiati”.

L’addio ha il sapore dolceamaro, anche questo strettamente italiano: “Non mi sento più la persona giusta”, dice, “non riesco più a fare la cosa più importante, cioè dirigere un museo”.

 

Un particolare di Palazzo Ducale, Urbino. Foto da palazzoducaleurbino.it

La riforma Franceschini nei musei: arrivano gli stranieri

Aufreiter era nella pattuglia dei venti direttori di musei, tra cui molti stranieri, arrivati in Italia nel 2015 con un bando internazionale, sulle orme della riforma dell’ex ministro ai Beni culturali, Dario Franceschini. Una “rivoluzione” per i polverosi luoghi d’arte del Belpaese, che concedeva autonomia a 20 musei nazionali – tra cui Urbino – e istituiva 17 poli regionali.

Il dolce era l’aspettativa: “Abbiamo pensato che qualcosa potesse cambiare in Italia, che valesse la pena provarci. L’ho pensato io e molti direttori di musei, sia gli stranieri che gli italiani che lavoravano all’estero, e che sono rientrati con la riforma di Franceschini”. L’amaro finale è la “controriforma” voluta dall’attuale titolare dei Beni culturali in quota Movimento 5 Stelle, Alberto Bonisoli: via l’autonomia ai musei, tutto ritorna a Roma, sotto gli onnipotenti dirigenti ministeriali.

Tra il dolce e l’amaro c’è stato il gusto dell’attesa: “Quella di Franceschini non è stata una riforma perfetta, ma un primo passo. Io ho sperato in una maggiore autonomia, magari attraverso una fondazione, come è successo con il Museo Egizio di Torino”.

 

In principio fu Giorgia Meloni: la guerra culturale

Proprio il museo torinese è stato, con il suo direttore, Christian Greco, la spia del vento nuovo. In quel caso un confronto diventato virale con Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia (FdI), che lo accusava di discriminazione per gli sconti a coloro che parlano arabo, essendo il museo un’appendice del Cairo in Italia. E a poco sono servite le spiegazioni di Greco: “Ci sono sconti sempre e per tutti”, perché la Meloni annunciasse che “una volta al governo FdI prevederà uno spoil system automatico al cambio del Ministro della Cultura per tutti i ruoli di nomina”. Vale a dire: comandiamo noi, ci mettiamo chi diciamo noi.

Nella versione Meloni, è stata un’anticipazione della battaglia in corso sui modelli culturali: non più l’autonomia, ma un potere centrale e nomine che rispondono alla politica. Il contrario dell’Aufreiter pensiero: “Se io ho successo, il contratto mi viene rinnovato, con premi in base agli obiettivi. Altrimenti me ne vado. Invece con la nuova riforma nessuno sarà responsabile di niente. Per dirigere un museo ci vorrà un esperto di pubblica amministrazione, più che un manager e un direttore scientifico”. Il numero uno della Galleria nazionale aggiunge: “Già oggi trascorro il 70% del mio tempo tra carte, obblighi amministrativi e riunioni sindacali”. La versione Bonisoli, secondo i critici, vanificherebbe anche il 30 % del tempo dedicato alla gestione di un museo.

 

“Sui prestiti decide il Ministero”: i direttori passacarte

In cima alla lista dei perché per il numero uno della Galleria c’è la questione prestiti: “Se io oggi organizzo una mostra su Raffaello faccio accordi con gli altri musei, che siano il Louvre di Parigi o la National Gallery di Londra. Questo con la riforma non sarebbe più possibile, perché tutti i prestiti saranno centralizzati; gli accordi li farà il Ministero, e questo mi toglie capacità di agire, anche da un punto di vista internazionale”.

La valutazione è personale e collettiva: “Se venti direttori di museo si impegnano per fare accordi il risultato sarà migliore”. Meglio cioè l’attività di venti “più piccoli” che l’attività parziale di un colosso (il Ministero) che decide su vita, morte e miracoli di una mostra.

Punto successivo la questione dei Cda autonomi, che la riforma toglierebbe ai musei: significa eliminare l’organo decisionale, quindi aumentare, per esempio, l’incertezza sul budget: “Se io voglio organizzare una mostra, diciamo tra tre anni, non saprò mai se avrò i fondi necessari”.

 

L’addio alla vigilia dell’anno di Raffaello: “È tutto pronto”

Il paradosso per Aufreiter è quello di lasciare la guida del museo alla vigilia dell’appuntamento più atteso: il 2020 sarà l’anno del più celebre figlio di Urbino, Raffaello Sanzio, di cui ricorrono i 500 anni dalla morte. “È tutto pronto”, chiude Aufreiter.

È pronto anche lei?, chiediamo. “Mi sarebbe piaciuto fare otto anni, per completare il mio lavoro; ma non ho rimpianti, ho fatto le cose che volevo fare. Il mio contratto era in scadenza e con questa situazione di instabilità ho deciso di accettare l’incarico di Vienna, che dura cinque anni. Sono dispiaciuto, ma devo dare un futuro alla mia famiglia”.

Verrebbe da sorridere a pensare che, con una famiglia per metà urbinate, si debba andare via per sostenerla. È l’amaro che resta, dopo aver consumato il dolce italico, aspettando sapori migliori: “Tornerò in Italia, ne sono innamorato”.

 

CONDIVIDI

Leggi anche

La retorica sui migranti? Una pacchia

«La pacchia è finita». Così, il Ministro dell’Interno Matteo Salvini sul tema dei migranti, all’indomani dell’insediamento al Viminale. «I regolari e gli onesti non hanno niente da temere – prosegue il Ministro – mentre per i clandestini è finita la pacchia: preparatevi a fare le valigie». Dai braccianti agricoli alle badanti, dai collaboratori domestici agli […]