L’assicurazione non perdona: l’etica medica alle prese con la performance

Penso che nella vita a tutti sia capitato o di pensare: se mi ammalo, o se si ammala un mio caro, vorrò provare di tutto per farmi e farlo curare. Il rapporto con il medico si fonda su un vincolo di fiducia, il più stretto possibile, perché gli affidiamo la vita nostra o dei nostri […]

Penso che nella vita a tutti sia capitato o di pensare: se mi ammalo, o se si ammala un mio caro, vorrò provare di tutto per farmi e farlo curare. Il rapporto con il medico si fonda su un vincolo di fiducia, il più stretto possibile, perché gli affidiamo la vita nostra o dei nostri cari. Questo avviene da circa 4.000 anni, perché il medico prende un impegno etico raccolto nel giuramento, ispirato a quello di Ippocrate, professato quando si accede alla professione. Al primo punto recita: “Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro di esercitare la medicina in autonomia di giudizio e responsabilità di comportamento, contrastando ogni indebito condizionamento che limiti la libertà e l’indipendenza della professione”.

 

La misurazione che impoverisce: il caso della sanità americana

Recentemente ho letto il libro di Jerry Z Muller Contro i numeri (Luiss University Press). L’autore offre un’interessante analisi su come l’ossessione per i dati e il fatto di poter misurare qualsiasi prestazione, invece di migliorare le prestazioni o i risultati, porta a raggiungere risultati insufficienti, lontani dai reali obiettivi delle attività misurate. Ciò che guida questo approccio è la sicurezza, avendo i dati, di poter analizzare i risultati e di dare obiettivi univocamente misurabili e valutabili.

In realtà questo metodo non funziona per tutte le attività basate su processi non perfettamente misurabili, quali ad esempio l’insegnamento, le prestazioni mediche e tutti quelli che hanno una parte qualitativa, che la misurazione quantitativa non è in grado di comprendere nel suo insieme. Un esempio: il lavoro di un medico, o la qualità del lavoro, è misurabile con il numero di pazienti guariti? O quello di un insegnante dalla percentuale degli studenti che passano un esame? Nel libro si sottolinea come il fine di alcune professioni viene totalmente distorto dagli indici che misurano le performance, e che in molti casi indirizzano finanziamenti pubblici.

Un esempio è quello del test di fine anno nelle scuole americane, che negli ultimi tempi ha avuto percentuali di superamento in crescita, ma si è poi scoperto che gli insegnanti abbandonavano o limitavano l’insegnamento dei programmi per focalizzarsi su come far superare l’esame ai loro studenti. Nel mondo della sanità negli Stati Uniti, visto l’invecchiamento della popolazione, l’aumento dei costi derivanti da metodologie meno invasive, ma che necessitano di tecnologie e competenze più costose da formare, ha visto l’estensione di questi metodi di misurazione alla performance sanitaria, con storture simili a quelle viste nel mondo della scuola.

Nel settore sanitario però l’effetto è stato più profondo: negli Stati Uniti la copertura sanitaria pubblica è solo parziale e il resto è coperto dalle assicurazioni private. Una volta introdotte le graduatorie che misurano le performance dei medici si è assistito a un fenomeno complesso, ma che ha come denominatore comune il fatto che il paziente e la sua cura non siano più l’obiettivo della sanità. I medici e gli ospedali che sono sotto la media non appaiano nella lista di quelli in cui le assicurazioni hanno le convenzioni, per cui la media e i parametri diventano il punto di riferimento del sistema e il paziente diviene solo un numero. I medici e gli ospedali hanno reagito modificando l’approccio alle cure; i pazienti con casi difficili o complicazioni vengono giudicati non curabili, non operabili o spostati in strutture satelliti che non compaiono nelle statistiche. In sostanza, la cura del paziente e il suo rapporto fiduciario con il medico sono messi in secondo piano rispetto al risultato da raggiungere nelle statistiche annuali.

 

L’etica medica minacciata dalle logiche economiche?

In Italia la situazione è in parte diversa perché il Servizio Sanitario Nazionale è universale, cioè garantisce l’accesso alle cure a tutti i cittadini, e come secondo pilastro ci sono le assicurazioni private. Tuttavia anche in Italia hanno incominciato a essere applicate le tabelle di performance legate a politiche di contenimento dei costi della sanità. Il riflesso è simile a quello degli Stati Uniti: i medici iniziano a indirizzare la loro attività sulla base dei benchmark da raggiungere, non più sulla cura dei pazienti.

Facciamoci una domanda: se oggi ho ottant’anni e mi ammalo di una malattia che richiede cure o interventi costosi, il medico sarà ancora libero di fare un piano terapeutico che abbia come principale obiettivo la cura della malattia, o dovrà limitare il danno avendo come obiettivi il contenimento dei costi – o peggio, il costo/opportunità della cura rispetto alla mia vita residua? Il diritto alla salute può essere sottomesso totalmente o parzialmente alle logiche economiche e di bilancio?

Non ho una risposta. Vorrei però capire, per la società, quale sia il punto di equilibrio tra i due, o se l’uno debba cedere il passo all’altra. I primi che dovremmo interrogare su questi quesiti dovrebbero essere i medici, che giurano di adempiere alla loro professione in un certo modo, ma che poi vengono posti davanti a obiettivi e modus operandi da ragionieri.

 

La responsabilità del capro espiatorio

Quanto segue è frutto di un colloquio con Andrea Buti, avvocato esperto in conflitti.

All’operato passato al microscopio economico si aggiunge anche un fardello di responsabilità che non sono sempre autentiche, pur essendo assolutamente reali. In un mondo ideale un medico si dovrebbe difendere se ha fatto un errore, ma non perché un evento infausto ha colpito un paziente. Tuttavia, di fronte a un lutto, è difficile accettare che la medicina non è una scienza esatta, e che i medici hanno dei limiti come tutti gli esseri umani. Ancor più difficile se il dolore e la frustrazione della perdita, invece di essere elaborati e rispettati, si trasformano – difficile dire quanto consapevolmente – in bisogno di trovare un responsabile, potenzialmente seguito dal desiderio di vendetta legale.

E qui il compito dell’avvocato diventa delicatissimo, un autentico bivio che ha già dimostrato la sua tremenda efficacia nell’indirizzare il traffico giudiziario: “Nel dubbio, caro medico, io ti porto in tribunale; sarà poi il giudice a valutare”. Così si arriva al paradosso di una stragrande maggioranza di assoluzioni: qualcuno parla addirittura del 95%. Assoluzione che di solito non è gratuita, né sotto il profilo economico né dal punto divista psicologico.

Perché gli avvocati non dicano queste cose ai clienti è una domanda che può avere diverse risposte, dalla non conoscenza del dato (in ambito forense l’approccio statistico non è proprio la norma, anche perché in Italia non ci sono grandi servizi di data analysis in ambito giudiziario) per giungere a sfiorare il cinismo: “Tanto se non la faccio io, come avvocato, la denuncia la farà qualcun altro”. Certo, ci saranno anche avvocati pronti a confrontarsi eticamente con il cliente e pronti a dissuaderlo qualora non sussistano chiaramente i presupposti per iniziare un’azione legale contro il medico. Ma quanti sono? Difficile anche solo abbozzare una risposta: sta di fatto che la medicina difensiva è un fenomeno, non un’opinione.

Purtroppo manca una metacompetenza fondamentale: comprendere che la complessità del mondo moderno (ove conosciuta) si annida anche nel settore giuridico. Dal dopoguerra si è assistito simultaneamente a una sempre maggior conoscenza dei diritti, dovuta anche alla maggiore alfabetizzazione e scolarizzazione dei cittadini – fenomeno che di per sé è positivo. Intorno alla fine degli anni Novanta il numero degli avvocati è raddoppiato: oggi ne abbiamo oltre 200.000. Altro dato positivo, di per sé, perché si tratta – in apparenza – di uno strumento che risponde alla nuova richiesta di tutela giuridica. Terzo fattore, l’etica forense, che è cosa parzialmente diversa dalla deontologia: se già la mancanza di divieto giustifica l’azione, l’esistenza di un diritto è ovviamente una sollecitazione.

E così il nostro fondamentale diritto ad agire in giudizio, tutelato e riconosciuto dalla Costituzione, alla fine dei conti in alcuni casi diventa un bazooka per andare a caccia di formiche. Sarà un caso, ma tante pistole e fucili approntati hanno bisogno di far fuoco, prima o poi, come dimostrano altre esperienze e fenomeni. Mi viene da pensare: salviamo la formica, se indossa il camice. Specie di questi tempi.

Il bene e il male assoluti raramente esistono in purezza: molto spesso sono le dosi e le persone a fare la differenza il che significa lavorare sulla coscienza delle persone piuttosto che sulle procedure e le regole. Un compito immane, ma che qualcuno deve pur iniziare.

 

 

Photo by engin akyurt on Unsplash

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