Le città dei 15 minuti: teoria o realtà?

La professoressa Elena Granata, intervistata da SenzaFiltro, descrive applicazioni e problematiche della città da 15 minuti e spiega il concetto di “sindaco della notte”.

“Ne usciremo migliori” e “resilienza” possiamo annoverarle tra le espressioni più usate in tempo di pandemia, con un picco altissimo toccato nel 2020 e poi calato l’anno successivo: in pratica, miseramente inflazionate.

Eppure, il richiamo a tornare a fare (quasi) ciò che si faceva prima sembra più forte di tutto. Come per le aziende che richiamano i lavoratori a tornare in presenza negli uffici, con lo scopo forse di ricominciare a riempire non solo quelli, ma anche, nell’ordine: strade, autostrade, tangenziali, automobili inquinanti, mezzi pubblici per raggiungere il luogo di lavoro – che spesso si trova assai lontano dalla propria abitazione.

Le grandi aziende hanno cercato negli ultimi anni luoghi vetrina dove mettere in mostra i propri grattacieli, mentre i loro dipendenti scappavano dalle città sempre più care, rifugiandosi in periferia, mettendo tra sé e l’ufficio almeno trenta chilometri di distanza.

Il caso di Parigi

Da qualche anno si è cominciato a discutere della “città dei 15 minuti”, che consentirebbe appunto di raggiungere ogni luogo di interesse spendendo un quarto d’ora del proprio tempo: casa, ufficio, supermercato e altri luoghi della quotidianità. Bandita l’idea di farlo in auto e non per forza con bici e monopattini – altro tormentone del 2020 – ma anche e soprattutto, come dicono i tedeschi: zu Fuss.

Sarebbe più corretto però utilizzare il termine francese à pied, visto che la prima a lanciare la proposta è stata la sindaca di Parigi Anne Hidalgo promuovendo l’idea nata dal docente della Sorbona, Carlos Moreno, che aveva avuto l’idea della città dei 15 minuti in un’ottica di prossimità dei luoghi da raggiungere senza l’utilizzo di mezzi inquinanti, secondo un modello sostenibile anche a livello ambientale.

Obiettivo della città del quarto d’ora: offrire servizi e qualità della vita nello spazio di quindici minuti a piedi da casa, più sostenibilità, e soprattutto decentramento, in modo da far rifiorire l’economia anche nei luoghi non centrali.

La città sogna globale, ma vuole rimanere un villaggio

Elena Granata è professoressa associata al Politecnico di Milano, dove insegna Urbanistica e Analisi della città e del territorio. Membro dello Staff Sherpa, Presidenza del Consiglio dei ministri, G7/G20 2020-2021. Collabora come docente con l’Istituto Universitario Sophia (2016-2020), ed è vicepresidente della Scuola di Economia Civile (SEC) dal dicembre 2019. Tra le sue pubblicazioni, il suo ultimo lavoro si intitola Biodivercity. Città aperte, creative e sostenibili che cambiano il mondo (Giunti, 2019), ed è in uscita a settembre Placemaker – Gli inventori dei luoghi che abiteremo (Einaudi editore, 2021).

Elena Granata, professoressa di Urbanistica e Analisi del territorio al Politecnico di Milano.

Professoressa Granata, di questi due ultimi lavori uno rappresenta la continuazione dell’altro?
Con quest’ultimo libro mi sono chiesta chi oggi stia trasformando veramente i luoghi: non sono né gli architetti né gli urbanisti. Talvolta sono i designer, qualche volta sono dei preti che si trovano al posto giusto nel momento giusto, come padre Loffredo a Napoli (sacerdote protagonista della rinascita civile, economica e culturale del rione Sanità e dei suoi ragazzi: gestione e guida delle catacombe, scuole di teatro, musica, un centro sportivo. Lo stesso Don Antonio ha ricevuto la laurea magistrale honoris causa in Architettura dall’Università Federico II di Napoli, N.d.R.), gli imprenditori, a volte un sindaco illuminato: il placemaker è proprio colui che ridà forma a un luogo mettendo insieme delle risorse nuove, ed è un libro pieno di esempi. In Biodivercity invece si parla di città aperte, creative e sostenibili che cambiano
il mondo ragionando sulle stesse città.

La città dei 15 minuti di cui si discute spesso è davvero realtà o rischia di essere uno slogan con molto appeal e poca sostanza?
Quella della città del quarto d’ora è una metafora temporale azzeccatissima: è dimostrato dal fatto che è stata adottata
dai sindaci di diverse città europee e non solo. C’è in America Latina una versione della città della mezz’ora, a dimostrazione che questo tema di restituire l’immagine della città attraverso i tempi e non attraverso gli spazi è vincente ed è seduttivo.

Perché lo è, secondo lei?
Anche io me lo sono domandato, sin dalla prima ora: com’è possibile che un sintagma, una frase anche semplice, abbia avuto così successo? Perché rinvia a una dimensione di villaggio che in tutte le metropoli da sempre si sogna. La città ha dentro di sé il sogno di diventare globale, internazionale, veloce, ma di mantenere e custodire dentro di sé l’anima del villaggio. E quindi questo messaggio è comprensibile: dal politico, dal grande sindaco ma anche dai cittadini. In più, considerando che Moreno l’ha lanciato con Anne Hidalgo a Parigi prima che la pandemia entrasse nelle nostre vite, è stato proprio durante la pandemia che questo messaggio rassicurante del villaggio, del tornare a casa, ha fatto presa.
Quindi plaudo al collega Moreno che ha inventato questa espressione e alla stessa Hidalgo, che per prima ha immaginato di portare questa dimensione di villaggio. Che non è soltanto relazionale e comunitaria: ha a che fare coi servizi o con la dimensione di sostenibilità ecologica, perché si va in bicicletta oppure a piedi. La parte construens è ovvia: partendo dal sindaco Sala a Milano che ci sta costruendo la sua campagna elettorale, fino ad arrivare a città molto più piccole come Bologna, si sposa questa formula; che però, ribadisco, non dice niente di nuovo, perché da Cerdà nel 1800 a Barcellona (l’ingegnere Ildefonso Cerdà ideò il piano di riforma urbanistica che prese il suo nome e seguiva un impianto a scacchiera, N.d.R.), l’idea di avere la città per isolati, la città coi servizi diffusi nel territorio, le piccole piazze, è già nella storia europea. Vorrei sottolineare un aspetto. Comprendo quanto questo messaggio sia molto suadente per città come Parigi, Berlino e New York, ma noi, in Italia, la città del quarto d’ora ce l’abbiamo già.
Abbiamo mediamente città medio-piccole, da 250.000 a 600.000 abitanti, e a un milione non ci si arriva. Noi questa dimensione di prossimità, di quartiere, ce l’abbiamo in quasi tutta la struttura italiana; anzi, vorrei dire che questa città a misura d’uomo è proprio l’Italia che l’ha inventata. Potremmo dire che la città meno raccontata è proprio quella del quarto d’ora che già esiste.

Se in Italia la città del quarto d’ora esiste già, ci manca forse la città della mezz’ora?
Le rispondo con un’altra domanda: cosa si può fare fuori dal piccolo Comune che spesso non è connesso, è isolato, e oltre il quarto d’ora non va? Nel senso che non va oltre un’offerta di servizi di secondo rango: non parliamo del panettiere o del centro commerciale, ma del museo, del cinema, dell’università, della scuola. Quello che a noi manca è quello che un piccolo Comune può fare oltre i propri confini, connesso a quelli vicini; abbiamo davvero un problema di scala opposta. Seconda provocazione: torniamo alla grande scala, alla metafora del quarto d’ora nelle grandi città su cui ho posato l’attenzione più di recente. Prendiamo per esempio lo smart working. Se pensiamo che in smart working lavorano soprattutto le donne, si sta ragionando sul fatto che circa metà della popolazione lavorativa potrebbe non tornare stabilmente in ufficio. Anche alle donne che lavoreranno a casa o in prossimità cuciamo addosso una città del quarto d’ora, nel senso che trovino proprio tutti i servizi limitrofi a casa? A me, personalmente, al solo pensiero viene la claustrofobia. È altresì vero che, se ragioniamo radicalmente, questa è una città a misura di anziani, e non è pensata per una popolazione giovane e dinamica. La metafora più bella è quella di ragionare sui tempi della città: la parte più visionaria e avveniristica. La città non è soltanto lo spazio, ma è l’organizzazione temporale: se guardiamo l’altro rovescio della medaglia, una città che costruisce delle micro-oasi potrebbe essere il confino delle popolazioni più fragili, tra cui le donne. E quindi, come sempre, la ricetta è suggestiva, ma non risolve tutti i nostri problemi.

Che cosa vuol dire quindi secondo lei “ragionare sui tempi della città”?
Ci vuole più coraggio: l’Italia non ragiona assolutamente sul tempo della notte. Amsterdam ha il sindaco della notte, cioè ragiona sulle 24 ore.

Che cosa vuol dire “sindaco della notte”?
Significa che prima di tutto occorre immaginare tutta una serie di conflittualità per chi vive la città di notte, per una serie di ragioni: non ultime quelle del divertimento, considerando che nottetempo c’è tutta una serie di attività lavorative. L’idea è che il giorno e la notte possano essere armonizzati attraverso politiche di governo della città diverse e che non fanno capo allo stesso sindaco. Questo lo trovo illuminante: immaginare che ci siano delle politiche oltre il calare della sera e che queste meritino un’attenzione per chi fa commercio notturno, per chi ha locali aperti, con le conflittualità con chi vuol dormire o con gli studenti. Secondo me è un tema sul quale l’Italia è ancora molto bigotta; noi su questo aspetto siamo molto conservatori. Oppure: ragionare sui tempi della città vuol dire desincronizzare le funzioni urbane; non tutti a scuola alla stessa ora, non tutti in ufficio alla stessa ora. Durante la pandemia non abbiamo assolutamente ragionato sulla desincronizzazione dei tempi: o tutto chiuso o tutto aperto, o coprifuoco o no. Ecco, questo modello dicotomico non è la città del quarto d’ora. Lo stimolo è quello di partire da questa provocazione, che è affascinante e bella, ma guardiamoci anche dentro in maniera più critica.

A proposito di questo, pare essere sparito il diritto di critica nel dibattito pubblico del nostro Paese.
I cittadini nei prossimi anni saranno molto più esigenti, soprattutto quelli che possono permettersi di scegliere, mentre quelli che non possono scegliere pagheranno il costo delle scelte fatte o non fatte, ad esempio, in termini di rinaturalizzazione, qualità dell’aria, spazi verdi, che hanno a che fare con la nostra salute e quindi non sono temi banali. Paradossalmente chi può scegliere poteva scegliere anche prima, ma era vincolato dal posto di lavoro, quindi aveva una rendita più alta e preferiva stare nel centro città; oggi invece il cittadino ricco può permettersi di vivere in un posto in Brianza e poi venire due volte alla settimana a Milano per le sue riunioni, ritrovandosi ancora più libero e ancora più fortunato di prima. Il problema è: chi resterà in città a chiedere per tutti un diritto alla qualità? Chi si spenderà in prima persona per farlo? Gli intellettuali, le università, i tecnici stanno molto comodi, sono molto compiacenti. Bisogna avere il coraggio di criticare i migliori quando non sono adeguati. Ad esempio: è ridicolo che Milano durante la pandemia abbia realizzato trentacinque chilometri di pista ciclabile su duemila chilometri di città; da questo capiamo che si è adoperata per una porzione piccolissima, poteva essere molto più coraggiosa. Bergamo, per esempio, ha realizzato molti più chilometri di piste ciclabili, e questo restituisce il giusto diritto di critica. Ovviamente Milano ha molto più appeal e va sui giornali qualunque cosa faccia, però forse dovremmo ricordarci che è più quello che racconta che quello che fa. Oggi a Milano c’è molto più traffico e inquinamento di prima perché molti hanno ricominciato a utilizzare l’auto, e questo è un problema: il rischio è tornare alle dinamiche precedenti e azzerare tutto. Da una parte c’è una grande consapevolezza civica, e le persone hanno capito che la questione ambientale è importantissima, però poi se questo non si trasforma in azioni (non necessariamente del sindaco: possono partire da gruppi organizzati, dai cittadini, dai comitati), si spreca quello che abbiamo capitalizzato in questi mesi.

Ripensare le città e i tempi di vita, a maggior ragione dopo la pandemia, è un tema non più procrastinabile. Occorre abbandonare quel pensiero calcolante che il filosofo Galimberti ha definito come regolato dall’unico generatore simbolico di tutti i valori: il denaro. Che non è più sufficiente: è divenuto esso stesso antieconomico.

In copertina una foto scattata all’interno del Museo D’Orsay a Parigi.

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