Le menti d’opera sono ancora manodopera

Lucia è a quarantotto ore dalle sue nozze. Come è consuetudine nell’azienda dove lavora, ha organizzato un piccolo rinfresco per tutti i colleghi. La conversazione è allegra e gli stuzzichini vanno giù a meraviglia, complice anche l’orario, a ridosso della pausa pranzo. Ad un certo punto, si stagliano sulla porta le sagome dei vertici aziendali: […]

Lucia è a quarantotto ore dalle sue nozze. Come è consuetudine nell’azienda dove lavora, ha organizzato un piccolo rinfresco per tutti i colleghi. La conversazione è allegra e gli stuzzichini vanno giù a meraviglia, complice anche l’orario, a ridosso della pausa pranzo. Ad un certo punto, si stagliano sulla porta le sagome dei vertici aziendali: presidente, vicepresidente e direttore generale. Sfoggiano abiti sartoriali e sorrisi bianchissimi a trentadue denti e sono venuti a rendere omaggio alla promessa sposa. Entrano e d’incanto il silenzio cala nella sala, le mani si allontanano dal buffet, tutti si schierano in circolo, in attesa.
Poi i vertici prendono la parola, uno dopo l’altro, in ordine gerarchico, formulando voti benaugurali alla fanciulla e dispensando radiosi sorrisi e battute di circostanza. Infine, escono per tornare ai loro importanti compiti. Istantaneo il vociare riprende, così come, implacabile, l’assalto alle vivande.

Sembra la scena di un film del mitico ragionier Fantozzi, ma è un episodio di vita reale, avvenuto solo pochi giorni fa.
Ai Millennials, alla cui generazione questo personaggio non appartiene, suggerisco di andare a vedere i film. Sono uno spaccato, grottesco ma molto verosimile, degli ambienti lavorativi italiani degli anni’70 e, a quanto pare, anche di oggi. Alcuni titoli: “Fantozzi” – (1975), “Il secondo tragico Fantozzi” (1976) entrambi con la regia di Luciano Salce; “Fantozzi contro tutti” (1980) e “Fantozzi va in pensione”  (1988) diretti da Neri Parenti.

Mettiamo in pausa e analizziamo i due passaggi salienti: entrano i manager e i dipendenti si immobilizzano, come animali illuminati di notte dai fari.
Escono i manager e i dipendenti riprendono a vivere.
Cos’è che stona in questo racconto?
A dispetto della serenità e dell’apparente bonarietà dei gesti dei manager, gli altri personaggi rimangono immobili e silenziosi, in un atteggiamento sospeso, totalmente differente da quello del frame precedente.
Segno che quel gesto di prossimità è in profondo contrasto con altri gesti e altre decisioni. Segno che in quegli auguri manca il calore che ci si aspetterebbe, che c’è una contraddizione evidente con altri atteggiamenti, che mostrano un’assoluta indifferenza alle umane sorti dei figli di un dio minore.

Segno che i figli del dio minore hanno imparato sulla loro pelle a leggere oltre le apparenze, a riconoscere la vera natura di quei gesti. I manager sono incuranti della reazione che il loro apparire provoca nei dipendenti.

Immaginate di entrare in una sala dove tutti stanno vociando e chiacchierando e che, contestualmente, cali il silenzio. È possibile percepite un mutamento dell’ambiente e non è strano chiedersi il perché, a meno che il ruolo di manager non sia frutto di capacità ed esperienza, ma di ius ereditario.

Se si è consapevoli e si decide di ignorare la cosa, ci sono alcune possibili spiegazioni: a) c’è l’assoluta convinzione di poter rinnovare l’inganno in qualunque circostanza e di riuscire prima o poi a farlo in modo convincente; b) la lettura altrui non ha nessuna importanza, perché si appartiene ad un livello diverso dell’empireo e ci si diverte a disorientare il prossimo con comportamenti bipolari.

La verità è che, anche se le scuole di formazione ci hanno indottrinato sulla necessità di superare la gestione tayloristica del lavoro e avvertito da tempo sull’importanza di evolvere dal concetto di “mano d’opera” a quello di “menti d’opera”, i nostri organismi non hanno ancora metabolizzato del tutto il cambio di paradigma.

Non dominando ancora né la sostanza né la forma del nuovo modello, ecco che, nel mezzo di un perfetto esercizio di stile partecipativo, risale incontenibile dal profondo della pancia il rigurgito del vecchio.
Il risultato è un mix disorientante in cui l’apertura si riduce a pura apparenza: l’umanità si esprime nell’affettazione, il contributo è richiesto, ma non è preso in considerazione, l’analisi delle proposte è svilita ad una dimostrazione di potere, risolta a forza di decibel.
Attenzione però che ogni singola azione di chi ha un ruolo direttivo è sottoposta a scansione profonda ed analizzata al microscopio elettronico dai collaboratori. E se viene meno il valore dell’esempio, della coerenza che il management mostra tra il cammino che indica e quello che segue, la maschera delle apparenze cade, provocando la demotivazione generale.

Resteranno delusi i più partecipativi, che si sentiranno frustrati nelle loro aspettative e si confonderanno gli operativi, perché i loro sforzi per rendersi propositivi saranno stati vanificati. Per non parlare poi degli scettici, che non mancheranno di suggellare con il fatidico “io l’avevo detto!”
Sinceramente penso che, se ci si crede ancora, è meglio affermare apertamente che quello che si vuole davvero dai propri collaboratori non è diverso da quello che ci si aspettava cinquanta anni fa, piuttosto che oscillare randomicamente tra un modello e l’altro.
Se l’aspettativa è che i dipendenti facciano quello che gli viene detto, che mettano a disposizione la loro presenza e le loro energie, che badino a lavorare, mentre pensare è compito di qualcun altro, meglio dirlo chiaramente che cercare di dissimularlo.

Non sarà politically correct. Sicuramente non sarà efficace in tante situazioni, ma peggiore e più pericoloso sarebbe tentare di barcamenarsi con qualcosa di cui non si è profondamente certi, finendo per scimmiottare senza convinzione modelli di successo visti altrove. Non funziona, non funziona proprio pensare che i collaboratori siano burattini da manovrare e volere, al tempo stesso, nascondere i fili. Né dismettere la giacca e la cravatta, senza però calarsi nei panni altrui.
I nostri collaboratori lo capiranno in fretta e allora sì che saremo davvero nei guai.

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