Le pubblicità che danno filo da torcere alle Lobby

Pubblicità, sul piano etimologico, è una parola lontana dai concetti di aggressività, arroganza e prepotenza che troppo spesso la connotano. Al contrario, le sue origini indicano la conoscenza pubblica di qualche fatto, posta alla base dell’etica e del diritto: se pubblicità, quindi, significa accessibilità in grado di permettere informazione, partecipazione e controllo, allora sono alcune […]

Pubblicità, sul piano etimologico, è una parola lontana dai concetti di aggressività, arroganza e prepotenza che troppo spesso la connotano. Al contrario, le sue origini indicano la conoscenza pubblica di qualche fatto, posta alla base dell’etica e del diritto: se pubblicità, quindi, significa accessibilità in grado di permettere informazione, partecipazione e controllo, allora sono alcune precise politiche industriali, prima ancora che politiche, a esasperare la comunicazione di massa e a delegittimare le responsabilità che hanno sia i pubblici che i privati nella diffusione o nella censura di alcuni messaggi. Pensiamo solo all’Italia, contesto perfetto dagli anni Ottanta fino ad oggi di una politica pubblicitaria direttamente connessa a due grandi gruppi industriali ed editoriali, in contrapposizione tra loro, che è riuscita letteralmente ad addormentare l’opinione pubblica.
Su questo tema per esempio Bill Emmott, celebre autore ed ex editor di The Economist, ha realizzato nel 2012 la campagna di coinvolgimento “Girlfriend in a coma”, il documentario – contemporaneo al governo Monti- che denunciava quali fossero le aree da risvegliare per salvare il Paese: cultura, media, giustizia, merito, creatività, lavoro e mafia. Con quali risultati lo abbia fatto, però, è un altro discorso.
Emmott non è l’unico ad averci provato in questi ultimi anni e, dai brand alle associazioni, ecco cinque casi (+ uno) sul rapporto tra lobbismo e pubblicità degni di una menzione speciale.

1. La velenosa campagna di Greenpace che ha messo LEGO contro Shell

“Save the Arctic” è uno spot denuncia indirizzato al pubblico dei bambini: un’incessante e spietata comunicazione, basata su un minuto e quarantacinque secondi di pura tristezza, voluta da Greenpeace con lo scopo di spingere la LEGO a chiudere la storica partnership con la compagnia petrolifera, impegnata in quel momento a trivellare l’Artico.

I fatti sono andati come segue: nell’estate 2014 viene rilasciato in rete lo spot in questione che raffigura un paesaggio artico progressivamente sommerso dal petrolio, lasciando sottintendere che la LEGO, con la sua storica partnership, non facesse altro che avvallare il lavoro della Shell. Ma allo scoppio del caso, l’amministratore delegato della LEGO, Jorgen Vig Knudstorp, dichiarava che Greenpeace si sarebbe dovuta rivolgere direttamente a Shell e non usare la sua società come tramite per far arrivare il messaggio contro le trivellazioni nell’Artico, spiegando quindi di non approvare le tattiche usate da Greenpeace che potevano creare incomprensioni fra gli azionisti della società, mentre continuava ad assicurare il totale impegno dell’azienda nella produzione di esperienze di gioco creative e stimolanti. Esperienze che, da quel momento in avanti, non avranno più però lo storico simbolo della Shell, la cui collaborazione con Lego risaliva addirittura agli anni Sessanta e che, a quel punto, veniva giudicata dall’opinione pubblica come del tutto inappropriata: era chiaro ormai che le strategie di Shell di cavalcare la credibilità di altri marchi per essere associata a valori positivi erano in contrasto con i reali effetti del suo lavoro. Quest’ultima, nel frattempo, continuava a trivellare i fondali in quella parte di mondo, se non altro senza “avvelenare l’immaginazione dei  bambini”, come denunciava il video postato su Youtube dall’associazione ambientalista. Infatti di lì a poco il martellamento mediatico portava al risultato sperato perché, in autunno, il colosso danese di giocattoli annunciava di non voler rinnovare l’accordo con la compagnia petrolifera e di schierarsi a favore della campagna dedicata ai cambiamenti climatici.
La faccenda si chiude con 6 milioni di visualizzazioni per un video diventato ormai virale e Greenpeace che passa alla storia come vincitore, non solo morale.

2. Il nudo Ceres alle lobby anti-gay: un debranding da manuale, ma poco coraggioso

Non è la prima volta che ci occupiamo della comunicazione di Ceres, per aver trovato nell’utilizzo di immagini satiriche rilasciate sulla fanpage Facebook ufficiale la chiave di lettura del nuovo social advertising, molto vicino alle strategie di real marketing.

Il nudo Ceres e le lobby antigay: una campagna debranding da manuale

L’ultima di casa Ceres risale a pochi giorni fa, quando il brand è sceso in strada per il Roma Pride con delle bottiglie in edizione speciale a prendere posizione contro ogni tipo di pregiudizio. In questa occasione, le bottiglie di birra non presentavano la solita etichetta con il logo ma soltanto un collarino giallo con la scritta “No alle etichette”, un invito esplicito a non etichettare gli esseri umani e incasellarli in categorie.
L’azione è stata accompagnata da un post sulla fanpage del brand che presentava questa bottiglia con il titolo “Me la faccio con chi mi pare”: anche questo post è rapidamente diventato virale ed è stato rilanciato su Twitter e nei blog di molti digital influencer. L’iniziativa – commentata da Roberto Zepponi, Direttore Marketing di Ceres – si sposa perfettamente con il posizionamento street adottato dal brand. La strada, infatti, è il luogo dell’accoglienza, dell’incontro, della diversità e della tolleranza, fa notare Ceres. Ancora una volta applausi, ma con una postilla: Ceres gioca facile, perché agisce a fatti avvenuti limitandosi a commentarli con una battuta, oppure li previene senza mai entrare davvero nel merito delle questioni, rischiando così di far cadere presto nel populismo la sua comunicazione. Se è di fatti sociali che vuole parlare, allora aspettiamo di vedere qualcosa di più coraggioso da un brand che promette di saper prendere posizione contro tutti “i cattivi” del mondo.

3. Il caso politically correctness di NRA contro Obama l’ipocrita e snob

Nel 2013 la National Rifle Association, potente lobby americana, ha lanciato un video in cui il presidente Obama viene definito un ipocrita per la sua opposizione al piano della stessa NRA che prevedeva guardie armate in ogni scuola, mentre i suoi figli restavano sotto la tutela dei servizi segreti. “I figli del presidente sono meglio dei vostri?” denuncia il video, riferendosi alla protezione garantita a Malia e Sasha, le figlie del presidente.

“Ripugnante e vile” fu il commento della Casa Bianca nei confronti dello spot. La storia che ha causato questo attacco mediatico è quella legata alle controverse votazioni in Senato del 17 aprile dello stesso anno, quando i parlamentari statunitensi, chiamati a emendare una legislazione sulle armi da fuoco, si erano trovati polarizzati da forze politiche di palazzo molto distanti dal Paese. Il voto arrivava in una settimana in cui l’America tornava a fare i conti con il terrorismo e sulla scia di una serie di stragi recenti, una delle quali (quella di Newtown, Connecticut) fece 28 vittime, tra cui 20 bambini, scuotendo l’intera nazione. Il giorno dopo la decisione del Senato ci fu un’ulteriore sparatoria dai dettagli ancora ignoti nei pressi del campus del Massachusetts Institute of Technology, in una Boston sotto shock per le bombe alla maratona.  Si trattava di terrorismo o di violenza? Mentre si cercavano risposte a questi interrogativi, la NRA inaugurava un’implacabile campagna d’opposizione attraverso spot televisivi, articoli sulla stampa e dibattiti pubblici, con lo scopo di stroncare sul nascere il  sostegno trasversale agli emendamenti.
La crociata non sembrò aver fatto breccia negli elettori, la fece però negli eletti, chiudendo questo malaffare con un’importante sconfitta per la Casa Bianca, una vittoria per la NRA e una sfida all’opinione pubblica. Quando si dice politicamente scorretto.

4. Gaming Advertising per una scorretta propaganda su Fed Up

Il successo e i guadagni economici dell’industria alimentare si basano sulla diffusione di prodotti confezionati, che risultano poco salutari e in grado di scatenare vere e proprie dipendenze, finendo col portare nelle migliori delle situazioni all’obesità. “Fed Up”, il film prodotto nel 2014 da Katie Couric e Laurie David, denunciava proprio tale fenomeno e la principale lobby dell’industria alimentare Usa, di fronte a questo, ovviamente non ha taciuto.

La pagina di propaganda Fed Up Facts: cliccandola, si atterra sulla home del gioco.
La pagina di propaganda Fed Up Facts: cliccandola, si atterra sulla home del gioco.

La scorrettezza dell’azione comunicativa in questo caso è duplice: la lobby avrebbe agito in gran segreto  ancora prima del lancio ufficiale della pellicola nelle sale cinematografiche, avvenuto il 9 maggio. “Fed Up” concentra infatti la propria attenzione sulle cause primarie dell’epidemia di obesità tra gli statunitensi, con particolare attenzione all’aggressiva azione di lobby del settore alimentare e alle campagne pubblicitarie che hanno contribuito alla diffusione del problema. Per opporsi al potere della nuova pellicola, proprio la lobby sotto accusa decise di dar vita ad un sito web alternativo, che porta il titolo di Fed Up Facts e che a prima vista appare molto simile alla pagina ufficiale dedicata al film. Ma anziché dare spazio al trailer della pellicola, il sito ospita un quiz online che spinge gli utenti a valutare in positivo l’operato dell’industria alimentare. Il gioco, realizzato dalla Grocery Manifactured Association, una delle più importanti lobby del settore, è una vera e propria pagina propagandistica a favore dell’industria alimentare. La tattica utilizzata, tanto inusuale quanto controversa, non ha garantito i risultati sperati, tanto da sporgere la GMA stessa ad affermare poi di non aver avuto alcuna intenzione di inviare messaggi fuorvianti ai visitatori attraverso il sito.
Ma i fatti parlano da soli: nonostante la campagna di lobby, non solo gli autori del film e i loro supporter non si sono scoraggiati, ma la pellicola ha riportato fatti così chiari e netti da risultare inattaccabile. Come da intento dei propri ideatori, “Fed Up” ha dimostrato quindi ai cittadini come l’industria alimentare abbia agito sulla mente dei consumatori con un vero e proprio lavaggio del cervello, fin dall’infanzia, e come le lobby siano intervenute nel tempo per impedire ai legislatori di dare vita a importanti cambiamenti.

5. Guinness bestemmia e innalza il non-conventional marketing

“Made of More” è stato lanciato nel 2014 e, se ha anche solo un principio in comune con il cosiddetto marketing “non convenzionale”, sicuramente si tratta allora di un’azione pubblicitaria che non ha cercato un posizionamento sul mercato, ma un senso in società.  Meravigliosamente blasfemo e rock’n’roll, sin dalla traccia musicale scelta, “What makes a good man?”dei The Heavy, il senso più bello di questo spot risuona dritto nel petto, come una freccia che buca il cuore: la canzone dice “Dimmi, adesso, cosa rende buono un uomo? Non c’è niente di sbagliato in questa bestemmia, l’esperienza ha un altro significato per me” e man mano che il film si dispiega, è chiara la bestemmia a cui si riferisce, criticamente, il messaggio della Guinness.

Lo spot è stato girato in Sud Africa ed è  ambientato in questo esatto momento storico. Cita infatti guerre e crisi che stiamo realmente vivendo e le mostra dal punto di vista dei Sapeurs congolesi, gli “edonisti neri”, i maniaci africani del lusso, maestri indiscussi di stile ed eleganza che, ipercriticati dal resto del mondo per i loro eccessi vissuti in un contesto di tragicità, sembrano arrivare da un altro pianeta: in questa piccola perla cinematografica, si illustrano le vicende che portano ai Sapeurs a stare insieme, fondando una morale comune basata su rispetto e creatività. Si vedono gli uomini gettare gli abiti da lavoro e, a fine giornata, iniziano la propria trasformazione. “Io sono il padrone del mio destino, io sono il capitano della mia anima” è il credo dei Sapeurs, una subcultura cresciuta in Congo come espressione di disobbedienza civile al regime di Mobutu.

Insieme a campagne da brivido come la “Power to you” andata in onda in Egitto poche settimane prima della Primavera Araba, questi spot fanno la storia della pubblicità, perché ricordano ai popoli sottomessi e a tutti i cittadini del mondo che il destino di tutti noi non è già scritto e, attraverso un messaggio fortemente emotivo, ci fanno immaginare quale potrebbe essere anche il nostro immenso potere per il Cambiamento, per la nostra vita e per la nostra società.

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