Linguaggio al lavoro: chiamate le cose col loro nome

Cosa hanno in comune un pitch, una lettera di presentazione e un post su un social network? La capacità, o meno, di creare un legame fortissimo con chi li ascolta o chi li legge. Quasi sempre il merito è delle parole. Parole capaci di creare mondi e condividere visioni, alzare barriere o definire zone di […]

Cosa hanno in comune un pitch, una lettera di presentazione e un post su un social network? La capacità, o meno, di creare un legame fortissimo con chi li ascolta o chi li legge. Quasi sempre il merito è delle parole. Parole capaci di creare mondi e condividere visioni, alzare barriere o definire zone di comfort e caste, sottrarsi alla tirannia delle frasi fatte, quelle che hanno il potere – come dice Annamaria Anelli, business writer e autrice dell’interessante podcast Le parole per farlo – di uccidere qualsiasi racconto. Ogni mestiere ha le sue parole, i suoi feticci, i suoi registri. Non per niente si va in difficoltà quando ci si rapporta a persone che fanno un lavoro diverso dal nostro e che parlano quindi un’altra lingua.

Ciò che è certo è che mai come in questo momento storico il linguaggio che utilizziamo è parte fondante delle nostre competenze professionali. Ma chi ci insegna a usare le parole giuste? Chi ci spiega come rendere accattivante, persuasiva o semplicemente interessante un’e-mail? Nessuno. Non accade durante i primi anni della nostra formazione professionale, dopodiché la diamo come skill acquisita, sebbene non lo sia.

 

Il linguaggio al lavoro nell’era dei social

Occorre prendere atto che siamo in una fase di cambiamenti linguistici rapidi, favoriti dai nuovi media. Se Facebook ha “già” compiuto dieci anni e ha in parte condizionato il nostro modo di dialogare con gli altri, costringendoci di fatto a rivedere alcune convenzioni linguistiche, oggi si fanno strada social network che si servono poco della parola scritta (Instagram) e ultimamente rinunciano anche a quella “orale”: su Tik Tok, ad esempio, si parla pochissimo e si canta molto. Le emozioni si esprimono più che altro con la mimica facciale, con le inquadrature e gli effetti. Non ci sono migliori o peggiori, e non c’è neanche uno scontro generazionale. Ci sono solo evoluzioni che condizionano la nostra principale attività quotidiana: il lavoro.

Se è vero che il nostro compito principale è quello di portare a termine con successo gli incarichi che ci vengono assegnati, è altrettanto vero che non possiamo trascurare l’importanza del linguaggio al lavoro. Ma che tipo di linguaggio è giusto utilizzare? Il filosofo e linguista Noam Chomsky sostiene che “parlare in modo complicato, utilizzando parole difficili, sta a segnalare che si fa parte dei privilegiati. Ma bisogna chiedersi se tutti quei discorsi hanno un contenuto, se non si riesce a dire la stessa cosa con parole semplici. È quasi sempre possibile”.

Certo, ci sono professioni che richiedono competenze e linguaggi particolarmente sviluppati. Ma al di là delle specificità, qualsiasi lavoro si faccia, ciò che più importa è prestare attenzione alle parole che si pronunciano, che possono condizionare significativamente il clima in ufficio e, in definitiva, propiziare (o sabotare) il buon esito delle mansioni che all’interno di esso ogni dipendente deve svolgere.

 

Parlare con esattezza e chiamare le cose con il loro nome

Un problema che spesso si verifica nell’ambiente di lavoro è che il messaggio inviato non sempre arrivi a destinazione. Spesso avviene per colpa del mittente, che dimentica di utilizzare il codice giusto, quello che permette al ricevente di cogliere con agilità il senso delle sue parole. È indispensabile allora uscire dai tecnicismi: se un datore di lavoro ci incarica di riferire ai colleghi che la riunione pomeridiana è stata rimandata non occorre usare vocaboli ricercati. Parlare bene è importante, ma bisogna ricordarsi sempre di tarare il linguaggio al tipo di comunicazione o informazione che dobbiamo trasmettere. Non bisogna soltanto dire la cosa giusta, ma occorre infatti impegnarsi a dirla anche nel modo giusto.

Italo Calvino, nelle sue Lezioni Americane, parla di “Esattezza”. E scrive, a proposito dell’italiano dei suoi contemporanei:

“Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste nel linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze.”

Non è forse quello che proviamo ogni volta che qualcuno utilizza con noi frasi fatte e parole vuote come “l’azienda giovane e dinamica” o “leader a 360°”? Oppure quando abusa dell’inglese inventando neologismi che non vogliono dire nulla? Per Michele Dalai, scrittore, autore televisivo e CEO di Clutch Academy (un percorso di formazione narrativa per aziende pensato per migliorare le prestazioni sotto pressione all’interno dell’ambiente lavorativo), esistono due livelli di comunicazione: un livello più istituzionale, in cui purtroppo accade che le parole si svuotino e perdano senso perché vengono replicate quasi come fossero paletti formali e non di sostanza alla comunicazione in azienda, e un livello sostanziale, sicuramente più interessante, in cui vengono usate delle giuste parole, degli innesti di significato, per ottenere dei risultati.

“Dobbiamo cercare di recuperare le scorciatoie, ovvero parole che abbiano un significante comprensibile e un significato molto forte. Parole che magari vengono di nuovo dal quotidiano e non dal manuale di buona comunicazione aziendale, ma che tagliano la distanza, che la accorciano enormemente, riportando anche un suono e un senso familiare per le persone. È qui che risiede la differenza tra una comunicazione inefficace, vuota, che utilizza anche aggettivazioni grottesche, da una comunicazione efficace, quella delle parole che vengono dal ‘tagliere del salame’, che rappresentano un nesso diretto tra causa ed effetto; cose che invitano all’azione direttamente. Il tema non è anglicismi o meno, il tema è come vengono utilizzate le forme. A volte le forme distruggono la motivazione e la sostanza del lavoro d’azienda”.

 

Perché un buon manager deve saper scrivere bene in italiano

Se il parlato costringe poi a una certa velocità di elaborazione, lo scritto ci porta invece a riflettere più approfonditamente su ciò che intendiamo dire.

Saper scrivere significa riuscire prima di tutto a esprimere nel migliore dei modi quello che si ha in testa. Molti sono convinti che la scrittura richieda un talento speciale che alcune persone hanno e che molte altre non possiedono. In effetti, se parliamo di veri e propri scrittori, questo è sicuramente vero; ma si può imparare a scrivere in maniera chiara e corretta tramite un processo che può essere gestito, proprio come qualsiasi altro processo aziendale. Lo scrittore James Baldwin sosteneva che “si scrive per poter cambiare il mondo”. Senza avere questa pretesa, riuscire a comunicare meglio quando si scrive può davvero aiutare ad avere risultati professionali migliori.

Oggi più che mai, infatti, saper scrivere con una piena, disinvolta e forbita proprietà dell’italiano costituisce per chi lavora un enorme valore aggiunto. È un dato che suona paradossale se solo si pensa ai testi delle e-mail o alle conversazioni tipo che intercettiamo nella quotidianità: abbreviazioni, elenchi puntati, espressioni gergali, inglesismi, utilizzo di un numero sempre più limitato di parole.

Saper scrivere bene in italiano significa riuscire ad adattare qualsiasi concetto al contesto, al destinatario e al mezzo. Oggi la capacità di plasmare le parole in modo camaleontico è fondamentale, perché chi legge o chi ascolta il più delle volte è un soggetto pigro, presuntuoso e distratto da un sovraccarico di informazioni. Pretende di capire al volo, senza alcuno sforzo, ma soprattutto si distrae molto facilmente. Una e-mail lunga due righe più del dovuto non viene letta con attenzione perché percepita come troppo impegnativa; un concetto articolato in modo ridondante genera equivoci e incomprensioni perché il cervello del lettore si disconnette ogniqualvolta percepisce complessità. Un manager che manipola la lingua è capace quindi di ottenere sempre l’attenzione vigile di chi legge e ascolta, perché riesce a tagliare e cucire le frasi a seconda dei suoi obiettivi e del contesto in cui opera.

Saper scrivere bene in italiano significa anche trovare le parole giuste per connettersi con chi ci sta intorno dal punto di vista emotivo. Significa saper motivare colleghi stanchi o depressi, significa poter gestire clienti contrariati, dire di no ai propri collaboratori in modo incisivo e al contempo rispettoso; significa commentare un errore senza giudicare.

E infine, saper scrivere bene in italiano significa potenziare la propria capacità di affabulare e di raccontare in modo affascinante e persuasivo: viviamo in un tempo in cui il manager non solo deve organizzare qualcosa, ma deve anche raccontare qualcosa. Nel mondo del management i concetti di narrazione e di storytelling hanno ormai travalicato i confini del marketing. Da questo punto di vista chi conosce profondamente l’italiano ha assorbito nella sua ricca esperienza di lettura gli schemi e i modelli del racconto, ed è dunque spontaneamente – si potrebbe dire inconsapevolmente – un narratore.

 

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