Se le donne scoprissero l’empowerment già da bambine

C’è un principio buono che ha creato l’ordine, la luce e l’uomo, e un principio cattivo che ha creato il caos, le tenebre e la donna. (Pitagora) Secondo Simone De Beauvoir, non sono i dati della biologia che influenzano il nostro destino: «Donne non si nasce, lo si diventa», scrive la saggista francese nel celebre […]


C’è un principio buono che ha creato l’ordine, la luce e l’uomo, e un principio cattivo che ha creato il caos, le tenebre e la donna. (Pitagora)

Secondo Simone De Beauvoir, non sono i dati della biologia che influenzano il nostro destino: «Donne non si nasce, lo si diventa», scrive la saggista francese nel celebre Il secondo sesso, pubblicato nel 1949. «L’esistenza di gameti eterogenei non basta a creare due sessi distinti», prosegue la scrittrice, consegnando al grande pubblico il dibattito dal quale, nel 1955, il sessuologo statunitense John Money trarrà la distinzione fra sesso — le differenze bio-fisiologiche fra donna e uomo — e gender, termine mutuato dalla grammatica che pone l’accento sulle differenze culturalmente costruite — e date per assodate — fra i due sessi.

Ne sono trascorsi di anni dai primissimi gender studies — da non confondere con la pseudo-teoria del gender, neologismo clericale che si fonda su presunte differenze universali e dunque necessarie fra uomo e donna — e dal dibattito sulla dialettica fra generi: in ambito politico (Joan Scott), sull’uso maschile del linguaggio verbale umano (Sally Alexander), sull’opportunità o meno di cedere il passo e aprire la portiera dell’auto. Le studiose parlavano di compensazioni. Eppure, passando oggi in rassegna i negozi di una via cittadina o di un centro commerciale, si ha come l’impressione di avere infilato un paio di occhiali da sole (qualcuno ricorda Essi vivono di John Carpenter?), le cui lenti veicolano inevitabilmente un certo colore della realtà: rosa per le Brats e i mini set da cucina delle bambine; azzurro per macchinine e costruzioni dedicate ai maschietti. Non solo, dunque, l’eterna divisione fra rosa femminile e azzurro maschile continua a esistere, ma nella società di oggi è più forte che mai.

…Ti sorprende sempre

Secondo Lorella Zanardo, autrice di Il corpo delle donne (Feltrinelli, 2010) e Senza chiedere il permesso (Feltrinelli, 2012) una grossa fetta di responsabilità spetta al linguaggio televisivo che, attraverso una specifica visione del corpo femminile, influenza la prospettiva di genere. Anche nel mondo del lavoro. «Facevo la manager. Anni fa sono stata fra le prime donne a lavorare in una multinazionale estera e a diventarne dirigente, quindi conosco bene le dinamiche legate al lavoro», commenta Zanardo. «Ecco perché posso affermare che la rappresentazione femminile proposta dai media ha un’influenza fortissima su noi donne che lavoriamo; questa rappresentazione tende non solo a raffigurarci nella nostra bellezza — il caso delle Veline — ma mira anche all’oggettivazione, a rappresentare donne mute, prive di microfono, autrici di battute idiote, con le telecamere che inquadrano parti del corpo anziché il volto. Tutto questo contribuisce a creare, anche nel lavoro, un’idea della donna svilente». Una visione, dunque, che si ripercuote in modo diretto sul fruitore del medium televisivo, che veicola a sua volta quest’immagine all’interno del proprio contesto professionale.

«Chi guarda la televisione? Tutti.», prosegue Zanardo. «E, di conseguenza, per buona parte della popolazione, la visione televisiva della donna determina le scelte che vengono fatte in ambito lavorativo. Oggi in politica e nel mondo del lavoro la dirigenza è tipicamente maschile, perché chi deve decidere è fortemente influenzato dal tipo di rappresentazione della donna di cui fruisce ogni giorno. È riduttivo ed è sbagliato credere che il mondo del lavoro sia separato dal mondo restante: il Presidente di un CDA, che deve scegliere chi inserire all’interno del Consiglio, è inevitabilmente influenzato dalla visione femminile nel mondo mediale: sfogliando una rivista, guardando la televisione o la pubblicità. E, se l’idea subliminale che passa è quella di una donna oggettivata e non in grado di prendere decisioni, questo lo influenzerà moltissimo».

E ora, Pubblicità!

Secondo il sociologo Marshall McLuhan, la pubblicità è la più grande forma d’arte del XX secolo. Eppure, la pubblicità italiana è considerata fra le più sessiste al mondo. Secondo uno studio relativo alle campagne pubblicitarie del 2013, coordinato da Massimo Guastini dell’Università di Bologna, nel nostro Paese esiste una rappresentazione della donna sessualizzata e stereotipata. La pubblicità nostrana, per esempio, mostra donne sessualmente disponibili (il 12,9%) a fronte di un esiguo corrispettivo maschile (1,7%). Donne sull’orlo di una crisi di nervi per il calcare che corrode il box-doccia o per la polvere che perdura (solo Swiffer la cattura!). L’italiana è raccontata in modo insignificante dal punto di vista della personalità e della preparazione, mentre il profilo maschile è decisamente orientato su lavoro e competenze. Televisione e pubblicità, dunque, raccontano di modelle (35,52%), grechine e donne ornamento (20,2%), donne manichino (6,69%) e mamme (5,89%). E di uomini professionisti (50,97%) o di sportivi (13,2%). Ma siamo davvero ciò che ci rappresenta?

«Esiste un’interessante ricerca, a cura del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Padova — commenta Lorella Zanardo — che ha diviso un campione statisticamente rappresentativo di studentesse di Psicologia in due gruppi. Al primo sono state mostrate immagini di donne rappresentate attraverso i media e al secondo un documentario sugli animali. In seguito, è stato somministrato ai due gruppi un compito di matematica. Le ragazze del primo gruppo, che avevano visto le immagini delle donne oggettivate, hanno riportato risultati decisamente peggiori».

Il linguaggio oggettivato del corpo femminile, quindi, influenza non solo i nostri manager e colleghi, ma anche noi stesse. «Quando mi viene detto che le ragazze non vogliono studiare matematica, spiego che questo non dipende dal fatto che esse non sono adatte — prosegue Zanardo — quanto dall’abitudine, sin da bambine, a guardare un’immagine della donna svilente: di noi Veline, di noi svilite, di noi ridacchianti; e così non aiutiamo l’empowerment delle bambine». Ecco perché le decisioni femminili variano considerevolmente a seconda del contesto. Chi è più fortunato, determinato, chi proviene da un ceto sociale e culturale più elevato ce la fa. E questo significa: quante opportunità stiamo perdendo?

Il meglio di un uomo

Il mondo del lavoro, dunque, non può che assorbire de facto certe dinamiche. E la questione non si limita — solo — alla classica segretaria, necessariamente donna e necessariamente efficiente — come solo mammà sa fare — e neanche alle richieste, nemmeno così velate, tipicamente rivolte alle impiegate negli uffici: dare una riordinata, prendere appunti e servire il caffè durante una riunione. «La questione è più ampia — suggerisce Zanardo — perché oggi sono tantissimi i ruoli ricoperti dalle donne in azienda. Eppure le aziende, da parte loro, dovrebbero avere un forte interesse a cambiare le cose, perché una persona, uomo o donna, capace di mettere a frutto le proprie potenzialità è in primis una risorsa per l’organizzazione».

Nonostante ciò, i manager donna tendono a essere meno comuni in certe aree. Per esempio, in ambito tecnico e ingegneristico. Secondo la letteratura, le ipotesi più accreditate sono due. L’economista Barbara Bergmann, sostiene che sarebbero gli stessi datori di lavoro a escludere le donne da particolari occupazioni, reputate maschili, con conseguente affollamento delle lavoratrici in occupazioni classificate come femminili; l’offerta di forza lavoro verso queste occupazioni aumenta e, di conseguenza, diminuiscono le paghe. La seconda teoria, anch’essa elaborata da un economista, Rendall Filer, prevede invece che le donne selezionino occupazioni a basso investimento in termini di capitale umano, per fare fronte a impegni familiari esistenti o programmati: secondo dati ISTAT, ancora oggi, nel nostro Paese, sono principalmente le donne a occuparsi della gestione della casa e della cura dei figli. La rappresentazione dei generi è, dunque, una questione di natura o di cultura?

«Secondo una recente ricerca, coordinata dall’Università di Firenze, nei libri di testo delle scuole elementari le professioni maschili sono circa settanta o ottanta: dal medico, all’astronauta, al parrucchiere; mentre quelle femminili sono pressappoco un terzo e, in genere, si tratta di professioni molto servili. In quale misura questo dovrebbe interessarci tutti? L’azienda, la politica dovrebbero chiedere per prime la revisione di questi libri», suggerisce Lorella Zanardo. «Sono spesso chiamata in azienda a fare la speaker su questioni legate all’empowerment femminile: ma l’empowerment non si improvvisa a trent’anni. Lo si fa da bambine. Nella realtà, le donne non sono solo casalinghe, infermiere o parrucchiere, ma anche manager, professioniste e molto altro. Allora, perché non raccontarlo nei libri e ispirare le bambine a fare altri mestieri?».

Come natura crea?

Dall’altra parte della Manica l’antifona non cambia. Secondo la giornalista inglese Natasha Walter, autrice di Bambole viventi (Ghena, 2010), stiamo assistendo in questi anni a un vero e proprio revival del determinismo biologico, l’idea secondo cui le differenze fra generi sono insite nel nostro codice genetico. Glamour modelling — la tecnica di fotografare una donna nuda, pur senza ritrarne i genitali — lap-dance, prostituzione: sono solo alcune delle scelte femminili apparentemente libere e che invece, nella realtà, vengono condizionate dal linguaggio del corpo veicolato dalla televisione.

«Un’interpretazione distorta da parte dei media quando si parla di scienza legata alle differenze sessuali non è un caso isolato», scrive Natasha Walter, mettendo in luce la pseudo-scientificità di certe ricerche che, pur condotte da enti autorevoli e supportate da figure di massimo rilievo, non tengono conto di criteri scientifici. Come Questione di cervello: la differenza essenziale tra uomini e donne (2004), a cura di Simon Baron-Cohen dell’Università di Cambridge e ripresa più volte da “The Guardian” e “The New York Times”, che si basa su un singolo esperimento. Su un caso isolato. O come Il cervello delle donne (2006), coordinato dalla biologa Louann Brizendine dell’Università di Yale e commentato dal “Daily Mail” e dal «Sunday Times», in cui è assente il campione di controllo.

«Il lavoro di questi scienziati è stato ripreso con entusiasmo da alcuni scrittori celebri», prosegue Walter. Come John Gray, autore di manuali di self-help, secondo cui la differenza fra uomini e donne dipende dal fatto che gli uomini provengano da Marte — e il loro grado di felicità è direttamente proporzionale al tasso di testosterone — e le donne — dipendenti dal grado di ossitocina — provengano da Venere. Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere (Rizzoli, 1992) è un best-seller che ha venduto milioni di copie ed è stato ripreso con altrettanto entusiasmo anche da un certo tipo di stampa autorevole, come «The Economist», nonostante la teoria di Gray non abbia dato luogo a tentativi per trasformare ipotesi approssimative in qualcosa di scientifico.

Perché io valgo

«Prima di parlare di donne portate o meno per percorsi di tipo scientifico e di ricerca, sarebbe necessario, quindi, metterle in condizioni di accedere a queste possibilità», suggerisce Lorella Zanardo. (Ma è davvero così semplice parlare di merito in Italia?) «Anche perché, nello stesso mondo del lavoro, l’iter di selezione e di carriera è strutturato secondo item e caratteristiche tipicamente maschili ed è chiaro che, con queste premesse, le performance femminili vengano viste come esigue, se non fuori valutazione». Questo aspetto ha ripercussioni pesantissime in termini di autocoscienza, autoconsapevolezza e costruzione dell’io. Dopo avere guardato certi programmi, molte donne si sentono in dovere di aderire all’estetica e ai modelli femminili basati sulla visione della doppia morale e veicolati dalla televisione, che conducono prima alla creazione di modelli stereotipati e poi al bisogno di conformarvisi. Prosegue Zanardo: «Se una donna non è attrezzata culturalmente e sente di non appartenere al gruppo di chi è approvato prova una forma di tristezza, che non comprende da cosa derivi. Ricevo centinaia di e-mail da ragazzine, che mi raccontano questa forma di disagio. “Io non vado bene”, scrivono. E questo “Non andare bene” significa non aderire a quello che io definisco modello unico televisivo. Chi, invece, ne è consapevole prova una fortissima indignazione. E poi c’è una piccolissima percentuale di donne, che sceglie deliberatamente di non rientrare in quel modello, che percepisce come sbagliato e che, dotata di un carattere di ferro e con un un certo tipo di famiglia alle spalle, prova a cambiare le cose. Combattendo faticosamente ogni giorno per conquistare ciò che è semplicemente equo».

Non è così scontato, dunque, che femmine e maschi siano davvero destinati a ricoprire un certo ruolo — e ad essere rappresentati in un certo modo — sin dalla nascita; ma come può essere possibile, altrimenti, operare un cambiamento di rotta? «Attraverso l’ascolto», conclude Zanardo. E il confronto. «Spesso, le aziende che mi contattano per parlare di empowerment e di valore femminile scelgono di farlo partendo da modelli basati su schemi tipicamente tramandati al maschile. Le aziende dovrebbero ascoltare le donne e accettare che nuovi percorsi vengano inventati. Bisogna iniziare ad accettare il fatto che la maternità non rappresenti un problema; io stessa, da quando ho due figli, sono molto più creativa». Ed è noto, che la qualità del lavoro non si misura dal tempo trascorso in azienda e che la creatività non si genera per forza fra le mura di un ufficio.

Confronto, ascolto, cambiamento. E una rappresentazione diversa del corpo umano, che tuteli donne e uomini dalla costruzione di stereotipi limitanti per entrambi. «Non è certo un problema che le bambine sognino di essere sirenette dalla voce melodiosa o di andare a un ballo in una nuvola argentata», scrive Natasha Walter. «Non negherei a nessuna bambina questo piacere, a patto che non ci si aspetti che tutte lo facciano, e che i maschi non vengano considerati infetti se prendono in mano una bacchetta magica rosa».

(Credits Photo: http://www.ivid.it)

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