L’Italia autoreferenziale degli chef e dei ristoratori

Ricordo una sera di vent’anni fa, quando il grande Angelo Paracucchi, mitico e appassionato chef della Locanda dell’Angelo di Ameglia, vicino a Sarzana, mi raccontava della sua esperienza francese. Allora aveva preso in gestione un ristorante prestigioso, Le Carpaccio, dietro all’Etolie. “A Parigi, e in tutta la Francia, gli chef sono un’istituzione, seria e rispettata […]

Ricordo una sera di vent’anni fa, quando il grande Angelo Paracucchi, mitico e appassionato chef della Locanda dell’Angelo di Ameglia, vicino a Sarzana, mi raccontava della sua esperienza francese. Allora aveva preso in gestione un ristorante prestigioso, Le Carpaccio, dietro all’Etolie. “A Parigi, e in tutta la Francia, gli chef sono un’istituzione, seria e rispettata –raccontava. Il governo difficilmente approva delle leggi o prende decisioni che riguardino la ristorazione senza prima averli interpellati. E se non vengono consultati in anticipo, la lobby dei ristoratori scende in piazza, con striscioni e cartelli. E i loro organi di stampa, come l’Hotellerie, ne diffondono idealità, rivendicazioni, opinioni”.

In Italia sarebbe impensabile: la forza contrattuale degli chef (e in generale di tutte le figure professionali che operano nel settore della ristorazione) è pressocché inesistente. Avete mai visto un corteo di cuochi o sommelier? Eppure il nostro paese è tra i più sindacalizzati d’Europa, ma in una logica che sembra prescindere dal fatto di “poter contare come soggetto decisionale” e che pare invece privilegiare gli aspetti di protesta “a prescindere”. Questa mancanza di statutarietà riguarda un po’ tutte le categorie sociali, rappresentate più da figure istituzionali e legate al potere “ufficiale” che alle effettive esigenze di gruppi, settori economici, imprenditori. Basti pensare a certi ordini professionali, forti delle quote degli iscritti ma del tutto “scarichi” sotto il profilo rivendicativo. Spesso i loro presidenti vivono in un mondo avulso dai problemi delle professioni che dovrebbero rappresentare e occupano puri ruoli di potere. Un tempo, fino a metà degli anni Novanta, era la politica, quella dei partiti, che rappresentava (o cercava di farlo) le categorie sociali, spesso legate da interessi comuni e in grado di condizionare –in virtù della soddisfazione delle proprie richieste- gli equilibri governativi. Erano, quelli, anni in cui “si contavano i voti” e si rischiava di vincere o perdere le elezioni, in virtù di quanto si faceva (o si prometteva di fare) a favore di questa o quella lobby.

Ma spesso i risultati erano frutto di accordi sottobanco, prima che di azioni concrete a sostegno di gruppi organizzati, espressione di interessi specifici. Ora, a distanza di un ventennio, verrebbe da dire che anche quel sistema di rappresentanza è venuto meno. E la statutarietà della categorie professionali è fortemente in crisi, salvo il fatto di riconoscere agli chef mediatici e televisivi , per esempio, il fatto di rappresentare la punta di un iceberg. In un certo senso anche il loro è lobbismo, visto che riescono ad attirare grandi investimenti pubblicitari e a spuntare contratti milionari. Ma è un fenomeno autoreferenziale, così come sembra essere diventato tutto lo scenario italiano contemporaneo: l’individualismo regna sovrano anche nel mondo della ristorazione e, se volessimo individuare gruppi di pressione capaci di condizionare a proprio favore scenari e decisioni, dovremmo forse (come sostiene Alan Friedman) andare a cercare nel sottobosco della “parapolitica” e della corruzione a cui ormai sembra essersi abituato il nostro paese. Quanti, nel mondo delle imprese di ristorazione, cercano di seguire strade di imprenditorialità pura, spesso si scontrano duramente con un sistema di ramificazioni di cui “non si può non tenere conto”.

Ancora una volta, quindi, si fa leva sulle capacità individuali per raggiungere risultati apprezzabili, cercando di evitare in ogni modo che il “sistema di potere”, concentrato su se stesso , offra un proprio ruolo poco chiaro per non dire torbido. Contare sulle proprie forze (spesso assai ridotte, visto che il sistema bancario ha stretto le corde) resta quindi l’unica vera risorsa possibile: con sforzi immani e piccoli investimenti, nella speranza che il mercato dia riscontri positivi o che qualche finanziatore non occulto consenta gli investimenti necessari. In questo senso, la mancanza di sano lobbismo, capace di fare pressione intelligente verso le istituzioni, è un fattore di complicazione. E rende ancora più difficili gli scenari imprenditoriali di quanti, armati di competenze e onesta professionalità, hanno volontà (o velleità?) di sviluppo e crescita.

CONDIVIDI

Leggi anche

Il diversity management e le donne childfree

Diversità significa ricchezza, specialmente nel mondo del lavoro. E l’espressione diversity management, proposta per la prima volta da Maria Chiara Barabino, Benedicte Jacobs e Antonella Maggio nel saggio Il diversity management (2001), indica proprio l’approccio integrato alla gestione delle risorse umane, finalizzato a creare un ambiente professionale inclusivo e incoraggiante, espressione delle peculiarità individuali, quali […]

Internazionalizzare un’Italia che non parla inglese

È nella ricerca di un nuovo gioco di forze tra pubblico e privato che l’Italia potrebbe mettersi in corsa sui mercati internazionali. Serve però essere onesti e guardare ad alcuni conflitti culturali interni, invisibili agli occhi della politica e dell’informazione. L’Italia è un paese che non parla inglese, basterebbe già solo questo per comprendere a […]

Dite ai genitori che loro figlio non sarà mai Ronaldo

Cambiano i tempi, mutano le prospettive ma, soprattutto, crescono le aspettative. Un processo ineludibile che fatalmente ha coinvolto anche il mondo dello sport e quello del calcio in particolare. L’enorme volume economico generato dal movimento professionistico, a livello nazionale e internazionale, ha finito col modificare il modo di approcciarsi ad uno sport che ha smarrito gran […]