Domanda e offerta non si incontrano nelle imprese turistiche

Lo chiamano skill-mismatch. Ma in italiano si traduce, più o meno, in disallineamento tra domanda e offerta di lavoro. Si verifica quando un lavoratore è sovra o sotto qualificato rispetto al lavoro che svolge. Stando a una ricerca dell’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro e, secondo un autorevole eminenza grigia, Michele Tiraboschi, il disallineamento tra domanda […]

Lo chiamano skill-mismatch. Ma in italiano si traduce, più o meno, in disallineamento tra domanda e offerta di lavoro. Si verifica quando un lavoratore è sovra o sotto qualificato rispetto al lavoro che svolge. Stando a una ricerca dell’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro e, secondo un autorevole eminenza grigia, Michele Tiraboschi, il disallineamento tra domanda e offerta è una delle cause dell’alta disoccupazione, soprattutto giovanile, in Italia. In pratica secondo MT manca un sistema di incontro. Le nostre università costruiscono percorsi non allineati ai fabbisogni del mercato e non in funzione dell’evoluzione delle tecnologie. Il mercato continua chiedere figure professionali scientifiche e tecniche in aree talvolta neanche avvicinate dal ns sistema universitario cosicchè risulta impossibile un efficace incontro tra domanda ed offerta. Ma non solo, studi internazionali recentissimi evidenziano che in Europa ed in particolare nel bel paese, tra il 25 e il 50% della forza lavoro è sovraqualificata, ovvero ha titoli che non corrispondono a ciò che si fa. È appunto l’effetto del mismatch.

La produttività del Turismo legata in relazione alle risorse umane impiegate

Se questa è la fotografia a livello nazionale, similare se non peggiore è la situazione che si presenta all’interno del comparto produttivo del Turismo e della relativa filiera. Si potrebbe anche obiettare che le aziende turistiche oggi non hanno grandi potenzialità di crescita e quindi occupazionali. Ma in realtà è un ragionamento quanto meno falsato, un circolo vizioso. Se le imprese turistiche potessero avvalersi di forza lavoro adeguata sarebbero più produttive e quindi avrebbero più spazio per assumere, basti pensare ai nostri vicini Germanici ove l’occupazione di giovani continua a crescere perché si sono dotati di diversi strumenti che funzionano: alternanza scuola-lavoro, sistema duale, apprendistato; in pratica le imprese sono competitive perché collaborano direttamente con il sistema scolastico: è un percorso virtuoso.

E quindi quali potrebbero essere le vie di uscita ? Aldilà degli effetti della nuova riforma del lavoro (Job Act) di cui dovremmo valutare le risultanze solo tra qualche mese e solo quando tutti i decreti attuativi saranno stati emanati, bisognerebbe aumentare le esperienze di tirocinio curriculari. E’ necessaria una seria alternanza scuola/università/lavoro con tirocini più intensi, strutturati, duraturi che entrino a pieno titolo nel corso di studi del ragazzo e contribuiscano alla valutazione annuale finale dello stesso. Ed infine, puntare sull’apprendistato e sulla flessibilità contrattuale adattandola a quella che è la flessibilità del mercato proprio del settore turistico che risente inevitabilmente di flussi turistici alternati durante l’anno. Insomma, è necessario poter disporre di canali solidi di accompagnamento dalla scuola al mercato del lavoro.

Il ruolo della formazione

Ma, come sappiamo bene noi tutti, non si finisce mai di studiare. Anche all’interno dell’azienda è necessario continuare un percorso formativo individuale di implementazione delle proprie professionalità. Ma allora perché le aziende italiane, e quelle turistiche in particolare, investono poco o per niente in formazione e aggiornamento? Il problema è a monte dato che da anni, a livello politico, nel nostro Paese non si riconosce la formazione professionale come prioritaria, e soprattutto un importante valore aggiunto per i dipendenti stessi e per le aziende in cui essi sono inseriti ed operano.

Negli ultimi anni sono stati stanziati molti milioni di euro a sostegno di programmi di formazione, ma programmi generici, che non sono stati adeguatamente seguiti, senza docenti specializzati, e nessuno di questi ha portato a dei risultati veramente concreti. Non solo, altro problema è la frammentazione della formazione poiché in Italia secondo gli ultimi dati Istat solo il 25% delle imprese sostiene corsi di formazione nella propria azienda, e questi di solito riguardano nella quasi totalità i giovani e i neo-assunti, mentre la percentuale diminuisce notevolmente per i corsi di formazione e di aggiornamento che riguardano i lavoratori over 40/50 e i part-time, quasi che per queste categoria di lavoratori non fosse necessaria in virtù di un know-how ormai acquisito e stabilizzato. È anche innegabile che la formazione stessa rappresenta un grande costo per un azienda. Costi per la sede dove tenere i corsi, per i docenti e per i partecipanti, lavoratori che lasciano la loro postazione di lavoro per seguire il corso che spesso non coincide con il posto di lavoro, per cui costi di trasferta e di soggiorno, il tutto sempre contestualizzato molto spesso durante la brevità della stagione turistica votata al massimo della operatività, ne consegue che la formazione che comunque rappresenta una grossa opportunità di aggiornamento e di confronto per tutto il personale interessato venga vissuta come un intralcio alla vita produttiva.
Certo parlare oggi di formazione, in cui il nostro paese è investito da una grave crisi economica che ha costretto molte aziende a mettere in Cassa Integrazione o a licenziare i propri dipendenti può apparire un’assurdità, ma non è così, la formazione, l’aggiornamento, che deve essere costante, può e deve rappresentare un’arma vincente per fronteggiare la crisi; solo personale preparato ed all’avanguardia, darà all’azienda un vantaggio concorrenziale e competitivo nel mercato in cui questa ci cimenterà. Organizzare corsi di lingua inglese, conoscere i più aggiornati sistemi operativi, conoscere internet e le sue potenzialità in termini di comunicabilità, rende anche i dipendenti, non più giovani ad essere aggiornati a poter ricoprire posizioni nuove, ad essere più motivati e più competitivi e quindi in ultima analisi, essere più efficienti ed efficaci nella propria attività.

Esistono delle eccellenze e delle realtà lungimiranti, ma purtroppo la scarsa propensione all’aggiornamento e alla formazione professionale è un grosso limite della classe dirigente italiana, la carenza di formazione è impressionante a tutti i livelli: non solo tra operai ed impiegati, ma anche e sopratutto tra quadri e dirigenti, per non parlare dei vari amministratori delegati e presidenti (tutti ovviamente self-made man). Pensate a quante volte nella vs vita aziendale avete sentito dire dal vs Presidente/AD che la formazione “…è solo un inutile perdita di tempo e di denaro”, e quante volte avete mai visto partecipare le stesse funzioni apicali alla formazione eventualmente erogata ?

Già questo sarebbe un dato che farebbe riflettere sul “commitement” della formazione stessa.
Dobbiamo cercare di cambiare il punto di vista degli osservatori, degli operatori, dei vari decision – maker, ma molto spesso anche di noi Hr manager operanti all’interno delle stesse organizzazioni.
Quando si parla di formazione in ambito aziendale, spesso viene presa in considerazione solamente la formazione da svolgersi a norma di legge: la tendenza è quella di vedere la formazione come una scocciatura perché, oltre all’impiego di risorse umane ed economiche, necessita di un certo grado di organizzazione ed inoltre il risultato può non essere così tangibile e concreto nel breve periodo.

Il binomio formazione-crescita

Questa visione però rischia di limitare moltissimo il vantaggio strategico della formazione aziendale.
Formazione & Crescita sono sempre più binomi: più l’azienda è strutturata, più la percentuale delle persone che ricevono formazione aumenta. Al contempo, nel mondo delle piccole aziende (ed il settore turistico italiano non si discosta da questa realtà fatte salve qualche eccezione), non si svolge alcun tipo di formazione, aldilà di quella obbligatoria. Ma è solo una questione di disponibilità economica? Alla luce della seguente tabella probabilmente no, o almeno non solo.
Le medie e grandi aziende tendono a valutare costantemente le proprie competenze professionali, cosa che avviene molto meno nelle piccole aziende. Quindi se ne potrebbe ricavare che quello che manca è in primis una Cultura HR ma anche e sopratutto una mentalità di fondo: la formazione è un investimento, non un semplice costo. Non a caso infatti questa mentalità è più diffusa nelle grandi aziende che tendenzialmente hanno più contatti con altre realtà organizzative e culturali, soprattutto estere.
Concludo quindi, sostenendo che la formazione è un fattore di crescita perché è un investimento, in particolare è un investimento sulle persone, sul loro potenziale, sulle loro competenze, in definitiva su loro stessi intesi come uomini. Ma non solo. La formazione, associata anche ad un sistema di sviluppo di carriera, rappresenta anche uno strumento di retention: creando un ambiente dinamico dal punto di vista formativo, le possibilità che le nostre risorse rimangano per crescere contestualmente all’azienda, una volta formate, potranno solo aumentare.

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