Mark Caltagirone e il new trash: ecologia della comunicazione o comunicazione dell’ecologia?

Un articolo per riassumere tutta la storia di Pamela Prati con l’inesistente Mark Caltagirone? No grazie. Non è quello che ho proposto alla redazione di Senza Filtro, e non intendo propinare ai lettori la sinossi della soap più discussa del momento. Vorrei iniziare una riflessione, piuttosto: sull’ecologia. L’ecologia della comunicazione, o se preferite delle comunicazioni. […]

Un articolo per riassumere tutta la storia di Pamela Prati con l’inesistente Mark Caltagirone? No grazie. Non è quello che ho proposto alla redazione di Senza Filtro, e non intendo propinare ai lettori la sinossi della soap più discussa del momento.

Vorrei iniziare una riflessione, piuttosto: sull’ecologia. L’ecologia della comunicazione, o se preferite delle comunicazioni. Sì, perché se c’è una cosa che l’incredibile caso di Mark Caltagirone ci sta suggerendo è che occorre ridefinire il rapporto tra notizia, trash e agenda setting del pubblico.

 

Il caso Pamela Prati – Mark Caltagirone: perché piace?

Andiamo con ordine: l’attempata starlette Pamela Prati si inventa un finto matrimonio con un presunto noto imprenditore; il racconto è naturalmente condito da foto “paparazzo style” e stories su Instagram. Non mi sembra che fin qui ci sia nulla di originale, e neanche di strano, dato che uno dei sistemi più noti per riportare in auge personaggi sepolti nel cimitero della notorietà mediatica è proprio questo: inventarsi un legame. Spesso questo legame è concordato tra agenti e uffici stampa, e la presunta coppia appare secondo copioni precisi: prima amoreggia, poi viene vista litigare, poi si lascia. Tanto per citarne una: Marisa Laurito ha appena dichiarato che Pamela Prati non ha fatto nulla di strano, e che anche lei si è sposata per finta una volta (per i dettagli date un’occhiata qui. Non odiatela, lo ha fatto per papà).

Ma questa storia Prati-Caltagirone è tutta un’altra cosa. E non perché Mark Caltagirone non esiste, ma perché questo caso ha cooptato l’attenzione di tutti: professionisti della comunicazione, filosofi, giornalisti, politici, principi del foro, casalinghe, idraulici, notai, giudici. Una lista infinita. Qualcuno ha scritto che questo caso ha ottenuto così tanta attenzione perché “Pamela Prati siamo tutti noi” (cit. Mattia Carzaniga), tutti sogniamo di avere quella vita con l’uomo perfetto, i bambini adottati e quant’altro. Ma io non concordo, la mia lettura è un’altra. Non abbiamo seguito questo caso perché siamo tutti “Mamma Pamela”; lo abbiamo seguito per due motivi distinti.

Il primo motivo è la costruzione unica e meticolosa di un mix di mitologie narrative, estremamente fine e ricco di ancoraggi contemporanei. L’abbiamo seguita perché:

  • C’erano una volta tre ragazze: Pamela, Pamela e Eliana, che come gli angeli di Charlie andavano in missione per conto di una voce il cui volto non esisteva (vi ricorda nulla?).
  • L’abbiamo apprezzata perché risemantizzava il nome Caltagirone, che non erano più i fratelli Caltagirone le cui vicissitudini industriali e giudiziarie sono state un capitolo importante della storia italiana, ma un Caltagirone nuovo, schivo, elegante, importante, amante della privacy. Un Richard Gere che sposa la sua Pretty Woman.
  • Ne abbiamo compreso subito il filo logico, anzi, il filomarcio”, perché c’è la circonvenzione dell’incapace Eliana, l’apparizione di una Donna Pamela che fa le scarpe a Donna Imma e si piazza tra i personaggi più probabili per la prossima produzione di serial Sky (altro che Gomorra).
  • Siamo stati tutti i mercoledì sera con il fiato sospeso per questo fantomatico Sebastian con il non-cancro alla gola, che semina video e messaggi vocali con la voce roca perché è il protagonista de L’ultima neve di primavera (forse, se avessimo dato il beneficio di qualche puntata ancora, Sebastian sarebbe mediatamente morto, regalandoci un finto funerale).
  • Abbiamo amato e stiamo ancora amando questo caso per l’abile contrapposizione tra Mark e Simone Coppi. L’inesistente Simone, con un albero genealogico più intricato di quello della royal family e che però esiste con un altro nome, è mister Svizzera. Coppi, come Fausto. Nessun italiano rimane insensibile a questo cognome.
  • Marco, oppure Mark, Caltagirone o Calta, che viene serenamente infilato a Live – Non è la D’Urso, prima di parlare di un altro Marco, Marco Carta, non Calta. Ed è subito Trilogia della città di K della Kristoff, dove fino alla fine non si sa se i due gemelli esistono entrambi o se il lettore li ha solo immaginati. Ma l’importante è che la nenia del nome resti in testa come una canzone rotta, come quella pubblicità del cavallo goloso o del delfino curioso.

 

Una questione di ecologia (della comunicazione)

E dopo tutto questo, c’è anche un secondo motivo per cui siamo rimasti incollati a questa storia? Sì, c’è, e spiega il titolo dell’articolo.

Il macrotema che abita le nostre quotidianità è l’ecologia. Dove la mettiamo tutta questa plastica, tutta questa immondizia che produciamo ogni giorno? Ce lo stiamo chiedendo, ci stiamo spremendo le meningi per non creare altre isole di spazzatura nell’oceano. E mentre ci rendiamo conto di non poter sfogare più la nostra naturale inclinazione a consumare e gettare per ribadire “questo mondo è mio e me lo gestisco io”, stiamo trovando un’altra valvola di sfogo, un altro luogo dove creare isole di spazzatura: i media, le nostre discariche naturali.

Elias Canetti, nel libro Massa e Potere, parlava di “scarica della massa” spiegando come a un certo punto la massa debba trovare il modo di scaricare la sua violenza. Se Canetti dovesse scrivere oggi quel magnifico testo, scriverebbe Trash e Potere e direbbe che la massa ha bisogno della spazzatura, che tutti noi produciamo dello “sporco”, e da qualche parte dobbiamo pur metterlo. I media sono il posto perfetto, perché offrono la possibilità di risciacquare e riciclare tutto quello che si scrive e quello che si dice, senza limiti.

E ne abbiamo bisogno. Come la “scarica della massa” di Canetti. Un luogo in cui ci nascondiamo dietro a un dito e riversiamo la nostra spazzatura, e quanto più questi racconti si ramificano, si attorcigliano sul dettaglio, tanto più producono scarto funzionale, si ancorano tra le pratiche culturali, diventando parte inscindibile di ciò che “mediaticamente siamo”. E se qualcuno pensa che il trash non sia cultura allora dovrebbe porsi un interrogativo: se un alieno arrivasse sulla terra, come gli racconteremmo chi siamo? Citeremmo solo gli angeli o anche i demoni?

Così, Barbara D’Urso non è che l’abile Virgilio che ci guida per le strade dell’inferno: la D’Urso, nuova “madonna delle grazie” piena di luce e lustrini, colei che rappresenta “milioni di italiani” si eleva a narratrice, punteggiando il racconto con la sua mimica perfetta e rassicurante, lì a dirci che la spazzatura non è spazzatura, allo stesso modo in cui Live non è la D’Urso. E che il caso Mark Caltagirone non è gossip, ma giornalismo d’inchiesta.

Stiamo pensando a smaltire la plastica e non ci stiamo accorgendo che la più grande discarica del mondo abita le nostre vite senza limiti di spazio e di luogo.

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