Melfi e la Fiat. La resistenza vista dalla fabbrica

Sì, certo, in ogni posto di lavoro resistiamo a nostro modo. Ed è altrettanto certo che il valore che diamo a questa resistenza dipende in larga misura da noi e molto da quelle che possiamo definire “circostanze”. C’è un luogo in Italia dove questo incrocio assume valenze particolari o inaspettate, specie per i meridionali come me: […]

Sì, certo, in ogni posto di lavoro resistiamo a nostro modo. Ed è altrettanto certo che il valore che diamo a questa resistenza dipende in larga misura da noi e molto da quelle che possiamo definire “circostanze”. C’è un luogo in Italia dove questo incrocio assume valenze particolari o inaspettate, specie per i meridionali come me: la fabbrica Fiat di Melfi, in Basilicata.

Melfi, prima e dopo

La prima volta l’ho visitata poco tempo dopo la sua inaugurazione. Era la fine degli anni Novanta, e mi colpi l’enormità dello stabilimento e dei suoi 16 fratelli satelliti, costruiti in file ordinate dall’altra parte del vialone d’ingresso alla fabbrica regina. L’intero complesso aveva l’ancora inesplorata missione (almeno in Italia) di funzionare in just in time, ovvero con i pezzi da assemblare che arrivavano direttamente sulle linee di montaggio, senza quei lunghi e costosi parcheggi in magazzino che nei bilanci creano voragini classificate sotto la voce working capital. Sprechi da eliminare.

Quelli di Fiat definivano Melfi con molto orgoglio e un pizzico di ingenuità “la fabbrica integrata“. Ci fecero visitare un complesso che viaggiava a buona velocità, con le sue 400.000/500.000 piccole Punto sfornate ogni anno, in grado di reggere dignitosamente all’assalto giapponese sulle utilitarie, già inquietante totem dell’auto made in Italy.

A Melfi ci sono tornato, quasi vent’anni dopo. Mi sono subito imbattuto nella prima forma di resistenza del popolo di quella fabbrica: la resistenza alla morte di un modello di business; ovvero resistenza a qualcosa di più grave e pericoloso della recessione generale che ha colpito l’economia italiana. Per quattro anni, dal 2011 al 2015, i 6.000 dipendenti della fabbrica di Melfi, quasi tutti assunti ventenni negli anni Novanta e oggi fra i 40 e 50 anni, hanno attraversato una fase durissima, scandita dalla cassaintegrazione di massa. La produzione era scesa al di sotto dei 150.000 pezzi annui, ma soprattutto non sembravano esserci prospettive per questo spezzone industriale, “regalato” con l’aiuto dei fondi pubblici dai piemontesi al Mezzogiorno sottosviluppato. E invece.

La trasformazione della fabbrica

E invece tra il 2015 e il 2016 Melfi ha subito una metamorfosi epocale, fino ad assumere le sembianze di un’insula felix nel panorama economico e sociale del Sud. Qui il nuovo modello di business della Fiat, trasformata in Fiat Chrysler Automobiles e riposizionata su segmenti premium e semi premium di un mercato non più italiano ma mondiale, ha trasportato la fabbrica sulla lunga filiera industriale e commerciale che nasce a Detroit e che protende fino in Lucania le radici yankee della Jeep.

La decisione di produrre a Melfi per l’Europa e l’America il più piccolo suv Jeep, il Renegade, sfruttando la piattaforma Fiat B-wide già equipaggiata dalla 500L e da altri modelli europei, ha catapultato i quasi 8.000 operai lucani nella Serie A dei modelli di business.  In poco tempo sono entrati nell’universo degli “operai aumentati”. Globali, nel senso che il loro lavoro viene messo a confronto con i loro colleghi brasiliani e i cinesi che producono lo stesso modello con gli stessi standard produttivi; ad alta produttività e valore aggiunto (ogni Renegade vale dalle tre alle quattro volte più della Punto) e sintonizzati sull’ultima frontiera industriale, quella del just in sequence.

Infatti la vecchia fabbrica del just in time è entrata nell’era successiva, per la quale gran parte dei pezzi da assemblare arrivano sulle linee non solo saltando il magazzino, ma anche ordinati secondo la sequenza dei modelli programmati per un determinato giorno (diesel, benzina, per gli Usa, per l’Australia e così via).

Una trasformazione così violenta è stata preparata per lunghi mesi, durante i quali, mentre lo stabilimento veniva ricostruito fisicamente (i pilastri originali non reggevano il peso delle strutture aeree indispensabili per i nuovi modelli), il suo popolo entrava nel flipper dell’innovazione. Bei corsi di formazione? Si, certo. Ma anche molto di più. La fabbrica è diventata per un annetto abbondante un punto di riferimento culturale dei suoi dipendenti e del territorio. Qui, davanti a 5.000 operai riuniti in assemblea, sono transitati, tra gli altri, Antonio Conte, per spiegare come si costruisce una squadra vincente; o Beppe Severgnini, a spiegare che cos’è l’America. All’inaugurazione hanno partecipato 30.000 persone raccolte intorno a un concertone stile Primo Maggio. Tutti i paesi del circondario lucano e moltissime scuole sono state raggiunte da un tir con una ricca mostra itinerante e gruppi di tutte blu che spiegavano che cosa stava diventando la loro fabbrica.

Un progetto corale

E non finisce qui. In realtà Melfi è stata la prima grande fabbrica italiana progettata assieme da ingegneri e gruppi di operai. In un capannone dello stabilimento per mesi ha funzionato il cosiddetto “pilotino”, che la terminologia ufficiale definisce come Workplace Integration, ovvero integrazione sul posto di lavoro. Qui ingegneri e operai hanno progettato le nuove linee di montaggio con pignoleria paranoica (i piani sono stati modificati per 12 volte prima del varo definitivo) con l’obiettivo di estirparne tutte le mansioni faticose, considerate intoppi che fanno sprecare tempo, aumentano i costi e riducono la qualità del lavoro e dei prodotti. È l’effetto del sistema ergonomico Ergo Uas, ormai croce e delizia di tutti gli operai Fca, che calcola i tempi di lavoro e assegna in automatico un intervallo di riposo millimetrico (tecnicamente si chiama “fattore di maggiorazione”) per le mansioni che richiedono sforzo fisico.

A Melfi dunque la fabbrica just in sequence non è un mostro piovuto dal cielo, ma è sinonimo di zero fatica. La sinergia fra i percorsi tecnologici e umani ha fatto in modo che nello stabilimento si sviluppasse un clima positivo, intercettato tra l’altro da un gruppo di ricercatori del Censis incaricato da Fiat di mettere a fuoco la trasformazione della fabbrica. “Sono rimasto colpito dalla consapevolezza dei lavoratori di dover difendere a tutti i costi il vantaggio acquisito sugli altri stabilimenti”, dice Marco Baldi, direttore del Censis.

Questa è a suo modo la resistenza che si respira oggi a Melfi: nessuno vuol tornare al buio della cassaintegrazione e del posto del lavoro in pericolo, ma c’è anche apertura mentale, perché questa storia fa toccare con mano che non sono i contratti formali che difendono il posto di lavoro, ma la sua competitività nel mercato globale.

Dallo sciopero a oggi

C’è infine un terzo fattore di resistenza che è utile conoscere per spiegare l’alta produttività dello stabilimento che sforna una vettura al minuto, h24, per 6 giorni a settimana: la resistenza all’ingiustizia.

È un capitolo che inizia assieme alla costruzione della fabbrica, dal prato verde degli anni Novanta. Nei piani di Fiat, infatti, la “fabbrica integrata” doveva rispondere ai giapponesi non solo sul prodotto, ma anche sul modello di lavoro, che già allora, in chiave nipponica, era “partecipativo” e si basava sull’engagement dei lavoratori. Nei corsi di formazione venne raccontato agli operi un modello di fabbrica ideale che non trovò riscontro nella realtà, perché l’avvio dello stabilimento fu anticipato rispetto alle previsioni iniziali; capi e capetti, inviati dagli altri stabilimenti del gruppo, non furono preparati adeguatamente. Fatto sta che in un libro-inchiesta molto interessante (Lavorare a Melfi, Calice Edizioni, 1997) il sociologo torinese Vittorio Rieser raccontò della guerra fra poveri scoppiata nella fabbrica subito dopo l’avvio delle linee di produzione, quando i lavoratori capirono che postazioni molto faticose si sovrapponevano ad altre di tutto riposo.

La corsa al posto di lavoro migliore scatenò una competizione fatta di colpi bassi fra gli operai, quasi tutti ventenni e con un titolo di studio che non superava la terza media, gestita in modo spesso furbesco e squilibrato. Rieser, intellettuale col cuore a sinistra, con grande onestà ne descrisse le storture dovute alla scarsa preparazione psicologica prima che professionale di una dirigenza intermedia Fiat abituata a un modello gerarchico copiato dall’esercito. La vita concreta della fabbrica di Melfi per una quindicina d’anni fu scandita da leggi non scritte maturate al suo interno, che poi sfociarono in uno sciopero clamoroso, nel 2004, durato 21 giorni, che aveva l’obiettivo di riportare i turni di notte a regole meno severe, già previste per gli altri stabilimenti Fiat.

Oggi a Melfi non solo quel clima non c’è più, ma sono completamente cambiate gerarchia e profilo umano dello stabilimento. La fabbrica è stata rimpolpata da 1.800 ragazzi diplomati, 300 dei quali selezionati a partire da voti non inferiori a 85/100 con l’obiettivo di trasformarli in team leader, ovvero operai che non lavorano con le mani, ma che coordinano la loro squadra di sette colleghi. Alcuni operai sono stati nominati capi-Ute (ovvero responsabili di spezzoni di linea di 100/120 addetti), posto generalmente assegnato a ingegneri.

Fra i giovani neoassunti e i “veci” non si sono registrate tensioni particolari né nuove guerre fra poveri. Grazie alle nuove regole e al nuovo sistema produttivo il popolo della fabbrica di Melfi gode di un orizzonte diverso: premio alla sua resistenza, prospettiva di un futuro migliore.

Image by Generale Lee (ewn work) [CC BY-SA 3.0 or GFDL], via Wikimedia Commons
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