Mense aziendali, la storia è servita

Una decina di anni fa commissionai agli storici Giuliana Bertagnoni e Massimo Montanari dell’Università di Bologna una storia della ristorazione aziendale in Italia. Per scrivere questo articolo lo saccheggerò quindi ben bene: è una ricerca documentata, approfondita e piena di curiosità; e per nulla datata: la storia, del resto, essendo il ricordo dell’accaduto, non dovrebbe […]

Una decina di anni fa commissionai agli storici Giuliana Bertagnoni e Massimo Montanari dell’Università di Bologna una storia della ristorazione aziendale in Italia. Per scrivere questo articolo lo saccheggerò quindi ben bene: è una ricerca documentata, approfondita e piena di curiosità; e per nulla datata: la storia, del resto, essendo il ricordo dell’accaduto, non dovrebbe più cambiare. Quale accaduto si muove, si agita e dice cose diverse da quelle dette nel passato in cui ha vissuto? Ne conoscete qualcuno?

Uno storico afferma che la prima mensa si può far risalire al castello medioevale, o nel monastero: luoghi frequentati da migliaia di persone che praticavano le professioni più diverse e dove erano allestite grandi cucine in genere circondate da campi dove si coltivava il cibo che sarebbe stato cucinato e consumato (chilometro zero, distanze quantistiche).

Tempi troppo lontani. Avviciniamoci un poco a noi. Nella seconda metà del Settecento cominciano a comparire le mense nelle fabbriche. Prima come azione del cosiddetto paternalismo padronale (industriali che offrivano alle maestranze un welfare completo, dall’abitazione all’istruzione, dalla salute al cibo in contesti chiusi dove i lavoratori pagavano i servizi accettando un controllo totale sulla loro vita pubblica e privata) poi come risultato dei conflitti tra la classe operaia e gli industriali.

A New Lanark, un villaggio operaio inglese fondato nel 1780 “si può far risalire la prima mensa, già nella convinzione che una alimentazione equilibrata migliorasse la salute (…) e anche un grande magazzino, una cucina per cibo di alta qualità con tre camini e sei cuochi, la sala da ballo (…) c’erano corsi di cucina…”.

Un paradiso. Ricordate questo punto, ci sarà utile più avanti: la sala mensa serviva anche per corsi di cucina, incontri culturali e serate di musica e ballo.

Uguaglianza

In Italia queste condizioni arrivarono molto più tardi, e solo nel 1900 si propose una legge per obbligare le fabbriche ad avere spazi per la mensa ed il riposo. Da allora la mensa in fabbrica ha avuto alti e bassi (di qualità), fortuna e sfortuna (in quanto alla diffusione). Ha avuto momenti di forte regolamentazione (dagli anni Sessanta del secolo scorso la mensa era sistematicamente oggetto di contrattazione sindacale e si parlava di diritto mensa) ed è stata oggetto di amore (si mangia meglio che a casa) e di odio (pancacce, sporco, minestre immangiabili). L’Italia diseguale (nord-sud, padroni meschini e padroni delle ferriere, attività ricche e attività povere) ovviava all’ingiustizia cercando di garantire diritti uguali per tutti con la contrattazione nazionale.

Oggi l’Italia è ancora diseguale, le grandi organizzazioni di massa capaci di affermare uguali diritti a uguali uomini non ci sono più e la diseguaglianza, anche nella mensa, e in genere nel cosiddetto welfare aziendale, si è allargata. Ci sono aziende che investono nel benessere dei propri dipendenti e altre no. Tutto o quasi su base volontaria. Chi è fortunato capita bene. Ci vorrebbero le stellette di Tripadvisor anche per i datori di lavoro, stellette date dai lavoratori, naturalmente. Ah sì? La tua mensa fa schifo? E io da te non vengo a lavorare.

Utopia?

Mensa, squallore, e innovazione

Più spesso la mensa in fabbrica è stata, e lo è ancora, avvicinata ad una immagine “squallida”. Anche la parola mensa, pur dal significato così nobile e lussuoso (imbandire la mensa), è scaduta; e le mense aziendali migliori, quelle che si volevano (e vogliono) dare un certo tono, hanno smesso di chiamarsi appunto mensa aziendale per diventare ristoranti aziendali.

Poi la grande svolta degli anni Ottanta: perché mangiare tutti insieme in ambienti che avranno sempre un qualche grado di squallore con cibi con qualche grado in meno di calore invece che dare a tutti un buono pasto da spendersi liberamente (liberamente! Viva la libertà!) in bar e trattorie vicine al posto di lavoro, godendo anche di una passeggiata, una incursione al centro commerciale o in palestra? E da allora: bar aziendali, in alcuni casi cocktail lounge (forse per l’alta direzione), lussuosi ristoranti automatici (lussuosi i divanetti in vinilpelle o nel più evocativo vilpelle ma cibo da macchinette), portate elaborate da grandi chef stellati recapitati direttamente sulla scrivania, così non ci si muove dal posto di lavoro, o fantasie di verdura e frutta da consumarsi nella palestra aziendale mentre si cicla, e sullo schermo scorre e corre il power point del direttore, ovvero del Ceo, ambienti californiani con musica ambient e cibi raffinati, un salotto e un piccolo elegante buffet dove attraverso un pieno e lussuoso rilassamento un piccolo gruppo di impiegati saprà trovare la chiave per aumentare la produttività inventando il perpetuum mobile del capitalismo. E così via, fantozziate d’oggidì.

Noi e gli altri

Ho divagato. Il tema era scrivere sulla mensa non solo come luogo dove consumare una più o meno buona e gradevole pausa pranzo ma come spazio di incontro, campo naturale dove cibo, persone e parole si intrecciano e si riconoscono, sguardi profondi di una umanità un po’ smarrita e un po’ caricata dalle possibilità nuove che la tecnologia in ogni dove offre. La mensa quindi ri-scoperta come dispositivo multifunzione: pausa di riposo, di rigenerazione energetica, di ricostituzione spirituale.

Vi ho detto che saremmo tornati a New Lanark, nel Settecento. In mensa “corsi di cucina, incontri culturali e serate di musica e ballo.” O in Europa negli anni Settanta, dove la mensa era il cuore della classe operaia e il suo spazio usato per assemblee e decisioni politiche. Per l’innovazione sociale, che allora si chiamava “assalto al cielo”.

Si stanno progettando molte nuove mense, nella nostra contemporaneità. Ad alcune di queste realizzazioni ho partecipato personalmente, aziendalmente. Ci sono imprenditori capaci di pensare a questi spazi con lungimiranza e, direi, affetto. Affetto per il genere umano che lavora, che ha bisogno di spazi di ri-generazione, e di tavolate dove poter stendere la tovaglia del piacere e del pensiero critico.

Con buona pace della noia conformistica di tanto virtuale.

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