Mi ammalo sì ma il lunedì

L’Osservatorio Inps ha messo in evidenza la presenza di medici consenzienti e lavoratori fannulloni.

Fate un esperimento. Provate a chiedere ad amici, parenti e colleghi qual è il giorno più infelice ed odiato della settimana. Sarà un plebiscito: il lunedì. Che porta con se’ quell’esperienza emotivamente traumatica di rimettere piede in ufficio dopo il week end.

Esiste un rimedio a tutto questo? Forse sì. E si chiama week end lungo. O meglio allungato.

Ha suscitato grande clamore nei giorni scorsi, con quel polverone di sdegno e polemiche tipicamente italiano, il rilascio degli ultimi dati Inps relativi ai certificati di malattia trasmessi all’Istituto dai lavoratori del settore privato e pubblico nel corso del 2015.

Chi ha gridato allo scandalo lo ha fatto sostanzialmente per due motivi.

Primo: il numero dei referti é aumentato rispetto all’anno precedente (un bel balzo in avanti, +5%).

Secondo: il lunedì è risultato il giorno in cui gli italiani tendono ad “ammalarsi” più facilmente (quasi il 30% del numero totale degli eventi malattia).

Ma non finisce qui: avventurandosi con un pizzico di curiosità e di malizia tra le pieghe della banca dati resa disponibile qualche giorno fa, se ne leggono delle belle. Se possibile, ancora più divertente si è rivelato il botta e risposta tra le diverse parti sociali interessate, autentici campioni di quell’altro sport tipicamente italiano che è lo scaricabarile. Tutta colpa dei medici consenzienti, accusano alcuni. No, colpa del taglio ai finanziamenti per i controlli domiciliari che ha abbattuto la frequenza delle visite fiscali e dato adito ai furbetti del certificato, ribattono i medici. Ed ancora: colpa della crisi (sempre lei?) che ha costretto gli italiani a dedicarsi ai lavoretti di manutenzione della casa durante il week end, facendo aumentare il rischio infortunio proprio per l’inizio della settimana, aggiungono altri. Insomma, al solito, la responsabilità è di tutti e di nessuno.

Italiani, popolo di cagionevoli?

La provocazione sorge dunque spontanea: siamo davvero un popolo di cagionevoli? Così esposti a febbre e raffreddore? Proprio noi che siamo invidiati per il sole ed il clima e che vantiamo l’aspettativa di vita tra le più alte al mondo? O più semplicemente di fannulloni con il certificato di malattia facile?

“Il vero paradosso – è il commento di Pietro Ichino, noto giuslavorista nonché uno dei massimi esperti in materia – è questo: ad una infermità permanente che dà diritto al lavoro si contrappone una infermità secondaria e temporanea che dà diritto, spesso in maniera ingiustificata, all’astensione dal lavoro. La storia degli ultimi anni è ricca di episodi di certificati superficiali e finti pazienti”.

In effetti i numeri destano una certa impressione: facendo qualche rapido calcolo, è possibile stimare in ben 110 milioni le giornate di lavoro complessivamente andate perse negli ultimi dodici mesi. Posta la questione in altri termini e, se vogliamo, ancora più sconvolgenti, è come se stessimo parlando di circa mezzo milione di lavoratori in meno a pieno regime. Un ordine di grandezza che la dice lunga sugli spazi di recupero della produttività di cui potrebbe giovare l’intera economia. Almeno in parte, perché generalizzare è sempre sbagliato e perché molte delle richieste di accesso alla mutua sono naturalmente sacrosante.

Ma c’è dell’altro: l’osservatorio Inps offre uno spaccato che consente di trovare evidenza empirica all’aneddotica, ma talvolta anche di sfatare miti e rovesciare stereotipi. Ed è forse questo l’aspetto più curioso.

Partiamo con una lettura territoriale del fenomeno. Larga parte della stampa, nel commentare la notizia, ha enfatizzato il fatto che Lombardia e Lazio fanno registrare il più elevato numero di referti. Vero, ma non dovrebbe stupire se si considera che le due regioni in questione coprono da sole circa un quarto della popolazione italiana e degli occupati.

Ben più interessante è invece valutare la frequenza dei certificati di malattia rispetto al numero dei lavoratori. Così facendo la graduatoria cambia sensibilmente: si scopre ad esempio che la sana e robusta costituzione è prerogativa delle regioni del centro (Umbria, Marche e Molise), mentre ci si ammala più facilmente in Calabria ed in Sicilia (dove si contano più certificati che lavoratori), ma anche nell’efficientissima Emilia-Romagna.

Malattia pubblica e privata

Gli statali sono poi più deboli dei lavoratori privati: più di un dipendente pubblico su due è rimasto a casa per malattia nel 2015, a fronte di uno su tre per i lavoratori del settore privato (il 35% del totale). A prestare servizio negli enti pubblici ci si ammala di più ma ci si riprende più rapidamente, se è vero che la durata media della degenza è più corta di un paio di giorni (17 contro 19). L’analisi del numero di eventi per malattia per classe di durata (ovvero il numero di giorni di assenza di un dipendente anche in presenza di più certificati medici) fa emergere, infine, una singolare curiosità: nel settore pubblico le assenze di un giorno hanno interessato quasi un terzo dei casi, più del doppio di quanto registrato nel privato. Che sia una “scappatella” da lavoro o reale indisposizione impossibile dirlo. Resta però sul campo un impatto economico rilevante: secondo gli studi più accreditati, ogni punto percentuale in più di tasso di assenteismo si traduce in un costo addizionale compreso tra lo 0,5% ed il 2% della retribuzione dei lavoratori.

Come a dire che le colpe sono di pochi, ma a rimetterci sono tutti.

La fotografia scattata dall’Inps sulle abitudini al lavoro degli italiani fa emergere un quadro articolato ed offre diversi spunti di riflessione. Il tema di fondo è che occorrerebbe prendere consapevolezza che l’assenteismo è una piaga che non ha meno rilevanza delle note problematiche del mondo del lavoro.

Ci troviamo di fronte ad un bivio: secondo alcuni, il problema andrebbe affrontato in termini repressivi con provvedimenti disciplinari solo in via straordinaria e sarebbe invece più opportuno andare alla radice e ragionare in chiave preventiva. Che vorrebbe dire con il buon esempio, con la buona organizzazione del lavoro, con la motivazione delle risorse, con meccanismi di premialità per i dipendenti più assidui e diligenti.

Ma c’è anche una altra strada, perché di fronte alla malafede c’è poco da fare ed i buoni propositi molto spesso lasciano il tempo che trovano. La pensa così proprio Ichino, che pone l’accento sulla responsabilità dei dottori ancor più che dei lavoratori: “Il potere di autorizzare chiunque a “mettersi in malattia” può essere gratificante per un medico di scarsa levatura professionale, mentre, al contrario, rifiutare un certificato di comodo può costargli la perdita di un paziente. Per fortuna ci sono anche molti professionisti onesti che al proprio interesse antepongono il dovere: non bisogna dimenticare che la compiacente certificazione a comando costituisce una grave violazione del codice deontologico”.

A ben vedere, non è del resto bizzarro che nei moduli sui quali i medici dei servizi ispettivi dell’Inps e delle Asl redigono i referti delle loro visite domiciliari non venga neppure contemplato l’accertamento dell’inesistenza dell’impedimento al lavoro? Il peggio che può accadere al falso malato è di essere dichiarato idoneo a riprendere il servizio il giorno successivo a quello della visita fiscale.

Al lettore la scelta: lavoratori fannulloni o medici negligenti? Chi è il più cattivo?

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