Milano città di sfruttamento: caro affitti almeno per altri cinque anni

Il docente ed esperto di urbanistica Bertram Niessen, cofondatore dell’associazione cheFare: “Chi governa Milano non considera il problema di caro affitti e sfruttamento. Ci sarà un peggioramento, il mercato crescerà almeno fino alle Olimpiadi invernali”

Sfruttamento a Milano: un rider fermo davanti al duomo

di Mafalda Maria Solza

 

Questo articolo non è firmato da un giornalista della nostra redazione.

SenzaFiltro ha deciso oggi di dare spazio a una giovane redazione tutta femminile che racconta il grave sfruttamento lavorativo. 14 ragazze tra i 16 e i 26 anni hanno dato voce a storie ed esperienze del territorio, da Milano a Legnano, passando per Gorgonzola, Busto Arsizio, l’hinterland e arrivando anche a toccare le rotte migratorie dal Bangladesh e Nord Africa nella nuova edizione della rivista gratuita “Emersioni”. Un lavoro che abbiamo deciso di sostenere e promuovere, perché le giovani redattrici hanno raccolto informazioni e interviste tra case di accoglienza, mercati informali, uscite diurne e serali, e crediamo che sia sempre più importante imparare a scrivere di cose difficili. L’iniziativa è promossa dalla Città Metropolitana di Milano nell’ambito del progetto a supporto di persone vulnerabili “Derive e Approdi”.

 

 

Sono oltre trenta le tende che tra inizio maggio e fine giugno 2023 sono state montate davanti al Politecnico di Milano, in piazza Leonardo da Vinci. Un gruppo di studenti ha deciso di protestare così contro il caro affitti nel mercato immobiliare di Milano, aprendo una riflessione più ampia sulla vivibilità della città. La diffusione dello sfruttamento lavorativo e del disagio abitativo rivela la condizione di precarietà che investe molti suoi residenti. Per parlare di queste tematiche, abbiamo intervistato Bertram Niessen, ricercatore, docente e saggista che si occupa di questioni urbane. Nel 2012 Niessen è stato tra i fondatori di cheFare, agenzia per la trasformazione culturale e partner del progetto che ha portato alla realizzazione della rivista che state leggendo.

 

 

 

Quali sono le forme di sfruttamento lavorativo più diffuse nel territorio metropolitano di Milano?

Esistono diverse dimensioni di sfruttamento lavorativo in base al grado di ufficialità del mercato del lavoro: si va dal mercato nero (beni e servizi scambiati sono illegali, N.d.R.), al mercato grigio (beni e servizi sono legali, ma non vengono rispettate le regole, N.d.R.), fino al mercato bianco (settore completamente legale dell’economia, N.d.R.). Nel mercato nero si parla di prostituzione, droga, saloni di massaggi e probabilmente gioco d’azzardo. I mercati grigi, invece, propri di una città in rapida espansione dal punto di vista edilizio e fortemente radicata nei servizi, comprendono lavoratori del settore edilizio, logistico e delle cooperative multiservizi. Questi ultimi vivono spesso in condizioni di sfruttamento e di povertà abitativa: alcuni occupano cantine, soffitte, ex officine all’interno dell’area metropolitana; altri, invece, abitano fuori città e sono pendolari. Ci sono infine le figure professionali ascrivibili al mercato bianco, che sono regolate, ma in modo insufficiente, come i rider e i lavoratori della ristorazione.

Secondo lei, alcune caratteristiche di Milano favoriscono dinamiche di sfruttamento?

Assolutamente sì. Ragionando in ottica comparativa, Milano, come tutte le città che hanno un settore terziario avanzato, registra un forte sfruttamento tra i lavoratori nell’ambito dei servizi e, in modo meno intuibile, nelle industrie creative e culturali. In più, credo che per Milano nello specifico debbano essere messi in relazione lavoro e mercato degli affitti. Vivere a Milano è molto costoso e l’elemento della povertà abitativa implica una moltiplicazione delle forme di disuguaglianza e di marginalità sociale, comprese quelle nel mondo del lavoro. Anche uno shit job – un lavoro che non dà nessun tipo di soddisfazione personale, ma che è funzionale solo al sostentamento – quando associato anche al pendolarismo, può trasformarsi in sfruttamento.

Esiste quindi una relazione tra disagio abitativo e sfruttamento?

Disagio abitativo è un termine ombrello all’interno del quale rientrano sia elementi che indicano la povertà abitativa in senso stretto, sia fattori che definiscono situazioni difficili, ma non per forza di povertà. Le variabili sono infinite. Ad esempio, la vita in un quartiere con una scarsa qualità di edifici, servizi e trasporti può essere tollerabile finché non si hanno persone malate a carico: a quel punto si assiste spesso al passaggio da una condizione di disagio abitativo a una di povertà.

Ci sono state misure pubbliche efficaci contro lo sfruttamento e il disagio abitativo?

Posso rispondere solo per il disagio abitativo. Al momento non è stata disposta nessuna politica di intervento efficace, né a livello regionale né comunale. Due misure che io valuto in modo molto positivo sono un tetto per gli affitti a livello locale e una regolamentazione per il mercato degli affitti a breve termine. Si tratta, però, di provvedimenti che rimandano a politiche nazionali, e per adesso non ci sono stati segnali forti in questo senso.

In futuro sfruttamento lavorativo e disagio abitativo si inaspriranno oppure verranno mitigati?

Credo ci sarà un peggioramento, almeno nei prossimi anni: la politica a livello nazionale e locale, sia di destra che di sinistra, tende a pensare la povertà come una colpa, a causa del dominio ideologico del neoliberismo. Nonostante io non sia entusiasta della formula, gli studi mostrano che il Reddito di Cittadinanza evitava che venissero accettati lavori soggetti a sfruttamento e sottopagati. Con l’eliminazione di questa misura è più probabile che questo genere di lavori torni a essere ricercato.

Che ruolo giocano le variabili di genere e di razzializzazione?

Esistono alcuni lavori culturalmente associati al maschile e altri al femminile. Da una prospettiva transfemminista, le persone trans lavorano spesso nella prostituzione perché una condizione di marginalità pregressa rende loro difficile accedere ad altri percorsi lavorativi. Riguardo alla razzializzazione, il tasso di integrazione di alcuni gruppi di prima, seconda o anche terza generazione a Milano è relativamente più alto rispetto a quello di altre città: avendo una teologia fortemente connessa al discorso del lavoro, una città calvinista come Milano trova forme di solidarietà impreviste con soggetti che hanno “tanta voglia di lavorare”. Va da sé, però, che la razzializzazione moltiplichi le disuguaglianze già presenti.

Nel suo libro Abitare il vortice (Utet 2023) parla di come le città debbano attrarre a sé investimenti e capitale. Come sta reagendo Milano alle critiche, per esempio quelle di alcuni studenti del Politecnico contro il caro affitti?

Gli attori principali della governance della città non considerano il problema. Pensano che gli abitanti impoveriti o poveri che abitano in città possano andare a vivere nell’hinterland e che, in questo modo, si possa fare spazio nelle zone centrali agli abitanti con un reddito più alto. La previsione dei grossi fondi di investimento è che Milano possa rimanere in fase di crescita per altri quattro o cinque anni, sicuramente fino alle Olimpiadi invernali. Questo comporta un depauperamento della “biodiversità cittadina”. Sulle questioni della casa, però, sta emergendo un nuovo fronte: se cinque anni fa gli attivisti per la casa erano per lo più reduci del mondo delle occupazioni politiche – il collettivo di abitanti del Giambellino, quello di via Gola, eccetera – adesso questo tipo di domande viene posto da soggetti nuovi. Penso al comitato “Abitare in via Padova”, costituito da abitanti di ceto medio, alcuni impoveriti, altri no. È in atto una prima fase espansiva del discorso sull’abitare a Milano.

 

 

 

Photo credits: cdt.ch

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