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Negli ultimi anni l’interesse per la mindfulness ha avuto una crescita esponenziale, supportata da una solida evidenza scientifica che ne prova i benefici sulla salute mentale e non solo. Oltre tre decenni di ricerca in ambito medico, neuroscientifico e psicologico hanno infatti dimostrato come praticare mindfulness favorisca negli adulti lo sviluppo della resilienza e un […]
Negli ultimi anni l’interesse per la mindfulness ha avuto una crescita esponenziale, supportata da una solida evidenza scientifica che ne prova i benefici sulla salute mentale e non solo. Oltre tre decenni di ricerca in ambito medico, neuroscientifico e psicologico hanno infatti dimostrato come praticare mindfulness favorisca negli adulti lo sviluppo della resilienza e un miglioramento delle funzioni cognitive, riducendo la percezione dello stress.
Questi risultati incoraggianti hanno fatto sì che dalle sue prime applicazioni in campo medico la mindfulness sia stata progressivamente introdotta in diversi ambiti, fino ad approdare all’educazione. In Italia esiste già un numero – seppur esiguo – di scuole che hanno introdotto questa pratica nei programmi scolastici, sull’onda di un movimento che dagli USA, Regno Unito e Nord Europa si sta diffondendo a livello globale. Lentamente e per gradi, come tutte le grandi rivoluzioni culturali.
Ma è possibile insegnare la mindfulness? Qual è il valore di questa pratica per i giovani?
Conviene anzitutto ricordare che si tratta di una forma di meditazione, ma anche di una capacità innata in ognuno di noi: un modo di essere presenti e svegli che favorisce una maggiore connessione con la vita.
Da questo punto di vista i giovani sono già naturalmente mindful, e potrebbero insegnarci molto su come vivere il momento con autenticità e pienezza. Qualità come la curiosità, il non giudizio, la “mente da principiante”, l’apertura del cuore e il non cercare risultati – tanto per citare alcuni dei pilastri su cui si fonda la pratica di consapevolezza – di fatto ce l’hanno già. Tuttavia la mindfulness può rivelarsi un valido aiuto anche per loro, specialmente in termini di attenzione e regolazione emotiva.
In un mondo che offre sempre maggiori distrazioni, imparare a coltivare un’attenzione stabile e focalizzata non è più un optional, ma una necessità. Quando si parla di mindfulness, inoltre, si intende sempre anche heartfulness. Questo aiuta a comprendere che non si tratta di un semplice allenamento mentale, ma di una questione più ampia che include intelligenza emotiva e la possibilità di vivere con un cuore risvegliato. Empatia, coraggio, capacità di ascolto, flessibilità, centratura: le soft skills così richieste nel mondo del lavoro e indispensabili in tutte le nostre relazioni.
Queste abilità possono essere coltivate fin dalla tenera età. Non è necessario arrivare a trenta o quarant’anni e perdere il lavoro – o attraversare separazioni, difficoltà finanziarie e momenti d’incertezza – per scoprire che abbiamo già dentro di noi le risorse per star bene e che la pratica della mindfulness è uno strumento in grado di sostenerci nel cambiamento. Si può iniziare da piccoli; i risultati, nel tempo, pagano. Il controllo degli impulsi e la capacità di gestire le emozioni hanno un forte impatto sul controllo del proprio comportamento: permettono di prendere decisioni più sagge e di rispondere agli avvenimenti della vita in maniera appropriata, non più automatica, sviluppando un maggior senso di calma e di fiducia.
Ora, il punto è che spesso si parla di “mindfulness per i giovani” con una prospettiva capovolta. Siamo fermamente convinti di quanto la pratica faccia bene ai bambini e ancor più agli adolescenti, ma ricordate la premessa iniziale? I giovani sono già naturalmente mindful. Questo significa che a dover coltivare presenza mentale e stabilità emotiva sono anzitutto i genitori, gli insegnanti e tutti quegli adulti che hanno il delicato compito di accompagnarli nella crescita. E allora accade qualcosa di meraviglioso: si cresce insieme.
Per insegnare la mindfulness occorre anzitutto metterla in atto. Si parla di embodiment: fare propria la pratica, “incarnarla”. Conviene ricordare che non si tratta di una bella idea, ma di una pratica. D’altra parte, volendo insegnare una lingua straniera, occorre parlarla; non la si può insegnare solo perché se ne conosce la grammatica. Perché dovrebbe funzionare diversamente per un’arte che è di per sé un invito a entrare nell’esperienza, a vivere il momento presente con curiosità e apertura? Sempre prendendo in prestito l’esempio di una lingua straniera, non verrebbe mai in mente a nessuno di inserirla in un programma formativo come attività marginale o secondaria, alla quale dedicare qualche breve incontro.
Insegnare ai giovani a coltivare l’attenzione e a mantenere la padronanza di sé, delle scelte e delle emozioni, non può essere un percorso frettoloso né affidato al caso. Occorre tempo per insegnare la perseveranza e la pazienza. Occorre sintonia per trasmettere il valore della gentilezza. Sono cose che non vanno dimenticate, se si vuole educare senza limitarsi a istruire.
Educare. Cioè affinare con l’insegnamento, trarre da ogni bambino ciò che di più autentico ha da sviluppare; aiutarlo a coltivare il suo talento. Qual è il significato del processo educativo, dopotutto? Se lo si fa solo perché i giovani superino degli esami e trovino un lavoro, si tralascia la visione d’insieme.
Negli ultimi anni ho avuto il piacere di accompagnare centinaia di bambini e adolescenti in percorsi di mindfulness e ho guidato molti dei loro genitori e insegnanti. Da questa esperienza ho tratto due preziosi suggerimenti di mindfulness, validi in famiglia e a scuola per tutti gli adulti che desiderano crescere assieme ai giovani. Ve li propongo:
Buona connessione. E buona pratica.
Photo by Danielle MacInnes on Unsplash
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