Mobile working, uno smartphone non ci salverà

Se credi nelle persone e le metti in condizione di assecondare la più alte aspettative, la maggior parte di loro sarà all’altezza del compito. (Sam Stern) C’era una volta lo Smart Working. A sentire parlare di Telelavoro sembra invece di ripiombare negli anni ’90, con Giorgio Mastrota ad indicarci la via per vivere e lavorare […]

Se credi nelle persone e le metti in condizione di assecondare la più alte aspettative, la maggior parte di loro sarà all’altezza del compito. (Sam Stern)

C’era una volta lo Smart Working. A sentire parlare di Telelavoro sembra invece di ripiombare negli anni ’90, con Giorgio Mastrota ad indicarci la via per vivere e lavorare felice lontani dagli uffici. La verità è che queste due fasi sono state saltate, almeno in Italia, e c’è rimasta un’ultima possibilità: si chiama Mobile Working, e non si traduce con “lavorare con lo smartphone“.

Si tratta di un modello che può portare benefici alle imprese e una riduzione del costo del lavoro stimato in circa 1,7 miliardi di euro (Dati Doxa). Circa 8 lavoratori su 10 utilizzano un device per oltre il 50% del proprio tempo lavorativo: il 68% fa uso di personal computer fissi per la maggior parte del tempo, il 17% di computer portatili, solo il 4% usa dispositivi mobile (in particolare cellulari e smartphone) come strumento prevalente di lavoro.

E, nonostante la diffusione delle tecnologie digitali e delle connessioni a banda larga, solo il 5% dei lavoratori lavora in remoto. Ma andiamo per ordine. Il mobile working permetterebbe non solo una consistente riduzione degli spostamenti e quindi delle emissioni di anidride carbonica. Se il 10% dei 9 milioni di occupati lavorasse da casa per 100 giorni all’anno, si avrebbe una riduzione della produzione annua di CO2 di oltre 307mila tonnellate e le persone risparmierebbero tempo negli spostamenti (47 milioni di ore all’anno) e denaro (407 milioni di euro all’anno). Il dato meno empirico è quello che corrisponde invece allo stress che si potrebbe evitare di accumulare, con conseguente aumento della produttività e della creatività (qui si aprirebbe un altro file con la definizione della stessa) se si lavorasse, almeno per metà settimana, da luoghi diversi da quello dove ci si reca tutti i giorni. In un contesto dove l’obiettivo è diventato, per fortuna, più importante del tempo speso a lavoro e i progetti comandano sui marcatori di tempo, l’estensione del mobile working dovrebbe essere una logica conseguenza.

Mobile Working vs Smart Working

Eppure c’è qualcosa che non funziona, e leggere storie come quella di Netflix, i cui dipendenti possono godere di ferie illimitate, sembra pura utopia qui da noi. Dove c’è ancora una netta divisione tra pendolari e business man, un po’ la stessa che enfatizza Trenitalia quando si tratta di promuovere l’Alta Velocità è far capire che la prima classe, i giornali e il cappuccino mentre si consulta la posta elettronica sono sì una gran bella cosa ma, per favore, da concedere a pochi.

In cosa allora il mobile working è diverso dallo smart working? Sgombriamo subito il campo da due dubbi: in primis Mobile Working non si traduce con “lavorare da casa”. In secondo luogo non c’è niente di nuovo in questa pratica, se non una sublimazione garantita dalla diffusione, a prezzi relativamente modici, dei device quali tablet e smartphone, caricatori portatili, chiavette internet e quant’altro.

Chi ha letto, nel 2001, quindi un secolo digitale fa, Detto Fatto di David Allen, uno dei maggiori esperti di produttività personale e organizzativa, si ritroverà pienamente in quello che sto per dire: gran parte dell’insegnamento del suo metodo (Getting Things Done) per imparare a gestire il flusso di lavoro consiste nel predisporre gli strumenti e attivarsi perché le opportune riflessioni avvengano in modo più automatico e sia più facile impegnarsi nell’azione. Organizzare insomma tempo, spazio e strumenti, in modo da facilitare questo processo.

Il modo migliore per iniziare a pensare “mobile” è quello di installare sistemi identici e interscambiabili sia in ufficio che a casa, anche se con tutta probabilità ce ne sarà uno che svolgerà un ruolo preponderante. Anche se la vostra vita è improntata all’uso di strumenti mobili e altamente tecnologici, e vi muovete con dimestichezza sul web, vi servirà comunque una base da cui operare. È fondamentale avere una postazione satellite a casa e, se possibile, anche una per gli spostamenti.

Un ufficio mobile

Ultimamente mi sono spostato molto, troppo, e non solo per lavoro. Ho trasformato il problema in una grande opportunità ed ho proposto a Hoepli un libro sul mobile working. Non solo: ho predisposto un mio microufficio mobile. In questi mesi ho scoperto che molte persone perdono occasioni potenzialmente produttive perché non sono pronte ad approfittare dei tempi utili che si creano durante gli spostamenti o quando sono fuori ufficio.

L’insieme di un buon metodo di gestione, strumenti adeguati e sistemi interconnessi (casa e ufficio) può far sì che gli spostamenti diventino un’occasione molto produttiva per svolgere determinate attività. Mentre la tecnologia continua a offrire alla maggior parte di noi dispositivi mobili più potenti e un accesso veloce alla rete, aumentano anche le possibilità di organizzare la propria vita e il proprio lavoro in modalità “mobile”. Ma noi non le sfruttiamo e continuiamo a riempire le nostre pause (metro, dottore, fila alle poste) con inutili commenti su Facebook.

Il problema è gestire il caos causato dalle tante opzioni disponibili su tali apparecchiature. Se non si ricorre a una metodologia capace di intercettare, chiarire e organizzare le informazioni, con applicazioni e strumenti adeguati per far fronte a ogni cosa con prontezza, l’accesso mobile alla rete sarà sottoutilizzato o addirittura diventerà a sua volta fonte di distrazione improduttiva o stress.

Il senso di sopraffazione

Possiamo lavorare ovunque se abbiamo un sistema chiaro e se sappiamo come elaborare le nostre cose in modo rapido, anche fuori sede. Le nuove tecnologie permettono di organizzare un proprio ufficio mobile anche a chi fino a poco tempo fa sarebbe stato impossibilitato, e soprattutto ci costringono a separare il lavoro strategico da quello esecutivo e magari ad organizzarlo di conseguenza. Sta al lavoratore, in primis, convincere il proprio datore che il mobile working non solo è applicabile, ma è certamente più produttivo.

Recentemente mi è capitato spesso di sentire, da colleghi e amici, termini come “senso di sopraffazione”, “panico”, “frustrazione”, “fatica” e “disgusto”. Da cosa derivano queste impressioni sgradevoli? Dal fatto che le incombenze siano troppe? No, perché le incombenze sono sempre troppe.
Se a farci stare male fosse il solo pensiero di avere più cose da fare di quante non possiamo gestire, saremmo condannati ad un’insoddisfazione perenne. La fonte di questa eventuale negatività non è quella.

Le sensazioni negative sono semplicemente il risultato di un impegno non rispettato, il sintomo della fiducia in se stessi che viene meno. È qui che il mobile working non risolve, ma facilita, se ben organizzato. Altrimenti diventa un’estensione del lavoro, un’ulteriore fonte di stress e di non produttività.

Il segreto per andare avanti è anzitutto mettersi in moto. Il segreto per mettersi in moto è spezzettare compiti complessi in piccole operazioni gestibili, e iniziare dalla prima.

Il metodo, prima della tecnologia

Oggi, in tutto il globo, la popolazione alfabetizzata e connessa a internet è sottoposta a un continuo bombardamento di informazioni potenzialmente importanti, o quantomeno rilevanti. La facilità con cui vi si può accedere, grazie alla tecnologia, le ha rese fonti di molteplici opportunità, ma al tempo stesso insidiose per la loro quantità, velocità e variabilità. È semplicistico dire che “i datori di lavoro e le aziende non si fidano dei propri dipendenti” perché in taluni casi sono questi ultimi a non possedere un minimo senso di organizzazione volta ad ottimizzare tempi e opportunità.

Ecco perché non ho alcuna intenzione, in questa occasione, di parlare di strumenti come possono essere Evernote, Pocket, Google Calendar, TeamWork e molti altri. In primis si deve apprendere a stabilire le priorità, organizzare le informazioni, gestire e pianificare gli impegni, delegare ciò che non è di nostra competenza. E state tranquilli che uno smartphone non ci salverà.

 

CONDIVIDI

Leggi anche

Non lasciamo da sola l’industria culturale

L’industria culturale e dello spettacolo è strategica per la sua funzione sociale, ma soprattutto per la sua portata economica e occupazionale. La tenuta e il rilancio di queste filiere diventano perciò fondamentali. A inizio marzo Federculture aveva stimato una perdita di circa tre miliardi di euro di spesa per attività culturali e ricreative. «Una stima […]

Disruptive io? Ma mi faccia il piacere

C’è una strana malattia che si aggira pericolosa nei convegni e negli studi televisivi: la disruption. Da qualche mese politici, giornalisti, sindacalisti ed economisti nei loro interventi tendono infatti ad usare con una frequenza ormai invadente e fastidiosa la parola inglese disruption e l’aggettivo ad essa collegato, disruptive. “Bisogna fare politiche disruptive”; per far crescere […]

Il caro spesa delle aziende per i viaggi d’affari

È Milano la città più cara d’Italia per dormire. Le convenzioni e le prenotazioni in anticipo riducono la flessibilità di contrattazione per gli hotel, sempre più dinamica l’applicazione dei prezzi e delle offerte. Salgono del 10 per cento i viaggi per congressi e fiere, il cosiddetto segmento Mice. È l’emozione di sentirsi parte del luogo […]