Dall’io al noi. Le donne, l’HerPowerment e l’errore di sentirsi in colpa

È stato istintivo decidere chi intervistare per andare a sollevare il tappeto e tutta la polvere sotto cui andiamo a buttare ogni giorno la questione di genere. Eleonora Pinzuti, a parlarci e ad ascoltarla, è totalmente aliena rispetto ad una dilagante sciatteria di pensiero e di parole dedicata alla questione femminile. Formatrice professionista, docente, consulente, […]

È stato istintivo decidere chi intervistare per andare a sollevare il tappeto e tutta la polvere sotto cui andiamo a buttare ogni giorno la questione di genere. Eleonora Pinzuti, a parlarci e ad ascoltarla, è totalmente aliena rispetto ad una dilagante sciatteria di pensiero e di parole dedicata alla questione femminile.

Formatrice professionista, docente, consulente, autrice. Gira l’Italia con il suo progetto HerPowerment, forte del fatto che i pilastri su cui rimettere in piedi una cultura matura debbano partire dalle donne e non da fuori, a cascata. Scrittrice e poetessa, la sua pelle professionale è fatta di Inclusion, Diversity e Gender Violence.

Per me Eleonora è stata un regalo di Facebook che ho scartato con cura. Abbiamo prima dovuto rimandare un paio di appuntamenti a Firenze e poi cedere all’emergenza del coronavirus e incontrarci via skype.

“Oggi la galassia femminile e femminista è ampia, spesso antitetica e in alcune circostanze persino aporica. Ci servono letture della realtà nuove ed eccedenti, strategie propulsive di cambiamento, procedure di rinforzo e di sostegno che si svincolino da sotto-stereotipi o sessismi benevoli. I dati in nostro possesso, dal Part Time al Gender Pay Gap (la differenza retributiva fra uomini e donne), dalla cosiddetta “conciliazione” vita-lavoro fino al problema del lavoro di cura, vedono ancora le donne in posizione minorizzante. Se le ragioni sono molteplici, dobbiamo porre in atto strumenti per cambiare le cose e dobbiamo farlo anche e soprattutto in tempi di Covid19.  Oppure, a fare le spese della recessione che si paventa, saranno, al solito, le donne”.

Le realtà multinazionali si espongono meno agli squilibri salariali. Per noi forse il problema è più legato al tessuto italiano, medio-piccolo?

Mi risulta percettivamente. A me quello che interessa di più è stato comprendere come le donne interpretino i dati e l’esperienza della discriminazione di genere: nella società attuale la riuscita o il fallimento sono demandati al soggetto; abbiamo infatti smesso di produrre una cultura che legga in modo sistemico le difficoltà sociali. Proprio per questo, sovente in modo auto-colpevolizzante, le donne ritengono un fallimento personale il non riuscire a raggiungere certi risultati professionali, mentre si tratta di una conseguenza dello squilibrio di forze in campo fra uomini e donne: forze culturali, sociali e comportamentali.

Hai spostato completamente il punto di osservazione da cui si affacciano le donne.

Sì, perché è anche vero che un numero minoritario – ma per fortuna concreto di donne – riesce anche a sfondarlo, il cosiddetto “tetto di cristallo”. Ma bisogna fare attenzione ad un aspetto ulteriore: che il dominio, per invisibilizzare le proprie funzioni ed inibire un conflitto palese, deve prevedere una parziale inclusione dell’alterità. Quindi, in alcune circostanze, la presenza di donne o soggetti minorizzati convalida come equamente inclusivo un dominio di genere ancora escludente. Io lo chiamo ‘dominio di genere’, perché questo è.

Ma il patriarcato in senso stretto è davvero alle nostre spalle? Non intendo a parole ma nei fatti.

Siamo in una fase di post-patriarcato o neo-patriarcato, più invisibile rispetto al precedente ma ancora volto a porre un filtro alla presenza femminile. Non la nega, la filtra: è proprio per questo che spesso le donne percepiscono come una “colpa” soggettiva il non essere riuscite a raggiungere determinati livelli di carriera, mentre spesso questo è il risultato di una imparità di condizioni di partenza.

Come possono cambiare sguardo su se stesse, le donne?

Nel mio modello di HerPowerment cerco di passare dalla soggettivizzazione alla collettivizzazione delle problematiche: cerco di evidenziare come non sia il soggetto-donna a dover essere ancora migliore ma come siano le condizioni sociali e culturali ad essere impari, per quanto – è doveroso dirlo – rispetto ai tempi in cui scriveva Virginia Woolf abbiamo percorso una strada eroica e irta di ostacoli.

Eppure permangono molteplici forme di minorizzazione delle donne: dalla lack of authority – percezione di mancanza di autorevolezza sul luogo di lavoro – alla difficoltà del public speaking – se non ho la parola, non esisto -, dal mansplaining contro le donne – uomini che danno spiegazioni paternalistiche alle donne – all’aver introiettato il modello conciliativo – sono io donna che mi devo far carico di come gestire i figli – fino al ben noto ‘senso di colpa’…

Questi sono tutti elementi frenanti per una realizzazione del femminile. I nostri risultati, spesso pur così eclatanti, sono ancora il frutto di un rapporto biunivoco tra le nostre capacità e il tentativo del dominio di conservare sé stesso il più a lungo possibile.

Sintetizziamo. Noi donne rielaboriamo come causa del problema il fatto di essere manchevoli ma è una percezione fuorviante e rischiosa.

È così. L’altro problema è che la realtà ci viene incontro sempre più frammentata. Il cosiddetto “reale” non è più nemmeno liquido, semmai gassoso. In un contesto simile è difficile per molte donne attivare modalità di collettivizzazione del proprio vissuto, si tende semmai a ricadere sull’io, sul “è un problema mio” proprio perché il dominio di genere, essendo meno palese e meno evidente di quarant’anni fa, è di più difficile riconoscibilità.

Spostiamoci nel mondo delle aziende. Cosa registri da lì, visto che le frequenti spesso?

Faccio subito l’esempio delle tante donne che dicono: “Non credo alle quote rosa perché dobbiamo essere brave noi”. Che ciascuno di noi debba dare il meglio (non solo le donne) è un dovere, oltre che un piacere, ma dobbiamo ricordarci che, quando si tratta di donne, continuiamo a partire da una condizione socio-culturale svantaggiata. Personalmente però registro una nuova sensibilità e una decisa voglia, da parte delle donne HR o Manager, di contribuire al cambiamento tramite processi trasformativi. Per loro stesse e per le donne più giovani: e questo fa ben sperare.

A deviare l’attenzione sul femminile sono anche i linguaggi, gli stili comunicativi.

La violenza di genere non si esplica tanto o soltanto con la violenza fisica: quella ne è semmai la sineddoche, la parte per il tutto e va combattuta con ogni mezzo. Ma ci sono altre forme di violenza, pervasive e diffuse, come la violenza linguistica che produce un soggetto denigrato o deriso, inascoltato e svalutato (per questo si parla di svalutazione linguistica/verbale del femminile). Poi c’è la violenza socio-economica-culturale. Usare l’immagine dell’occhio tumefatto per rappresentare la violenza di genere tout court è solo un modo per far sentire le donne “al sicuro”, come a dire “a me questo non accade”, senza comprendere come la violenza di genere sia una specie di Idra di Lerna.

Portare le emozioni sul posto di lavoro sembra essere ancora un autogol per le donne.

Io mi occupo molto del rapporto fra donne e potere, ed è particolarmente interessante perché, a ben vedere, è un double bind, un doppio legame. Per millenni le donne hanno subito il potere, esperendolo come forma di assoggettamento; poi, alcune sono riuscite ad esercitarlo, ad esercitare cioè quel potere che le eslcudeva. In tal senso si è prodotto, per molte, un doppio movimento con il potere (di inclusione e di esclusione) che per molte è amletico, di difficile gestione, tanto da indurre tante a rinunciarvi con evidente nocumento.

Secondo me dobbiamo invece pensare al potere come possibilità di fare e non come dominio: questa per me è la chiave che permette a molte donne di conciliarsi con il concetto di potere, e su questo sto lavorando con molte donne Manager e non, per offrire nuovi modelli di Leadership Femminile.

Del resto gli studi confermano che l’empatia, spesso esercitata in modo maggiore dalle donne, è funzionale al buon esercizio di una leadership.

Donne ed empatia. Due parole troppo banalizzate.

Il legame tra donne ed empatia attraversa le teorie costruzioniste e differenzialiste. In termini più semplici: si tratta della millenaria querelle fra biologia o cultura. Ora, io voglio sottrarmi dal commentare l’aspetto “biologista”. Sul culturalismo, però, posso dire che in genere tutte le minoranze, anche quelle di classe, esperendo la necessità di sostenersi e tutelarsi, aumentano il loro livello di empatia. Le classi sociali svantaggiate, ad esempio, risultano essere più empatiche perché esperiscono sulla propria pelle il concetto di ‘bisogno’ (“una maggiore focalizzazione sugli altri” come afferma Chiara Volpato in Le radici psicologiche della disuguaglianza). Poi c’è l’introiezione del disvalore delle minoranze, dalla misoginia introiettata alla omofobia introiettata, ma non abbiamo modi di discuterne qui.

Imporre e subire: stiamo forse arrivando al nodo più stretto.

Il dominio si replica colonizzando le donne tramite l’introiezione di un loro immaginario disvalore: noi siamo continuamente parlate dal potere, da sempre abbiamo dovuto introiettare tutti gli stilemi, i pregiudizi e gli stereotipi su di noi.

Ho riassunto tempo fa le più violente affermazioni misogine del patriarcato e mi sono trovata davanti Kant, Schopenhauer, Weininger, Leopardi, e decine di altri. Anche chi non ha mai letto un libro ha introiettato lo stereotipo.

La letteratura femminile e femminista non serve più?

Serve eccome! Ma, vedi, io credo che le bibliografie, da sole, non possano funzionare. Esistono libri illuminanti, per fortuna, ma è necessario agire e invertire una rotta millenaria. Infatti, un conto è il livello cognitivo e un conto è quello esperienziale: è stato essenziale finora, grazie a filosofe, scrittrice, autrici, prendere consapevolezza dei meccanismi escludenti; però, alla donna che non ha accesso alla cultura o che non legge libri, come attiviamo una visione su certi temi? Quello su cui dobbiamo puntare non sono tanto o soltanto i contenuti culturali ma la loro applicazione concreta.

I media, la pubblicità, la comunicazione: potrebbero fare qualcosa di diverso?

Teoricamente potrebbero fare moltissimo, il guaio è che si muovono sempre con una doppia retorica: si propala un discorso di parità mentre si replicano contemporaneamente stereotipi e linguaggi minorizzanti. La retorica con la quale di parla di certi temi li rende poi ovvi, prevedibili, svuotandoli di senso e quindi di attenzione.

Le generazioni più giovani stanno guardando da un’altra parte.

Premetto che per me è difficile parlare dei giovani, non essendolo. Dovrebbero essere loro a dirci cosa pensano della questione. Comunque credo che, per quanto i giovani abbiano oggi la fortuna di crescere in contesti ben più ampi dei nostri, le ragazze introiettino gli stessi stereotipi di decenni fa, a confermarci che la differenza di genere è, ancora, una struttura di pensiero. Proiettando poi il discorso sul mondo del lavoro, è indubbio che un trentenne abbia meno difficoltà di un cinquantenne ad avere un capo donna ma questo accade anche perché il contesto aziendale è più diversificato del passato: è un contesto che prevede molteplicità maggiori in ogni senso. Non significa, però, che la questione di genere sia già risolta. Magari.

C’è ancora una lunga distanza tra ciò che vediamo e ciò che vogliamo vedere.

Va compreso che il dominio di genere si è invisibilizzato, pertanto è più difficile ‘stanarlo’. Mi viene quasi da dire che stiamo vivendo una fase storica e culturale più vischiosa rispetto al passato, dunque meno facile da leggere. Infatti il potere, per essere efficace, deve essere quanto meno visibile possibile (pensiamo alla mafia e alla lupara bianca). Nel momento in cui si rende visibile, chiaramente interpretabile, si produce una dialettica e chi se la sente davvero, oggi, di reggere una dialettica?

Photo by Molly Belle on Unsplash

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