Prototipare è uno stato mentale

Qualche tempo fa, ho chiesto ad una mia amica che aveva iniziato da poco a lavorare in una grande azienda di servizi come si trovasse nel nuovo contesto. Lei mi ha risposto in modo positivo, ma ha anche aggiunto una postilla, senza nascondere un po’ di scetticismo: “Qua da noi, una fase ‘pilota’ non la […]

Qualche tempo fa, ho chiesto ad una mia amica che aveva iniziato da poco a lavorare in una grande azienda di servizi come si trovasse nel nuovo contesto. Lei mi ha risposto in modo positivo, ma ha anche aggiunto una postilla, senza nascondere un po’ di scetticismo: “Qua da noi, una fase ‘pilota’ non la si nega a nessuno: nuovi prodotti, nuove comunicazioni, qualsiasi cosa. Peccato che siano sempre test il cui esito è irrilevante, tanto la decisione è già stata presa a monte”. Questa cosa mi ha fatto riflettere sulla fase storica che le aziende e il management stanno attraversando.

Si dibatte infatti parecchio su questo tema: i test, le fasi ‘pilota’, i prototipi. Ma spesso si perde di vista il significato più intrinseco e profondo di che cosa comporti tutto ciò. Come è successo all’azienda sopra citata, che è ricorsa all’espediente di avviare qualsiasi iniziativa con una fase test, probabilmente pensando così di aver modificato la sua cultura del lavoro.

Invece, prototipare è qualcosa di ben diverso. È un concetto preso a prestito da mondi prettamente tecnico-scientifici (dove i prototipi servono a validare un’idea iniziale prima di passare ad una sua eventuale industrializzazione) e che negli ultimi dieci anni si è sempre più allargato a tutto il management. Probabilmente, una parte di responsabilità in questo allargamento ce l’ha l’imprenditore americano Eric Ries che, partendo dalla sua esperienza personale e dal ‘lean manufacturing’ giapponese, ha sviluppato l’approccio chiamato Lean Startup scrivendoci anche un libro di successo.

Il vero prototipo

Per rendere l’argomento più concreto, si tratta di fatto di avere un metodo di lavoro costruito su 3 fasi: testare-sbagliare-rifare. Quasi come se fosse un circolo infinito di iterazioni e tentativi, volto al miglioramento continuo e alla ricerca dell’eccellenza. Il tutto viene agevolato dall’avvento degli strumenti e degli approcci tipici del digitale, che si portano con sé la cultura del misurare le performance sempre contro obiettivi concreti, come ha raccontato Alessia Camera nell’ultimo numero di Senza Filtro. Agevolato da quegli strumenti, ma non limitato al digitale, visto che con le debite approssimazioni la misurazione di obiettivi può essere fatta praticamente in qualsiasi contesto.

Ora, questo approccio sembra di buon senso a chiunque lo si racconti per la prima volta. Ma nella realtà aziendale italiana si scontra con parecchie difficoltà. La prima è proprio sul concetto di darsi ‘obiettivi concreti e misurabili’, una cosa che anche a livello culturale non fa parte del DNA di noi italiani mentre è più tipica del mondo anglo-sassone. La seconda difficoltà è ‘energetica’, nel senso che per far sì che prototipare si trasformi in quel circolo virtuoso e infinito di iterazioni (e non un semplice espediente, ancora peggio se da “una botta e via”) ci vuole molta energia, costanza, applicazione.

Il nodo critico: sbagliare-rifare

Ma la difficoltà principale è sulla parte centrale di quella ricetta a 3-step, cioè sullo snodo sbagliare-rifare. Sbagliare significa metterci la faccia, assumersi responsabilità, non delegare alle circostanze ciò che non è andato secondo i piani. Sbagliare significa confrontarsi col mercato e coi clienti senza veli, senza reti di salvataggio. Come mi capita spesso, un esempio di qualcosa del genere viene da Amazon, che qualche giorno fa mi ha accolto nella sua app Amazon Buy VIP in questo modo:

Cattura

 

Sbagliare significa infine andare oltre l’autogratificazione e l’autoreferenzialità (aspetti tipici di realtà aziendali di successo e non), essendo pronti a rifare sulla base dei risultati raccolti. Come raggiungere questa cultura dell’errore, motore di tutto ciò? Alcune aziende si dotano di strumenti soft anche a livello organizzativo, come possono essere i cosiddetti “Program Manager”, cioè coloro che assicurano che ci sia allineamento quantomeno tecnico e operativo su tempistiche e ipotesi. Ma la posta in palio è molto più alta e la sfida intellettuale molto più affascinante di così.

Il valore dell’errore “fatto”

Si tratta di dare un valore all’errore, ricordando che senza errori non si può realizzare nulla e che è molto più importante come si reagisce all’errore fatto piuttosto che l’errore in sé per sé. Attenzione, non vorrei dare l’impressione di banalizzare il concetto di errore. Non mi sto riferendo infatti ad una visione del mondo alla Gianni Brera, che a chi gli chiedeva come mai sbagliasse tanti pronostici rispondeva: “I pronostici li sbaglia solo chi li fa!”. Non si tratta di dire soltanto “almeno c’ho provato, sempre meglio che non provarci”. Si tratta piuttosto di passare a dare un valore alla parte di insegnamento e apprendimento, che è sempre maggiore nelle cose che non funzionano. Si tratta di preparasi mentalmente ad una situazione di incertezza, in cui le antenne devono essere ben dritte per apprendere dal mercato quanto più possibile e il più rapidamente possibile. Si tratta di andare un po’ oltre la “adorazione per i piani ben riusciti” di Hannibal Smith dell’A-Team. Certo, ci vuole equilibrio, le imprese e le organizzazioni non possono vivere di errori ma piuttosto devono vivere principalmente di cose ben fatte. Eppure, vivendo solo di cose ben fatte, rischiano di cadere nell’immobilismo, e ridurre sotto il livello di guardia un elemento fondamentale come l’imprenditorialità.

Per realizzare tutto ciò, serve un ingrediente fondamentale, declinato in due fattispecie. L’ingrediente, ovviamente, è la persona. La prima fattispecie è quella di manager che interpretino davvero così il concetto di prototipo, e che siano nelle posizioni giuste per rilevanza e coerenza strategica per farlo. La seconda è l’ambiente circostante a quei manager, che dovrebbe essere costruito e coltivato affinché non frustri quel tipo di atteggiamento, ma anzi idealmente lo esalti.

Potrebbe sembrare che tutto quello di cui abbiamo parlato sia un’eventualità, un’opzione fra le tante, cioè un qualcosa che si può perseguire, ma di cui non c’è una pressante necessità. Per ribaltare questa interpretazione, faccio mia una bellissima citazione di Alvin Toffler, futurologo americano scomparso di recente: “The illiterate of the 21st century will not be those who cannot read and write, but those who cannot learn, unlearn, and relearn”. Dunque, storicamente siamo di fronte ad un periodo esaltante e stimolante, a patto di armarci della giusta alfabetizzazione e iniziare a prototipare a tutto spiano.

 

(Photo credits: unsplash.com/Mike Wilson)

CONDIVIDI

Leggi anche

Great place to What?

Negli ultimi anni è notevolmente aumentata l’attenzione delle aziende a misurare la qualità dei propri ambienti di lavoro. Alcuni lo fanno attraverso indagini interne affidate a società di consulenza con l’obiettivo di migliorare il clima fra collaboratori e nella gestione di alcuni processi interni, altri si affidano a vere e proprie istituzioni come il Great […]

Cosa rischiamo col multitasking

Il prolificissimo romanziere ottocentesco Alexandre Dumas scriveva più libri contemporaneamente. O meglio, dettava in parallelo a un gruppo di suoi collaboratori saltando dall’uno all’altro senza perdere il filo. Si dice che Napoleone fosse in grado di fare cinque cose insieme. Andando più indietro nel tempo sembra che anche Giulio Cesare fosse un campione della multiprocessualità: […]