Il cambiamento? È già dentro di voi (e nella vostra organizzazione)

Il frullatore mediatico che mixa e confonde senza tregua le parole “innovazione” e “tecnologia” gira all’impazzata. Il suo vortice ingloba tutto e tutti e sembra essere sempre più difficile provare a distinguere i sapori che ne verranno fuori. Tutto è mischiato, appunto, e tutti sembriamo esserne parte. Senza contare che le occasioni per essere ingoiati […]

Il frullatore mediatico che mixa e confonde senza tregua le parole “innovazione” e “tecnologia” gira all’impazzata. Il suo vortice ingloba tutto e tutti e sembra essere sempre più difficile provare a distinguere i sapori che ne verranno fuori. Tutto è mischiato, appunto, e tutti sembriamo esserne parte. Senza contare che le occasioni per essere ingoiati dal vortice si moltiplicano a vista d’occhio: social, eventi, presentazioni, dibattiti, hackaton e poi libri, blog, rumors, articoli e ancora iniziative sempre più trasversali, pervasive e, come si diceva solo fino a qualche mese fa (oggi già fuori moda) crossmediali, sono così piene di stimoli e innovazioni e casi e modelli da renderci sovra-esposti al punto da essere mitridatizzati dai buoni propositi di innovazione e cambiamento.

Talmente assuefatti che poi – davanti al nostro capannone nella periferia delle città-smart, nei corridoi della nostra organizzazione, dentro ai bit del nostro e-commerce – non siamo in grado di cambiare nulla. Di applicarne uno, di quei modelli, di quei suggerimenti, di quelle innovazioni. Di introdurne uno, anche pre-fatto, nella nostra routine. Spesso addirittura anche solo di ricordarne uno: «… cos’è che diceva quel tizio sul palco?». La parentesi nel titolo dell’ultimo libro del social guru Seth Godin “Cosa fare quando è il tuo turno (ed è sempre il tuo turno)” non lascia dubbi sul quanto siamo chiamati in prima persona a prenderci le responsabilità del cambiamento tanto nelle nostre piccole faccende quotidiane, quanto nella complessità della nostra organizzazione. Spesso immaginiamo le organizzazioni come dei monoliti circondati e difesi dal fossato dei loro processi e dei loro modelli di business, come delle entità autosufficienti passeggeri di un traghetto in navigazione su un mare chiamato mercato. Io in realtà preferisco considerarle (e non mi stancherò mai di farlo) come i sistemi responsabili di un sistema più ampio e importante chiamato “società”.

I modelli di business basati sulla sharing economy

Ho già avuto modo di dire in passato come siano le organizzazioni (pubbliche e private) ad avere le responsabilità decisive, ancor più in questo momento storico, in quanto soggetti titolati da una parte a gestire le persone e dall’altra a trainare il Paese nella sfida sui mercati. “Le organizzazioni sono quell’imbuto che ha in mano il cerino titolato a gestire il front-end di cambi generazionali e pensionistici, occupazione, innovazione, competizione, sviluppo, tagli e investimenti. Scusate se è poco. E che cosa sono le organizzazioni se non interfacce di processo gestite da persone?” Sta a noi dunque – dipendenti, manager, dirigenti o, io preferisco, noi “collaboratori” – farci carico di far progredire l’organizzazione e lasciare che atterri nel mondo d’oggi. Sì, ma verso quale cambiamento? Qualche giorno fa, a un convegno sulla sharing economy tenutosi a Milano, la sequenza di casi di studio dei modelli di business basati sulla condivisione partecipata faceva impressione per la ricchezza di stimoli e strade alternative, per logiche di ingaggio e di coinvolgimento del prosumer che da fruitore passivo diventa a sua volta imprenditore e consulente in prima persona.

L’idea della collaborazione

Tutto uno sfavillare di possibilità ben oltre l’idea: si tratta di piattaforme attive e alcune anche in attivo, ma ascoltando i relatori mi domandavo quanta reale innovazione ci fosse nelle organizzazioni, quanto cambiamento, per converso, questo nuovo modo di proporsi al pubblico e ai clienti si ripercuotesse nelle forme e nei modelli all’interno delle organizzazioni. Da un lato sicuramente molto quando, sposata la logica del service design e del suo impatto olistico e “co” (co-creazione, co-design, co-testing, co-coding e via dicendo), questo approccio favorisce un modo nuovo di intendere l’impresa. Non più chiusa e arroccata nel coccolare il proprio bene/servizio, ma trasparente e aperta in una osmosi permanente con il proprio mercato. Le ricadute sull’organizzazione sembrano implicite: è l’idea collaborativa, prima ancora che il bene o servizio, a essere costruita secondo questa modalità e quindi è l’intero ecosistema a cui fa riferimento che può essere considerato innovativo.

Ma è davvero così? Eccetto alcuni casi ed eccetto l’ambito più o meno lasco del marketing dove questo modo di fare ha una ragione naturale d’essere, la struttura organizzativa che risiede dietro sembra non riesca a togliersi di dosso la polvere di modelli tradizionali tipo comando&controllo. Sorprendentemente nelle imprese della sharing economy stessa che a fronte di tutte le situazione più shared del mondo, non appena crescono di volumi (e fatturato) rinculano su principi e strutture manageriali piuttosto tradizionali, al di là degli head-quarter sempre super-cool. E poi in quelle imprese che magari startup non sono (e si badi, come detto sopra, non è affatto detto che startup faccia rima con innovazione del modello organizzativo) e che devono confrontarsi con strutture gerarchiche tradizionali perfette per rimanere quelle che sono sempre state.

Molte imprese della vecchia economia si sono date colpi di make-up profondi, al limite dell’intervento chirurgico plastico totale e grazie a questo sono rinate senza dover cambiare anima (a fronte dello scrub della vecchia pelle). Ma per molte altre adattarsi a logiche partecipative, di condivisione, di coinvolgimento dal basso della propria forza lavoro o anche semplicemente di nuovi spazi di lavoro o di rapporti tra le LOB è impresa ancora impossibile. Cambiare è terribilmente faticoso, comporta un dispendio di energie mostruoso, ma anche quando ci fossero queste energie uno degli ingredienti tipicamente più carenti resta il commitment, la leadership. Un decisore illuminato capace non solo e non tanto di farsi abbagliare dall’output (prodotti innovativi, clienti che interagiscono, customer support social based), ma soprattutto capace di generare l’input. Uno degli errori più tipici che facciamo è quello di considerare sempre e solo il risultato senza verificare come e cosa abbiamo messo nel suo itinerario di riuscita. Sempre i risultati, mai o quasi le azioni che abbiamo intrapreso per raggiungerli.

Perché? Semplice, perché generare degli input di qualità è complesso, giudicare degli output scadenti facile. Cambiare gli input significa semplicmente “farlo” e come diceva Edgar Hoover: “il potere di ostacolare non costringe mai ad avere conti da rendere, mentre invece il potere di fare ha bisogno di giustificarsi in permanenza”. Senza una leadeship che decida, almeno, come proponeva De Toni di iniziare a valutare uno scenario “come se” è difficile che l’organizzazione si modifichi. Quello che suggerisce De Toni è una tecnica efficace, una via di uscita (o di entrata) per permettere anche al CEO più Ancien Régime di fare una prima mossa sullo scacchiere quando si tratta di passare dalla concettualizzazione (che tutti hanno benedetto: dobbiamo cambiare!) all’azione. Perché quando ci troviamo in uno scenario in cui il cambiamento viene avvertito come necessario, ma al tempo stesso non abbiamo in mano dati a sufficienza (abbiamo sempre fatto così!) per prevedere una qualsivoglia forma dei passaggi per generarlo ecco che un processo che parte da scenari di adattabilità (agendo «come se»), passando attraverso la prontezza di reazione (cogliere i segnali deboli, dando risposte forti) permette di giungere a una sorta di “equilibrio instabile” capace di far vacillare il monilite e lasciarlo oscillare dolcemente verso nuovi modelli che hanno meno a che fare con il “mercato” (su quello tutti si professano skillatissimi credetemi) e un po’ più con la “società”.

I veri attori del cambiamento organizzativo: i collaboratori

Già questo potrebbe essere sufficiente se nell’organizzazione fossero presenti collaboratori (e vi garantisco che in ogni organizzazione del mondo ce ne sono e si chiamano “persone”) che, come diceva Godin, siano consapevoli che è “sempre il loro turno”. E sapete chi sono? Sono quelli che amano il lavoro che fanno, si sentono coinvolti nei valori dell’impresa, che – come racconta Reid Hoffman – hanno “firmato” una alleanza con l’organizzazione per cui lavorano, ne sono parte (non “ne fanno parte”) e ne condividono l’essenza. Sono loro gli attori del cambiamento, sono loro e quindi siamo noi, la luce in fondo al tunnel della crisi, dell’obsolescenza dei processi, dei linguaggi settoriali, della difesa dello status quo, della paura della condivisione, dell’assenza di coraggio nel mostrare le passioni, dell’impedimento della contaminazione delle conoscenze. Solo se un leader saprà accorgersi di avere già nella propria organizzazione tutto questo, avverrà già di fatto il cambiamento. E sarà una esperienza molto più efficace e di un portata molto più grande di quanto avrebbe mai potuto immaginare.

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