Noi donne vogliamo essere dispari

Se siete convinti che noi donne dobbiamo lottare per arrivare alla parità di diritti e di condizioni nel lavoro e nella vita attraverso strumenti come “le quote rosa”, non leggete. Perché questo articolo parla della bellezza dell’essere dispari. Questo articolo legittima scelte poco trendy, filosofie di genere impopolari e persino quella storia che gli uomini […]

Se siete convinti che noi donne dobbiamo lottare per arrivare alla parità di diritti e di condizioni nel lavoro e nella vita attraverso strumenti come “le quote rosa”, non leggete. Perché questo articolo parla della bellezza dell’essere dispari.

Questo articolo legittima scelte poco trendy, filosofie di genere impopolari e persino quella storia che gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere. Con il beneficio semmai di invertire la prospettiva: sono le donne, infatti, a venire da Marte.

Usciamo dalla retorica che appiattisce la questione della gender equality sulla mera questione della condizione impari della donna nei contesti lavorativi, in cui è comunque dipinta come soggetto debole, spesso passivo o oggetto di ingiustizie.

L’eventualità che la donna “scelga” di fare o non fare per una sua precisa volontà o propensione non è mai presa in considerazione. Non è un argomento che ha lo stesso appeal della storia della vittima e del carnefice.

Un esempio di quanto piaccia vederla come vittima? Se osserviamo alcuni dati relativi al tanto discusso gender gap, diffusi dal World Economic Forum, salta fuori che l’Italia che comunque ha più del 30% di donne nella composizione dei board.

Tuttavia, i media si concentrano sempre sul solo dato dell’occupazione femminile che secondo l’Istat, invece, fa precipitare l’Italia al penultimo posto nell’UE (56% delle donne occupate).

Mi sono chiesta se non fosse il caso di indagare con maggiore profondità, parlando direttamente con un’azienda del ruolo delle donne e del rapporto con la carriera.

 

Le certificazioni aziendali delle pari opportunità con il Winning Woman Institute

Ho così avuto due interessanti interviste telefoniche con un istituto che si occupa di certificazioni legato alle pari opportunità, il Winning Woman Institute, che ha creato un proprio sistema di certificazione delle pari opportunità nelle aziende (con un bollino rosa che vi sarà capitato di vedere su alcuni pack, ad esempio) e la Cameo Italia, la quale è impegnata da tantissimi anni nell’equiparazione dei diritti e delle condizioni lavorative dei propri dipendenti e si è certificata nel 2018.

Enrico Gambardella, presidente del WWI, fin dalle prime domande ha chiarito gli obiettivi dell’istituto: “Il Winning Woman Institute non certifica la presenza delle donne e le loro condizioni di lavoro nelle aziende. Il nostro bollino è una certificazione legata alle pari opportunità di accesso alla carriera che valgono sia per gli uomini che per le donne”.

Dalla lunga intervista telefonica emerge un dato: su dieci aziende residenti in Italia che fanno richiesta del bollino, solo tre-quattro in realtà hanno le misure corrette per certificarsi. Le altre a seguito dell’impossibilità di certificarsi reagiscono cercando di migliorare il proprio orientamento alla gender equality. Si tratta di grandi aziende (spesso multinazionali); restano invece fuori le piccole PMI, che hanno una struttura rimasta pericolosamente indietro sul tema.

Alcuni elementi che pesano sull’attribuzione della certificazione sono sia l’equilibrio delle presenze uomo/donna che il gender pay gap, che dalla panoramica fatta dal WWI risultano essere parametri in alcuni casi molto squilibrati, fino a raggiungere percentuali negative sopra il 30%.

Come sempre governa la coerenza, ci riferisce Gambardella: aziende che hanno gender pay gap bassi, infatti, hanno molto spesso lavorato bene su tutti i parametri e riescono a ottenere la certificazione. Aziende che invece lavorano a singhiozzo su alcune misure e ne trascurano altre non riescono nella maggior parte dei casi a ottenere la certificazione.

Ma se un’azienda è forte dal punto di vista della gender equality allora perché si certifica? Il WWI su questo è abbastanza chiaro: chi sceglie la certificazione lo fa sicuramente nell’ottica di un miglioramento continuo, ma lo fa anche perché l’azione è altamente comunicabile al proprio pubblico. In altre parole, per il valore immateriale dal punto di vista comunicativo che scaturisce da un tema ad alta presa sul consumatore.

 

Gender equality in Italia: cosa ci rivela Cameo Italia?

Torniamo quindi al punto che stavamo discutendo: i discorsi mediatici sono mirati a proporre una dicotomia che semplifica il problema, con il soggetto debole da una parte e lo stato di forza dall’altra. Questo tipo di racconto ha una forte presa sul pubblico, perché la donna viene costantemente inquadrata in un ritratto di passività. Sebbene quindi la gender equality riguardi tutti i soggetti discriminati per genere, solo di donne si parla.

Non potevo fermarmi qui e ho così intervistato l’HR di Cameo Italia Monica Chiari per capire come sono le donne in un’azienda dalle politiche di genere ben curate, che cosa intendono loro per gender equality e quali misure adottano ogni giorno per garantire parità.

Lo scopo era inizialmente appurare la corrispondenza tra assegnazione del bollino e realtà aziendale, ma il quadro che è venuto fuori dalla conversazione con Monica Chiari è stato ben più interessante del racconto della virtuosità già conclamata di Cameo Italia.

Cameo Italia ha oggi il 41% di manager donne (dal 33% che aveva nel 2018) e il 48% di presenza femminile (rispetto al 45% del 2018) e attua tantissime misure a favore di uomini e donne per promuovere la work life balance e garantire a tutti, senza distinzioni di genere, accesso alle opportunità di carriera anche con sistemi molto stimolanti come la job rotation. Il gender pay gap è a circa il 15%, in costante diminuzione; quindi parliamo del paradiso, anche se Monica Chiari ha più volte ribadito che lavorano costantemente per superare le criticità che sempre e comunque ci saranno nella relazione tra un dipendente e l’azienda per cui lavora.

Ma il contenuto più interessante della nostra conversazione è stato un altro. Quando ho chiesto quanto i meravigliosi strumenti di carriera messi a disposizione dalla Cameo Italia venissero realmente usufruiti dalle donne in azienda, la risposta mi ha colpita.

La HR Manager di Cameo ha infatti dichiarato che in verità molte donne non sono affatto interessate a fare carriera, ma mirano a un buon bilanciamento tra vita personale e lavoro. Attenzione: anche le donne senza figli. Alcune usufruiscono dello smart working perché amano fare molto sport. La maggior parte delle donne sceglie destinazioni italiane e vicino casa per la job rotation, rinunciando a una posizione manageriale all’estero, perché non desiderano stare lontane dalla famiglia o dal compagno. Alcune donne non vogliono posizioni di management perché non hanno intenzione di caricarsi di responsabilità o stress e altre semplicemente perché con grande consapevolezza sanno che dovrebbero lavorare di più, sottraendo tempo ai figli o alle loro passioni. In Cameo ci sono tutti i tipi di uomini e donne: dall’impiegata contenta della sua mezza giornata all’attuale responsabile di produzione, una giovane manager brasiliana che, dopo aver usufruito di tante opportunità offerte dalla job rotation in vari Paesi del mondo, ha voluto lavorare nella sede italiana.

Monica Chiari ribadisce con forza una posizione che mi trova perfettamente in linea: “Le aziende hanno la responsabilità di dare la possibilità di scegliere a tutti nello stesso modo, ma non devono sostituirsi alla volontà delle persone. Devono preservare la produttività e le ottimali condizioni di lavoro, nel rispetto dell’impegno che ognuno può dare”.

 

Combattere le disuguaglianze di genere non vuol dire omologarsi: viva le donne dispari

Da queste conversazioni emerge una raffigurazione diversa da quelle delle donne come povere derelitte in balia delle onde nel mondo del lavoro, a cui si sostituisce la concretezza di persone che maturano la consapevolezza di poter scegliere il tipo di vita desiderata e di ciò che sono o non sono disposte a fare per la carriera.

E dunque, in questo contesto di dati tutti rivolti a colmare distanze, sciorinare classifiche e snocciolare numeri che paragonano culture che spesso non hanno neanche in comune lo stesso sistema alfabetico, figuriamoci usi e costumi, si affaccia, come nella peggiore scena di un film horror, il tentativo di creazione di cultura globale condivisa. Tutti gli stessi diritti, tutti gli stessi doveri, tutti uguali, tutti in tutto il mondo.

Ma siamo davvero sicuri che questa sia una visione davvero condivisa e prospera? Non somigliamo ancora a quella stirpe di conquistatori e colonizzatori che con la scusa di estirpare le pratiche barbare piombavano nei luoghi più remoti del mondo a distruggere ogni traccia di culture diverse? È forse un’utopia pensare che progresso, innovazione e pari opportunità oggi possano condividere spazi e intenti con la differenza?

Può oggi una donna non essere considerata meno solo perché non applica modelli di carriera e di posizione sociale uguali a quelli che hanno caratterizzato il mondo maschile fino a oggi? E se volessimo veramente qualcosa che tutta questa corsa alla parità ancora non ci ha dato modo di pensare? E se non volessimo semplicemente studiare informatica o ingegneria?

Vi invito ad ascoltare questo servizio video dell’Ansa pubblicato il primo dicembre 2019 da Il Sole 24 Ore, perché è qui che l’insidioso virus del predeterminato si insinua. La giornalista ci fa “una capa tanta” sui numeri negativi circa le donne sul mercato del lavoro italiano. Poi lo spirito della correttezza giornalistica si manifesta in lei e negli ultimi secondi del servizio, dopo aver ripetuto tante volte che l’Italia è ultima, penultima e disgraziata la dice tutta e afferma: “In pratica quasi una donna su tre è a casa e non è interessata a entrare nel mondo del lavoro”.

L’attenzione di chi ascolta è ormai tutta concentrata sul fatto che l’Italia è indietro rispetto agli altri Paesi europei, e naturalmente il testo scritto recita: “Stacco uomini-donne a 18,9 punti, fa peggio soltanto Malta”. Stendiamo un velo pietoso sul paragone con Malta, come se Malta fosse il posto più sfigato d’Europa.

Chi tra gli utenti si è accorto di quella frase buttata lì negli ultimi 40 secondi di servizio? Nella frase “non è interessata a entrare nel mondo del lavoro”, dato valido per il 43% delle donne italiane secondo Istat, c’è tutta la disparità che noi donne vogliamo che sia riconosciuta.

Disparità, esatto. Perché è fatto sacrosanto che aziende e ambienti lavorativi, contesti sociali e culture debbano preservare la parità di diritti e le uguali condizioni di accesso all’istruzione e al lavoro. Ma dovrebbe essere altrettanto sacro il rispetto e la considerazione delle scelte dispari. La scelta di restare a casa perché si preferisce crescere i figli. Di non fare il manager d’azienda, perché non ci interessa. Si tratta di promuovere ambizioni dispari di pari dignità intellettuale e sociale.

E non è che tutte le donne vogliono fare politica, ma magari vogliono partecipare, alla politica!

Quello che dobbiamo chiedere è la predisposizione o l’evoluzione di strumenti di partecipazione orizzontali che non comportino per forza la verticalizzazione dei ruoli per poter esprimere noi stessi, uomini o donne che siamo. Questo, sia chiaro, promuovendo strumenti di espressione dei propri desideri e delle proprie volontà presso tutte le culture. Così l’unico valore che dovrebbe essere omologato affinché si preservi la differenza è il rispetto.

Ecco: quello che auguro a noi stessi, in qualsiasi contesto, è di essere avvolti, coperti, guidati dal rispetto.

 

 

Photo by Alysa Bajenaru on Unsplash

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