Non eravamo pronti ad abitare la pandemia

Dal lockdown in poi le città sono diventate sistemi di controllo, e le abitazioni dei rifugi-prigioni. Il nostro modello abitativo non sarà più lo stesso: ecco come sta cambiando e perché.

Nel maggio 2020, pochi anni dopo Spillover, il saggista David Quammen ha pubblicato con Adelphi un libro forse lieve in termini di pagine, ma non di contenuti. Si intitola Perché non eravamo pronti: una disamina di ciò che stava succedendo e del motivo per cui il coronavirus ci aveva colti impreparati.

Il giornalista scientifico Ed Yong, nel suo Contengo moltitudini: i microbi dentro di noi e una visione più grande della vita (2016), già sottolineava che il nostro è “un mondo ricoperto di microbi e da loro profondamente trasformato (…)”, e aveva anche riportato, a sostegno di ciò, quanto scritto in Life on a young planet, nel 2003, dal paleontologo Andrew Herbert Knoll: “Gli animali saranno anche la ciliegina dell’evoluzione, ma la torta sono i batteri”.

Che cosa c’era, dunque, di inaspettato? Come mai non eravamo pronti ad affrontare questa emergenza nonostante se ne fosse prospettata la possibilità?

La pandemia e la città come sistema di controllo

Molti studi attestavano da tempo che i virus zoonotici, ignoti a scienza e sistemi immunitari, avrebbero potuto fare un salto di specie, lo spillover appunto, e causare un’epidemia mondiale. Avevamo elementi per sapere dove e come poteva colpirci.

Dove sarebbe avvenuto il contagio? Nelle nostre città; non in affascinanti Paesi esotici, ma sotto casa. Gli agenti causali della pandemia, i patogeni, hanno agito lì dove hanno incontrato le più alte concentrazioni di esseri umani, i centri cittadini, e si sono concentrati al massimo nei luoghi di scambio e flusso di persone, nei mezzi di trasporto. Se le navi furono i vettori della peste nera nel periodo tra il 1346 e il 1353, questa volta il morbo ha utilizzato mezzi più efficienti e veloci: gli aerei. Il mondo era tutto a portata di poche ore di volo per il COVID-19, la patologia legata al virus della Severe Acute Respiratory Syndrome.

La città è diventata lo scenario principale dei contagi e delle nostre vite. Le case, le nostre case, sono diventate l’elemento primario di un sistema di protezione e controllo; prigioni e al contempo rifugi. La forma di governo esercitata dalle autorità durante il lockdown ha limitato la libertà dei singoli e ci ha isolato in unità abitative ben precise: pochi metri quadri pro capite.

Abbiamo assistito alla creazione di una sorta di moderno Panopticon, dove dalla virtuale torre centrale il potere poteva osservare in modo continuativo sia tutte le celle che i comportamenti degli individui posti al loro interno. Si mirava a preservare la vita, controllandola però con la minaccia di rappresaglie pecuniarie e penali. Pur con le dovute differenze, sono molte le somiglianze rintracciabili con il progetto detentivo concepito dal filosofo Jeremy Bentham tra il XVIII e il XIX secolo. L’architettura circolare garantiva vita e salute: celle separate per una pulizia più facile e un più difficile contagio.

Ciò che conta non è tanto l’essere sotto controllo in ogni momento della giornata, quanto non sapere quando si è oggetto dello sguardo. Ciascuno, in questo meccanismo, controlla l’altro. Il vicino controlla il vicino, e anche chi fa jogging per strada o porta a spasso il cane. Quis custodiet ipsos custodes? Non ce n’è più bisogno. Se nel primo lockdown erano necessari autocertificazioni, controlli incalzanti e contravvenzioni, durante l’ultimo coprifuoco, che impediva di uscire dalle 22 di sera alle 5 di mattina, tutto si è svolto come parte di una nuova normalità acquisita. Ma come sono andate davvero le cose?

La fila ordinata all’interno di un supermercato a Bologna. Foto@GiulioDiMeo

Che cosa è successo alle nostre città, dal lockdown in poi?

Il piano pandemico, messo a punto meticolosamente in anni di simulazioni, è rimasto nel cassetto di qualche burocrate; l’urbanistica e i suoi tecnici non hanno rivestito nessun ruolo determinante durante l’emergenza. In preda all’ansia ci si è affidati a una caotica improvvisazione.

La gestione delle città è stata delegata a organismi di controllo e a esperti con conoscenze medico-sanitarie. La mancanza di una strategia preventiva, che arginasse il problema fin dall’inizio, ha provocato il quasi collasso del sistema ospedaliero ordinario e ha interpellato i pianificatori solo per individuare nuove ubicazioni adatte alle strutture di cura dedicate.

Le categorie più fragili sono state esposte a un aumento incrementale del rischio; anziani, malati cronici, pazienti oncologici o immunodepressi, fino anche ai senza fissa dimora; tutti hanno rischiato di essere sopraffatti. Se bisognava stare chiusi in casa, dove potevano vivere i senzatetto? Ci siamo improvvisamente accorti che la città non aveva spazi adatti ad accoglierli.

Nella mente delle persone si è delineato un nuovo disegno di città sia a livello planimetrico che percettivo; abbiamo riscoperto i confini comunali, invalicabili in alcuni momenti, e la geografia delle regioni italiane. I principali luoghi della città nell’immaginario sono diventati le appendici degli ospedali, i punti in cui si fanno i tamponi o si somministrano i vaccini, e poi ancora i supermercati e le farmacie. Gestione delle file e delle distanze hanno portato a progettare pannelli in plexiglass, distributori di disinfettante e nuove forme di arredo urbano.

Le città si sono svuotate: meno auto, certo, ma anche affitti di pendolari e studenti disdetti e case vuote. Negozi abbandonati, cimiteri e parchi pubblici chiusi, mancanza di eventi e conseguente mancanza di manifesti a tappezzare le città. La vita urbana è stata estirpata a forza dagli spazi pubblici, la vita stessa si è sopita, in ascolto, dentro le mura domestiche. L’idea e l’ideale di casa hanno dovuto adeguarsi: remote working, DaD, corsi universitari online.

Bolle prossemiche attillate hanno portato le persone a rompere legami o a cambiare alloggio per avere più spazio e un ambiente progettato meglio: balconi, spazi verdi, stanze in più per svolgere attività lavorative e sportive. La città per allentare il contagio si è rivolta alle superfici esterne: ristoranti e bar sono approdati sul suolo urbano. La città ideale del XV secolo è stata sostituita da quella virtuale, e forme di aggregazione digitale hanno sostituito quella reale: social network e sistemi di videoconferenza hanno riempito ore lavorative e tempo libero. Ci siamo accorti di non essere al passo con i tempi e le circostanze, soprattutto per quanto riguarda le modalità di partecipazione territoriale e civile.

Come stanno cambiando i modelli abitativi, all’insegna di prossimità e sociale

“La città come impulso alle nostre vite e all’economia – racconta l’architetto Silvia Cortese, creatrice su Clubhouse di Magicamente Milano – è un tema caldo. La New Urban Agenda svoltasi a Quito, Ecuador, nel 2016, e l’UN Habitat, programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani, affermano che il nostro futuro è lì. Nel 2050 la popolazione raddoppierà e il 70-80% di essa si raccoglierà in grosse aree metropolitane; bisognerà farle funzionare reintegrandole nella natura, creando opportunità per tutti a distanze limitate. Non un modello in cui c’è centro storico e periferia, ma aree con tanti poli di interesse e, pur senza una totale uguaglianza, con un minimo di opportunità. A livello abitativo si ridurranno le dimensioni dei luoghi in cui si dorme per aumentare gli spazi all’interno della casa dedicati al lavoro da remoto.”

“Nei quartieri ci sarà il near working e alcune funzioni saranno esternalizzate; la lavanderia, ad esempio, sarà un servizio prossimale condiviso; ciò offrirà nuove possibilità occupazionali. La città sarà il luogo dei contatti umani fisici, il luogo con maggiore velocità di possibili relazioni; nei luoghi sperduti del territorio acquisterà valore l’evento in remoto, virtuale, e se possibile in realtà aumentata. La sfida sarà su temi quali ambiente, energia e circolarità, ma soprattutto sul sociale, collegato alla sostenibilità economica e istituzionale. L’incapacità di dare risposte immediate da parte di poli di governance con scarse risorse sarà affrontata con forme di partecipazione pubblico-private.”

“Stiamo partendo ora con RE-ANIMA – Sustainable Real Estate Equity Crowdfunding, una piattaforma in cui i soldi saranno raccolti in equity; i budget possono raggiungere gli otto milioni a campagna. Si occuperà di interventi di rigenerazione urbana/territoriale attraverso iniziative virtuose, con un forte impatto sociale, che portino a cascata conseguenze positive per l’indotto anche a livello lavorativo. L’idea è di dialogare con enti del terzo settore o con imprese sociali, che dal 2018 sono state normate in modo innovativo rispetto alle vecchie cooperative, e sono a tutti gli effetti crowdfundabili; intercetteremo anche i capitali dei bilanci di sostenibilità di Corporate. Città come Milano, Torino, Bologna e Padova potrebbero diventare sede di queste sperimentazioni; forse Roma no, per via della predominanza del sistema pubblico ministeriale”.

Le città non erano pronte alla sindemia – termine coniato da Horton nel 2020 per definire una pandemia con conseguenze sociali difficili – perché non eravamo pronti noi.

In copertina due bambini giocano in un quartiere periferico di Barcellona. Foto di Giulio Di meo

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