Persone al centro, manager distanti

“Ho trovato questa giornata molto utile e stimolante: i temi proposti erano in linea con le mie aspettative e la modalità (molto interattiva) utilizzata in aula si è rivelata particolarmente efficace per provare da subito a mettere in pratica quanto appreso.” Quale trainer non gongolerebbe nel leggere un simile giudizio espresso dai suoi partecipanti? Purtroppo […]

“Ho trovato questa giornata molto utile e stimolante: i temi proposti erano in linea con le mie aspettative e la modalità (molto interattiva) utilizzata in aula si è rivelata particolarmente efficace per provare da subito a mettere in pratica quanto appreso.”

Quale trainer non gongolerebbe nel leggere un simile giudizio espresso dai suoi partecipanti? Purtroppo però, nell’occasione in cui è capitato, il piacere è stato immediatamente smorzato dalla frase successiva:

“Questo corso dovrebbe farlo il mio capo”.

Si tratta probabilmente di uno dei più clamorosi indicatori di un mancato allineamento all’interno dell’azienda. E non è, purtroppo, un caso raro.

 

I top manager contro tutti

Già parecchi anni fa ebbi l’occasione di ascoltare un curioso aneddoto di Enrico Bertolino, il quale fu chiamato a condurre un evento formativo a cui partecipavano top manager provenienti da tutto il mondo, con evidente sforzo economico e organizzativo. Durante lo svolgimento assistette a un appassionato discorso dell’amministratore delegato, che magnificava l’evento sottolineando l’importanza della formazione continua, della crescita e dell’investimento sulle persone, salvo poi chiudere l’intervento con uno scivolone proverbiale: “Io purtroppo mi fermerò con voi solo un paio d’ore perché qualcuno deve pur lavorare.

È ancora troppo diffusa la percezione che un elevato grado di responsabilità in azienda corrisponda a una certificazione acritica di elevate doti di comunicatore, motivatore, gran gestore di relazioni e fine negoziatore: praticamente una versione moderna di scienza manageriale infusa.

Del resto, se ti sei laureato, mica puoi ristudiare le materie del primo anno. E in un sistema impresa ancora vittima di antichi retaggi tecnocratici, e popolato per lo più da una generazione nata con “l’uomo che non deve chiedere mai” e con Fonzie che non riusciva a dire “ho sbagliato”, il terreno fertile non manca di certo. Ma così facendo i capi rischiano l’isolamento nel loro castello, e se manca la sensibilità, e di conseguenza il controllo, la distanza tra percepito e reale cresce pericolosamente.

 

Persone al centro delle aziende

È stato molto interessante discuterne con Guido Moscheni, Human Resources Business Partner Global Manufacturing di CNH, il quale condivide l’idea che l’investimento sulle persone sia ancora più nelle parole che nei fatti.

“La cultura della formazione continua non ha ancora permeato il tessuto del lavoro, sia in Italia che all’estero, ed è spesso vista come uno spreco di tempo o, in alcuni più fortunati casi, una attività a cui dedicare tempo solo attraverso una attenta gestione delle agende: scelgo il giorno in cui non ho null’altro da fare. Un modo non troppo esplicito per dire che la formazione non è allo stesso livello di importanza di altri compiti o obiettivi. Ma in molti casi la responsabilità di determinati atteggiamenti deriva da una infelice modalità di proporre la formazione: in un mondo in cui il bene più prezioso è divenuto il tempo, una formazione spot, senza un percorso funzionale che ne renda palesi le logiche e i benefici, non riuscirà mai a scardinare i pregiudizi e luoghi comuni, e sarà al massimo percepita come un contentino o una più economica alternativa a un aumento.”

Se è indubbio che serva un cambio di approccio è altresì vero che non sempre è necessario avere l’idea del secolo. È il caso delle “persone al centro”, una filosofia per rivoluzionare le organizzazioni, sempre sbandierata ma mai davvero posta in essere.

“Ora che ormai abbiamo già fatto tutto – continua Moscheni – outsourcing e insourcing, tagli o più eleganti downsizing, investimenti, automatizzato e digitalizzato, finanziato e riorganizzato, forse sono maturi i tempi per ricominciare dalle persone.”

Ma il salto culturale ha bisogno di una rincorsa adeguata: in primo luogo prendere consapevolezza che è impossibile operare certi cambiamenti radicali in modo repentino. Il partito dell’hic et nunc a ogni costo, che ha già fatto un passo indietro, almeno in termini di entusiasmo, su Industry 4.0, dovrebbe passare un po’ di tempo con i giapponesi di Toyota, che sono partiti più di vent’anni fa e si considerano ancora a metà strada, e rimangono a dir poco basiti quando ascoltano i nostri proclami di obiettivi così ardui in tempi brevissimi.

 

Reinventare le organizzazioni

È molto illuminante la teoria di Frédéric Laloux, autore di Reinventing Organizations, che è partito da una visione: creare organizzazioni libere dalla burocrazia, dalla politica, dalla rassegnazione, dal risentimento e dall’apatia. Ha quindi compiuto un (lungo) viaggio nelle evoluzioni organizzative, identificate da cinque colori, dove il blu (TEAL) rappresenta il massimo livello di valorizzazione: la persona è davvero al centro, esiste una visione totalmente condivisa e si applicano forme evolute di organizzazione autogestita. Non ci sono capi. Ma i passaggi per raggiungere il livello blu sono diversi e richiedono tempo, energia e perseveranza.

È stato successivamente Brian Robertson a utilizzare per primo il termine Olocrazia (Holocracy) per definire questa modalità gestionale e organizzativa, geniale nella sua semplicità ma di difficile realizzazione, proprio per la necessaria evoluzione culturale sottostante. Nel 2001 Robertson era un programmatore che decise di dimettersi dalla sua azienda per fondarne una propria, e poter così sperimentare questa nuova idea di organizzazione. Anche in questo caso il percorso è durato circa quattordici anni.

Roma non è stata fatta in un giorno e non è un caso che siano solo una dozzina le aziende al mondo che, sia pur con dimensioni e business diversissimi tra loro, oggi hanno sostituito la tradizionale gerarchia con una ripartizione della responsabilità su tutte le persone, che diventano così responsabili in toto del loro lavoro.

 

Il caso FAVI e il coraggio di scendere dalla torre

Esiste una società, nella Picardia francese, che si definisce “azienda liberale” di prima generazione, e che grazie al suo illuminato amministratore delegato Jean-François Zobrist già negli anni Ottanta ha rivoluzionato il modello di leadership e posto in essere un’organizzazione totalmente pensata in funzione del cliente, per il quale si parla addirittura di amore. Qui la gerarchia aziendale fa un passo indietro per lasciare il posto a team che, condividendo la visione, hanno la piena responsabilità e le leve decisionali per poter agire in autonomia. Fiducia è la seconda parola magica che fa sì che ancora oggi la puntualità e la qualità dei prodotti FAVI sia quasi leggendaria.

Riuscire in simili intenti, TEAL o Holocracy, ci consentirebbe davvero di avvicinare definitivamente i manager ai dipendenti, offrendo loro percezioni diverse, più vere e dimostrabili: un dipendente tra i dipendenti, riconosciuto perché capace, forse l’unico modo per creare un metaforico ponte levatoio che conduce al castello.

Questo sarà possibile conclude Moscheni – con l’aiuto della digitalizzazione e di una generazione di millennials che ha valori e obiettivi diversi da chi li ha preceduti, ma si deve lavorare oggi per formare i leader del futuro. Per questo anche la funzione HR potrà giocare un ruolo fondamentale, ma solo passando da un concetto ormai “volgarizzato” di HR Business Partner (che oggi indica indifferentemente posizioni junior e di elevatissima seniority) a un più nobile HR Business Enabler.

Ma per far ciò serve più coraggio che tempo (che invece è la scusa perfetta); diversamente non usciremo mai da questa impasse. Serve il coraggio di scendere dalla torre, uscire dal castello, attraversare il ponte e mettersi all’opera, condividendo e mettendo a frutto le nostre competenze ed esperienze, per non perdere il contatto con la realtà. L’alternativa è dare ragione a chi sostiene che i capi sono come gli scaffali: più sono in alto e meno sono utili.

Photo by Luís Eusébio on Unsplash

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