Prima malati poi esclusi, danno e beffa dal Governo per inidonei al lavoro

Niente pensione, niente invalidità, niente lavoro: i lavoratori inidonei avrebbero bisogno di tutele con una nuova norma che li riguardi. Il Governo, però, non sembra interessato. Ne parliamo con l’ex magistrato e consulente Paolo Remer.

Trentasei anni di anzianità lavorativa, tutti svolti come operatore di impianti per la fabbricazione della carta. Sempre la stessa azienda, sempre lo stesso ruolo di specialista nel reparto di raffinazione, dove vengono modificate le caratteristiche superficiali di struttura e forma della fibra. Sempre le stesse operazioni, giorno dopo giorno.

Dal 1985 la strada per la pensione di Federico Restello è tracciata, senza ostacoli e senza curve. Almeno fino a qualche anno fa, quando a causa di una grave patologia il suo percorso ha iniziato a conoscere limitazioni e prescrizioni concrete al ruolo. Niente carichi eccessivi, niente carrello elevatore, niente turni. Una lunga serie di aggiornamenti culminata con la sentenza definitiva del medico competente: non idoneo a svolgere mansioni all’interno dell’area produttiva.

“Di fatto sono ancora in lockdown, visto che da allora non sono più riuscito a rientrare al lavoro. E purtroppo l’INPS ha rigettato la mia domanda di pensione ordinaria di inabilità”. Secondo l’Istituto non risultano infermità tali da determinare l’impossibilità a svolgere qualsiasi attività lavorativa. “La mia percentuale di invalidità non è sufficiente a garantirmi un futuro fuori dalla fabbrica, ma al contempo non posso tornare a svolgere l’attività di una vita. A questo devo aggiungere che, mio malgrado, alla pensione mancano ancora più di sei anni”.

Costretto quindi a rimettersi in gioco a sessant’anni, perché il giudizio medico esclude tutte le postazioni operative ma non quelle impiegatizie. Come fare? Bassa scolarizzazione e quasi quarant’anni passati a svolgere prestazioni manuali non sono un biglietto da visita invitante. “Non se ne parla proprio di andare in ufficio, nemmeno immagino le difficoltà nell’apprendere anche le pratiche più semplici”.

Come funziona la legge 68/99 sugli inidonei al lavoro

Quindi? Niente pensione, niente invalidità, niente lavoro. Un bel vicolo cieco. L’unica via d’uscita da questo enigmatico limbo sembra la mediazione sindacale per concordare la chiusura anticipata del rapporto di lavoro: una sconfitta per tutti, esempio lapalissiano di mancata visione a lungo termine. O di deficit culturale, a seconda dei punti di vista. Ma la legge, oggi, come tutela i lavoratori inidonei?

Il riferimento normativo è la legge 68 del 1999, che ovviamente vieta il licenziamento dei lavoratori divenuti inabili allo svolgimento delle mansioni a causa di infortunio o di malattia, se persiste la possibilità di adibirli a mansioni equivalenti. O, in alternativa, a mansioni inferiori, pur mantenendo intatto il pacchetto retributivo.

Il rapporto di lavoro, pertanto, può essere risolto in via esclusiva quando la commissione invalidi accerta definitivamente l’impossibilità di reinserire la risorsa con un ruolo diverso. Chiaro che, anche in questo caso, il giustificato motivo oggettivo può essere impugnato dal lavoratore coinvolto, e il giudice sentenzia sull’eventuale reintegro. Nel processo sarà quindi il datore di lavoro a dover dimostrare l’incompatibilità della persona malata o infortunata con ogni posizione interna all’impresa.

L’aspettativa di vita sana, il parametro che spaventa le aziende

Tutto molto semplice e lineare, almeno nella teoria. Peccato che le statistiche offrano un panorama che nei prossimi anni potrebbe mettere a confronto la norma con un numero non indifferente di casi pratici. L’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, infatti, spiega che la curva demografica tra il 2010 e il 2030 si attesta su un aumento complessivo del 16,2% di persone nella fascia tra i 55 e i 64 anni, soprattutto per merito dell’aspettativa generale di vita, in costante crescita. La conseguenza è un invecchiamento della forza lavoro europea mai vista fino a ora. Ben il 30% degli uomini e delle donne in questa fascia, inoltre, necessita in media di un adeguamento del posto di lavoro, al fine di prevenire l’inabilità al lavoro.

A questi elementi bisogna incrociare, per quel che riguarda il nostro Paese, l’analisi ISTAT sullo stato di salute in relazione all’età. Ebbene, nel lustro tra i 55 e i 60 il dato di persone in buona salute è pari al 60.3%, anche se è opportuno specificare che addirittura il 54.1% si porta appresso almeno una malattia cronica. Percentuali che cambiano in modo drastico nel quinquennio successivo, confermandosi rispettivamente sul 54.9% e 63%.

D’altro canto se l’aspettativa di vita in Italia è piuttosto alta, 80.3 per gli uomini e 84.62 per le donne, l’aspettativa sana è in deciso contraltare e si attesta sui 59 anni per gli uomini e 57.3 per le donne. Se a tutto ciò aggiungiamo gli effetti dei lavori usuranti, degli infortuni e delle malattie professionali, il quadro sui potenziali inidonei si dipinge con colori non propriamente entusiasmanti.

Ecco perché il tavolo tra le parti sociali sulle pensioni è ancor più importante rispetto al mero aspetto salariale. La notizia su quota 102, tampone provvisorio in programma per il prossimo anno, rappresenta solo un antipasto rispetto a quanto si dovrà discutere nei prossimi mesi, soprattutto nell’ottica di un eventuale superamento della legge Fornero, che prevede la pensione di vecchiaia a 67 anni. Un bel grattacapo per i tanti lavoratori in difficoltà.

Paolo Remer, consulente legale: “Servirebbe intervento del legislatore, ma non sembra interessato”

La legge 68 del 1999, in questo momento, è un parafulmine sufficiente?

“Bisogna sempre dire che tutte le leggi, per quanto buone, si scontrano con la realtà di applicazione, che spesso è molto diversa. Non tutti, infatti, si adeguano alle prescrizioni normative, e al contempo ci sono anche lavoratori che non godono dei requisiti necessari per ottenere il ricollocamento o un ripescaggio. Infine, molte realtà si trovano di fronte all’impossibilità materiale di ricollocare in altre posizioni – penso ad esempio alle piccole o medie imprese.”

Paolo Remer, già magistrato ordinario, è attualmente consulente di direzione aziendale e si è occupato del tema sul portale di informazione e consulenza legale La legge per tutti.

“La prima cosa da capire è se il giudizio del medico competente è compatibile con tutte le mansioni del lavoratore parzialmente inidoneo, anche quelle impiegatizie. Poi è evidente che la legge è formulata in maniera astratta e generale e non può soddisfare casi dove la mancanza di formazione e di competenze rischiano di fungere da concreto deterrente all’obiettivo. Bisogna però ricordare che se l’azienda gli chiude la porta in faccia, il lavoratore ha l’arma del ricorso”.

Credo però che l’obiettivo sia quello di trovare soluzioni vincenti da entrambe le parti.

La giurisprudenza in alcuni casi si è pronunciata a favore del datore di lavoro. Non mancano comunque pronunce in senso contrario, e se il giudice dice che l’imprenditore è chiamato alla responsabilità di formare a ruoli impiegatizi l’operatore reso inabile alla produzione, non ci sono tante altre possibilità. Intendiamoci, nelle grandi aziende ci sono molte posizioni impiegatizie generiche, come il controllo ingressi o la reception.

Perdoni un paradosso: con l’età media in costante innalzamento e con i relativi problemi di salute, il rischio non è di avere più centralinisti che operai?

Questo però fa parte del rischio di impresa. Se assumo un giovane a tempo indeterminato, devo considerare la statistica che due persone su cento contraggono patologie gravi ma non definitive, e che quindi sono destinati al calderone degli inidonei da riqualificare.

Un rischio d’impresa direttamente proporzionale all’aumento dell’età per accedere alla pensione.

Non sono uno statistico, ma sono convinto che la possibilità di contrarre malattie invalidanti per gli over 60 non sia più importante rispetto a quella dei ventenni. Anzi, quanto a patologie la fascia più in pericolo è quella tra i 40 e i 50. Discorso diverso invece è l’usura sul posto di lavoro. Diciamo che al legislatore competerebbero tutte le valutazioni di questo genere, ma temo che in questo momento siano di poco interesse. Lo sguardo è solo orientato a far quadrare i conti, perché il numero dei lavoratori attivi è sempre meno e il numero di pensionati sempre più alto.

Non è necessario, allora, un intervento normativo per migliorare la 68/99?

Sarebbe opportuno renderla più specifica in relazione alle varie categorie produttive. Capiamoci: un conto è l’industria, un conto sono i servizi, il turismo e il commercio, realtà ben diverse tra loro e che prevedono compiti più o meno faticosi da un punto di vista fisico.

Foto di Andrea Piacquadio da Pexels

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