Produzione mascherine: vera riconversione o concorrenza sleale?

L’Italia al tempo del coronavirus è un po’ come le Americhe al tempo delle spedizioni europee: un luogo in cui un’autorità impone per legge la (ri)conversione del popolo indigeno, senza preoccuparsi degli effetti collaterali della riconversione stessa. Nel nostro caso la conversione è quella delle aziende, che, anche per sopravvivere allo tsunami del lockdown, riadattano […]

L’Italia al tempo del coronavirus è un po’ come le Americhe al tempo delle spedizioni europee: un luogo in cui un’autorità impone per legge la (ri)conversione del popolo indigeno, senza preoccuparsi degli effetti collaterali della riconversione stessa. Nel nostro caso la conversione è quella delle aziende, che, anche per sopravvivere allo tsunami del lockdown, riadattano tutta o parte della loro produzione – qualunque essa sia – alla fornitura di mascherine protettive.

Le stesse chieste da ospedali, personale sanitario, enti pubblici. E dalla gente, a cui ancora non è stato spiegato chiaramente se e quanto questi oggetti siano necessari o utili per fare la spesa o recarsi in ufficio. L’Italia, lo chiariamo, non sta obbligando nessuno a produrre protezioni, ma con un’economia mondiale praticamente ferma sono molte le aziende che hanno intravisto l’opportunità di restare in piedi fabbricando qualcosa di estraneo al proprio core business. Solo in Lombardia e in Piemonte il fabbisogno stimato di questi beni – soprattutto per la cosiddetta fase due, in cui saranno obbligatorie anche per la popolazione civile – si aggira rispettivamente sui 100 milioni e 80 milioni di pezzi al giorno.

Ma quali sono allora le aziende che ci forniranno questi dispositivi, e con quali criteri li stanno realizzando? Il 17 marzo il decreto Cura Italia ha introdotto due articoli che permettono alle imprese di produrre mascherine sia per uso medico sia per uso civile, in deroga alle normali disposizioni. Ma se per quelle di tipo chirurgico/sanitario i paletti qualitativi e i controlli sono rimasti più o meno stringenti – oltre all’autocertificazione occorre infatti ottenere l’ok dall’Istituto Superiore di Sanità, che sostituisce, per così dire, il marchio CE –, per quelle destinate alla collettività il governo ha preferito puntare su maglie più larghe. Lo spiega lo stesso ISS in questa nota:

“L’articolo 16 dello stesso decreto invece autorizza l’utilizzo di mascherine filtranti prive del marchio CE e prodotte in deroga senza validazione ma queste ultime non sono considerate né dispositivi medici né dispositivi di protezione individuale ma sono destinate in generale alla collettività e non richiedono tale autorizzazione.”

 

Produzione mascherine in emergenza: la qualità non conta?

Il paradosso, dunque, è che prodotti considerati non idonei per il personale sanitario possono essere immessi legittimamente sul mercato per il resto dei consumatori, dando certamente lavoro a imprese che oggi sono o ferme o costrette al blocco parziale dalla chiusura dei mercati, ma spianando anche la strada alla concorrenza sleale da parte di aziende improvvisate. Difficile infatti capire se ciò che si sta comprando abbia passato o passerebbe eventuali test di laboratorio.

Il 1 aprile, ad esempio, su 3200 richieste di autorizzazione per le mascherine a uso chirurgico, l’ISS ne ha potute validare solo 40. “La gran maggioranza delle proposte non aveva i requisiti di standard richiesti dall’articolo 15”, ha spiegato l’ente, precisando poi che le aziende bocciate “potranno però produrre in base all’articolo 16 per la collettività”.

Questo doppio binario spiega l’enorme quantità di annunci di aziende pronte alla riconversione pur non appartenendo al settore dei dispositivi medico-chirurgici: produrre in deroga mascherine per uso non medico oggi praticamente non richiede quasi controlli. Del resto, per molte imprese – specie nel campo moda – è anche una scappatoia per evitare di bloccare completamente la produzione e mettere in cassa integrazione il proprio personale.

Gucci, Prada, H&M, Calzedonia: sono solo alcuni dei brand che hanno annunciato la fornitura o la produzione di protezioni per il volto.

Prada non ha risposto alle nostre domande su ulteriori dettagli rispetto alle mascherine che ha annunciato di poter mettere a disposizione del personale sanitario della Regione Toscana (110.000 pezzi entro il 6 aprile), ma per ora non figura nell’elenco delle richieste di autorizzazione dell’ISS – aggiornato al 18 aprile. Non figurare nella lista non è di per sé indice di bassa qualità o inosservanza delle regole di produzione di mascherine, guanti, camici e dispositivi di protezione: l’iter può essere ancora in corso, o semplicemente l’azienda decide di produrre mascherine per la collettività e non per il personale medico-sanitario, e per legge non è tenuta a richiedere autorizzazioni. Ma questo doppio binario rende difficile tracciare a ritroso il percorso di immissione sul mercato di manufatti che sono importanti per la protezione delle persone, e capire come stiano davvero lavorando le aziende.

In quello stesso elenco dell’ISS compare, ad esempio, Calzedonia; mentre non dovendo l’ISS autorizzare alcunché per le mascherine a uso civile, ad oggi non esiste un elenco pubblico delle aziende riconvertite alla produzione di dispositivi per i cittadini, né linee guida nazionali omogenee per la loro realizzazione. Cosa che invece renderebbe più semplice capire se una mascherina, anche per uso ordinario, sia efficace o utile allo scopo, che è pur sempre quello di filtrare e proteggere.

 

I politecnici a caccia dell’idoneità. Il caso felice di Bari, per scongiurare il fai da te delle imprese

Per contrastare il caos sulle regole di produzione, il Politecnico di Bari ha deciso di testare direttamente in laboratorio gli standard minimi per le mascherine a uso medico e non, senza  accettare prototipi costruiti con materiali o in modi diversi da quelli indicati. “Abbiamo identificato dei materiali alternativi al tessuto-non-tessuto meltblown che ora è di difficile reperimento; li abbiamo testati per primi, e abbiamo poi detto alle aziende che seguiamo di produrre le mascherine secondo questi criteri”, spiega Francesco Cupertino, Rettore del Politecnico di Bari che qualche settimana fa ha creato insieme alla regione un gruppo di coordinamento per guidare una ventina di aziende verso la riconversione. Oggi quelle imprese possono produrre circa 300-400.000 pezzi al giorno.

“Siamo consapevoli che le mascherine che proponiamo non hanno tutte lo stesso livello di qualità”, continua Cupertino, “ovvero sono tutte adeguate per dare una protezione rispetto al contagio, ma per passare alla certificazione come dispositivo medico servono chiaramente ulteriori test. Ad esempio: se per superare il test di filtrazione batterica la mascherina deve filtrare almeno il 98%, ma raggiunge solo il 96%, certamente non potrà essere usata in ambito medico, ma io lo ritengo comunque un dispositivo adatto alla popolazione; quindi la mascherina che non arriva al livello di certificabilità, può andar bene per il mercato”.

Ma come fa un cittadino a capire la differenza tra una mascherina testata e una invece fuori da questo circuito di controlli? “Stiamo suggerendo alle aziende di indicare che le mascherine sono state prodotte secondo le nostre linee guida. L’ideale sarebbe avere mascherine certificate per tutti. Inoltre stiamo dando l’elenco delle aziende certificate alla regione che poi effettua i controlli. Noi stessi rieffettuiamo verifiche, e in alcuni casi ci è capitato di dover dire a delle imprese di interrompere la produzione perché le mascherine non erano idonee”.

Questo è un metodo locale, pugliese, aperto a tutte le aziende del territorio nazionale, certo, ma non codificato dallo Stato, che invece avrebbe potuto fornire liste di materiali alternativi evitando l’effetto fai-da-te. E soprattutto facilitando le certificazioni: in un laboratorio privato i costi si aggirano attorno ai 6-8.000 euro a prototipo. Nei laboratori universitari, invece, il processo è gratuito ma più lento, a causa dell’alto numero di richieste.

Anche il Politecnico di Milano, dopo essere stato sommerso di domande di prove tecniche, ha infatti stilato una check list insieme alla Regione Lombardia, unitamente a un elenco di materiali ritenuti idonei, per evitare invii di mascherine lontane dagli standard. “Siamo stati contattati da circa 2.000 aziende, e questi contatti sono sfociati in un migliaio o poco meno di prototipi o prove”, spiega a Senza Filtro il professor Alberto Guardone, responsabile del laboratorio CREA del Politecnico di Milano. “Circa 900 mascherine hanno richiesto il test; di queste ne abbiamo testate 250, e una ventina hanno superato le prove”. Si tratta delle mascherine destinate al personale medico. Ma che solo 20 su 250 siano idonee indica quanto non sia scontato mettere sul mercato un prodotto che fino a ieri non si sapeva neppure come produrre, e soprattutto fornisce un’idea del volume di mascherine non utilizzabili in sala operatoria o in casa di riposo, ma disponibili in commercio per uso civile.

 

Mascherine, impennata dei prezzi? Colpa delle materie prime

Quelle imprese che però volessero produrre mascherine ordinarie di qualità e in breve tempo non hanno indicazioni su come fare, perché quelle indicazioni, ad oggi, non esistono. E chiunque può spacciarsi per produttore, annacquando il mercato e concorrendo slealmente.

“Molti non hanno capito che i test condotti – ad esempio – dal Politecnico di Milano vanno poi integrati con test di laboratori certificati, che però fino a pochi giorni fa o erano ancora chiusi per motivi sanitari o avevano personale ridotto, e si sono ritrovati con centinaia di richieste”, spiega a Senza Filtro Betty Gaspari, amministratore delegato di Vagotex, azienda già specializzata in tessuti tecnici e che ha deciso di adattare la produzione per la fornitura del tessuto con cui si realizzano le protezioni per il volto. Secondo Gaspari, infatti, mascherine non sottoposte a test e ulteriori analisi non dovrebbero essere nemmeno donate al personale sanitario.

L’amministratrice parla anche di “sciacallaggiosulla materia prima, cioè il famoso tessuto-non-tessuto meltblown il cui prezzo è schizzato alle stelle. “Molti danno la colpa dei prezzi alti delle mascherine ai produttori, ma non è così: il problema è sul prezzo della materia prima, su cui in questo momento non c’è alcun controllo: un metro di meltblown è passato da 40 ad anche 100 euro, non è giusto”. Il rischio, dunque, è che per mantenere il prodotto competitivo molte imprese neofite azzardino combinazioni di materiali alternativi, senza testarli a dovere.

 

Le mascherine e i criteri di produzione inesistenti

Il vero nodo, lo abbiamo detto, riguarda però la quasi totale assenza di criteri omogenei per la produzione delle mascherine ex art.16.

Le aziende che hanno iniziato la riconversione prima del 17 marzo, ad esempio, oggi producono con regole diverse da quelle pre-emergenza. È il caso della Bc Boncàr, che nella vita pre-COVID produceva solo confezioni e packaging per il settore del lusso e della moda, e ora ha adattato una linea di produzione della sua fabbrica di Busto Arsizio a mascherine per la collettività: riesce a sfornarne circa 30.000 al giorno.

“Abbiamo iniziato a produrre mascherine a partire dall’8 marzo, quando ancora non c’erano decreti e indicazioni su come e con che criteri produrre. Noi però ricevevamo e riceviamo ancora richieste di mascherine sia da enti locali del nostro territorio sia da aziende, e abbiamo deciso di riconvertire parte della nostra fabbrica”, spiega il cofondatore dell’azienda Paolo Bonsignore. “I dispositivi che produciamo, che oggi rientrano nell’articolo 16, cioè mascherine per la collettività, li avevamo inviati per le analisi e i test di laboratorio anche al Politecnico di Milano. Ma sono stati bocciati. Alcune tipologie di tessuti e articoli che prima dell’emergenza erano classificati come mascherine chirurgiche di classe 1, infatti, durante il coronavirus sono stati classificati non idonei; e quindi ci siamo ritrovati con un prodotto che, paradossalmente, prima dell’emergenza COVID era considerato idoneo anche per uso medico, e dopo l’emergenza di colpo non più. Stiamo migliorando il nostro prodotto e abbiamo rispedito sia al Politecnico di Milano sia all’ISS tutta la documentazione necessaria. Siamo in attesa di un riscontro”.

 

Riconversione delle aziende, ecco come funziona. Ma la privacy copre nomi e fondi ricevuti

In attesa di avere un elenco trasparente di aziende che abbiano superato i test, il governo potrebbe lavorare su quello dei finanziamenti pubblici per la riconversione. Sempre nel decreto Cura Italia, infatti, sono stati stanziati 50 milioni di euro da destinare, a richiesta, a imprese che intendano riconvertirsi oppure ampliare la propria attività per produrre dispositivi medici o per la protezione individuale (comprese quindi mascherine, guanti, camici, gel).

Si tratta di prestiti agevolati con una richiesta minima di 200.000 euro e una massima di 2 milioni di euro. Il mutuo, però, può tramutarsi in un prestito a fondo perduto – quindi senza restituzione – se l’azienda riesce a concludere l’investimento (ad esempio comprando i macchinari e riconvertendo la fabbrica) in 15 giorni. Questo significa che più le società sono svelte, maggiore è la capacità di riconversione, ma anche minore il tipo di controllo che è possibile effettuare su elargizioni simili e sul fatto che la riconversione stia davvero avvenendo. Finora Invitalia ha ricevuto 580 domande di finanziamento e ha concesso più di 25 milioni di euro a 74 società: la maggior parte è concentrata in Lombardia, Emilia-Romagna, Campania e Toscana. Ma non si sa quali siano, né quanto abbiano ottenuto.

Abbiamo chiesto a Invitalia l’elenco delle beneficiarie e il relativo ammontare finora accordato: in chiaro risultano solo una decina di imprese, ma senza indicazioni sui finanziamenti. “Più di questo non possiamo fare, vista la privacy e visto che non tutte le aziende ci autorizzano a diffondere i dati”, spiega l’ente. Eppure la trasparenza in questi casi dovrebbe essere obbligatoria, specie se quei soldi vanno a finanziare la fornitura di prodotti che saremo costretti ad acquistare nella fase di coabitazione con il virus, e vorremmo fossero di qualità.

Ha quindi senso questa corsa alla riconversione? Secondo il direttore del laboratorio Polimi, Guardone, “abbiamo e avremo bisogno di molte mascherine, quindi sì, è necessario che le aziende italiane le producano”. Dipende però dal modo in cui ci si converte. C’è anche chi – come Alberto Sportoletti, amministratore delegato di una delle principali società italiane di consulenza in riconversione industriale, Sernet – mette in guardia dai cambiamenti improvvisati. “Se ho dei macchinari e un sistema produttivo flessibile e posso approvvigionarmi e ho fatto tutte le verifiche di mercato, certo che è possibile riconvertire anche in 15 giorni o un mese l’attività”, spiega. “Però bisogna chiedersi se la riconversione sia davvero coerente con una visione strategica. In Italia in questo momento manca una visione, un piano per il dopo. Andare dietro all’incentivo o al sussidio di breve termine credo sia deleterio. I soldi come arrivano fanno prestissimo a finire”.

Tra le aziende che hanno annunciato la riconversione, 12 sono state contattate da Senza Filtro, e di queste solo una ha spiegato di voler fare domanda al fondo Invitalia per sostenere la produzione. Si tratta del Gruppo Plissé, che in Veneto è riuscito a riconvertire un’azienda di abbigliamento per garantire una partita di 60.000 mascherine a uso medico. Ha circa 60 dipendenti; con le mascherine riesce a farne lavorare 25-30, mentre al resto applica una cassa integrazione a rotazione. “Cerchiamo di far ruotare la cassa e tenere le persone a casa il meno possibile”, spiega Morena Bragagnolo, amministratrice delegata della società. “Inizialmente per produrre le mascherine ci siamo fatti guidare da un nostro amico medico che lavora a Padova, occupandoci in prima persona di tutta la parte burocratica, che è lunga e complessa, per riconvertire la produzione”.

 

Una certificazione per le mascherine. Il rischio di concorrenza sleale

Che la quantità delle mascherine prodotte sia più importante della loro qualità lo dimostrano le parole con cui il vice Ministro dell’Economia e delle Finanze, Laura Castelli, il 24 marzo, durante la trasmissione Agorà, definiva l’idea di applicare un bollino o certificazione a tutte le mascherine che superino i test dei laboratori di ricerca, anche quelle destinate alla collettività, come quelli condotti dal CREA (DAER e DENG) del Politecnico di Milano. Un modo utile per far orientare i consumatori. “Se ci mettiamo a mettere i bollini sulle mascherine, non finiamo più”, aveva concluso Castelli.

Da una parte abbiamo aziende che vorrebbero produrre secondo le regole mascherine di cui avremo bisogno nei prossimi mesi; dall’altra uno Stato che spinge invece per la deregulation, caricando sulle singole accademie o regioni il controllo e il coordinamento di linee guida minime per garantire standard qualitativi di quanto immesso sul mercato. Un non-piano che di certo avrà il merito di inondare farmacie e supermercati di bende più o meno filtranti, favorendo però la concorrenza sleale e penalizzando invece quelle aziende che faticano a ottenere certificazioni. Un sistema che, nel lungo periodo, non garantisce affatto continuità lavorativa alle società che si stanno letteralmente gettando nell’impresa della riconversione. E che, anche con tutte le buone intenzioni, navigano a vista, nella speranza di trovare l’America.

 

In copertina, la macchina offset a foglio per la produzione di “schermi filtranti” prodotti da Grafica Veneta Spa e distribuiti dal Governatore Zaia a tutti i cittadini. 

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