Ristorazione, se la sicurezza va fuori menu

I ristoratori devono far fronte all’isteria di una ripresa in cui i protocolli cambiano di continuo. Come garantire la sicurezza di dipendenti e clienti? L’abbiamo chiesto agli esperti del settore Alfredo Zini (Confcommercio), Paolo Miranda (ex FISASCAT) e Silvio Moretti (FIPE).

La pandemia ha complicato la vita ai ristoratori e ai pubblici esercizi e non solo a causa delle chiusure e delle limitazioni. Un dato su tutti: nel 2020 il settore ha perso 243.000 posti di lavoro, di cui 116.000 a tempo indeterminato. Il lockdown e le restrizioni hanno indotto molto personale (anche a tempo indeterminato) a rivolgersi verso altri settori “più sicuri”, come la grande distribuzione e la logistica. Questa migrazione ha comportato una dispersione di competenze difficile da recuperare, un problema con cui le imprese della ristorazione si confrontano quotidianamente.

Però c’è anche l’altro lato della medaglia, forse ancora più inquietante. Infatti c’è anche chi, pur di non perdere il contratto a chiamata o il compenso per una giornata in nero, è andato a lavorare pur sapendo di essere positivo al COVID-19. È una questione di responsabilità personale, certo – anzi, di mancata responsabilità personale. Ma oggi quali sono gli strumenti per lavoratori e imprese per garantire la sicurezza sul lavoro sia nei confronti dei dipendenti che dei clienti? Che cosa è cambiato con la pandemia?

Il contratto nazionale dei pubblici esercizi scade proprio a fine mese, e abbiamo chiamato in causa diverse voci per capire che cosa gli manca e come dovrebbe essere rinnovato.

Alfredo Zini, Confcommercio: “Il problema più grave è la mancanza di formazione semplice e continua”

“La preoccupazione è risalita e si lavora male, non si riesce a programmare nulla”. Sono le prime parole che Alfredo Zini si sente di dirmi. L’incertezza pesa sul settore da troppo tempo e negli imprenditori c’è tanta volontà di proseguire, ma anche la rabbia di chi non trova gli strumenti per poter andare avanti. In primis per questione di protocolli.

“Nella ristorazione applicare le normative per la sicurezza sul lavoro e la sicurezza alimentare crea spesso grandi difficoltà ai piccoli imprenditori, perché i protocolli sono di difficile applicazione. Per gli imprenditori-lavoratori non è semplice andare incontro a procedure standardizzate e garantire la sicurezza sul lavoro e la sicurezza alimentare nei confronti del cliente. In pratica le sanzioni per punirlo se non rispetta le regole ci sono tutte, ma spesso non gli vengono dati gli strumenti per mettersi in regola. Il problema è che i protocolli vengono pensati in maniera allargata e standardizzata e la grande industria del food non ha problemi a rispettarli, ma per il piccolo imprenditore in difficoltà non c’è nessun margine di flessibilità”.

E questo è un primo punto, ma non l’unico. Secondo Zini la questione della formazione è ancora più dolente, soprattutto se collegata alla ricerca del personale.

“Per garantire la sicurezza di tutti, la formazione dovrebbe essere immediata e semplice. Da parte del piccolo imprenditore c’è poca preparazione da questo punto di vista, perché spesso non ha tempo, soprattutto se gli viene dato un carico di controllo che spesso non coincide con i tempi di una piccola impresa famigliare. In pratica dovrebbe esserci una formazione semplice e continua, e collegata a una banca dati che dovrebbe permettere all’imprenditore di assumere in tempo reale, anche la mattina per la sera, potendo però verificare le competenze del collaboratore. Invece questo oggi non è possibile e il rischio è di essere costretti a prendere personale in nero, perché ne hai bisogno la sera stessa, senza la possibilità di controllare se il lavoratore è formato e in grado di gestire i processi di sicurezza. E questo ti può mettere in difficoltà sia nei confronti del lavoratore, perché se non sa usare il coltello è un problema e rischia di farsi male, sia nei confronti del cliente, perché se la persona non sa che non si può usare lo stesso tagliere per la carne e per il pesce, il cliente va incontro a intossicazioni, infezioni e problemi.”

“Al tempo stesso ci sono persone che sono andate a lavorare malate, anche in pandemia pur di non perdere il lavoro, e questo perché non sempre ci sono stati i giusti controlli. Questo oggi è un tema molto forte, ma il problema c’era anche prima, quando un collaboratore poteva avere un’infezione in corso, un’intossicazione alimentare o un virus intestinale. Tutte situazioni in cui non puoi pensare di toccare degli alimenti, però l’imprenditore non ha nessuno strumento per controllare questa situazione.”

“L’imprevedibilità è all’ordine del giorno, e se si ammala un dipendente all’imprenditore serve uno strumento che fa una radiografia immediata del lavoratore, una lista dove ci può essere uno scambio bilaterale. Magari non troverò sempre il cameriere alto, bello e biondo, ma saprò che lì dentro ci sono persone formate che sanno fare il mestiere. Le agenzie interinali fanno già questa operazione, ma non nei tempi che servono alla ristorazione. Il mondo è cambiato, e le nuove esigenze a livello contrattuale vanno valutate e inserite nel momento di rinnovo, perché così penalizziamo qualsiasi azienda e qualsiasi lavoratore. Così non c’è ripartenza”.

Paolo Miranda, ex FISASCAT Milano: “Nella ristorazione retribuzioni basse e scarsa cultura della sicurezza”

“Purtroppo il tasso di infortuni nella ristorazione è altissimo, anzi è il più elevato in assoluto, superiore a quello dell’edilizia”.

Paolo Miranda ha lavorato all’ente bilaterale dei pubblici esercizi di Milano e tra i compiti aveva anche la gestione della salute e della sicurezza, e quando hanno fatto una ricerca sul settore ha mostrato dati allarmanti.

Sono infortuni lievi, quasi mai gravi, ma sono tantissimi e sono solo quelli denunciati. Poi c’è tutto il sommerso. E anche chi lavora in regola non sempre denuncia l’infortunio. Il tasso è altissimo nella ristorazione collettiva, nelle mense e nelle grosse catene, più basso nei piccoli ristoranti. La ragione è che nella grande impresa tutto viene denunciato e registrato, mentre se lavoro in un piccolo ristorante di solito se mi taglio un dito mi aggiusto in qualche modo e l’infortunio non viene registrato.”

“Gli infortuni poi sono molto simili a quelli che capitano in ambiente domestico, ci si taglia, ci si scotta, si scivola. Manca la cultura della sicurezza in questi ambienti, e questo non è imputabile al lavoro discontinuo dovuto al COVID-19 o al lavoro nero. In generale non c’è attenzione rilevante verso il lavoratore infortunato o malato. E uno dei problemi che attanaglia questo settore sono le retribuzioni basse; per questo è anche difficile reperire personale. Gli adeguamenti delle retribuzioni non sono corrispondenti all’aumento del costo della vita e i rinnovi contrattuali arrivano sempre tardi. Se questa situazione cambiasse, forse si risolverebbero anche altri problemi.”

Silvio Moretti, FIPE: “Gli strumenti contrattuali per le imprese sono duttili. Ma mancano i voucher”

Sento Silvio Moretti per ultimo, solo dopo aver ascoltato le parole e le proposte di Alfredo Zini e Paolo Miranda.

Silvio conferma che nel contratto nazionale esistono degli strumenti che possono agevolare i ristoratori in difficoltà, come la possibilità di assumere lavoratori in apprendistato nelle fasi stagionali, senza impegnarsi con una persona per tutto l’anno.

“Questa è una novità che ha solo il contratto dei pubblici esercizi e l’apprendistato può articolarsi in più stagioni. Certo questo non risolve l’imprevedibilità del lavoro nel nostro settore, ma aiuta durante i picchi di stagionalità. Un’altra strada per affrontare l’imprevedibilità che oggi è all’ordine del giorno è la formula di contratto ‘part time week end’, studiato già prima della pandemia per le esigenze del settore. Sono contratti anche da otto ore settimanali che possono essere concentrate nel fine settimana; possono essere stipulati con giovani studenti o con lavoratori che hanno delle forme di sostegno al reddito.”

“Poi c’è il lavoro extra, ovvero la possibilità di assumere lavoratori per un tempo non superiore a tre giorni. Questa soluzione è molto utile per chi fa convegnistica o fiere ed è uno strumento importante che ha una retribuzione con una paga base onnicomprensiva di 15 euro l’ora. Poi c’è il lavoro a chiamata, che non è disciplinato nel contratto ma che è diffusissimo nel nostro settore perché la legge lo consente.”

Visti così gli strumenti sembrano tanti e anche piuttosto flessibili: pare non manchi nulla. Ma in realtà non è così.

“Quello che manca – prosegue Moretti – sono i voucher, che rappresentavano uno strumento importante per la regolarizzazione di tanti lavoratori. In pratica consentivano all’imprenditore di avere il collaboratore immediatamente disponibile, e al lavoratore di accettare un compenso pagato con la contribuzione. I voucher sono stati eliminati dal nostro ordinamento, ma con essi si sono perse diverse opportunità. Di sicuro potevano essere un trampolino di ingresso per un lavoro più strutturato e rappresentavano una soluzione corretta per le aziende in difficoltà che non potevano permettersi di assumere. In sostanza consentivano l’emersione di lavoro irregolare. Certo, dovevano essere più tracciabili e bisognava dare dei limiti al loro utilizzo, ma erano uno strumento che, messo insieme a tutti gli altri nella cassetta degli attrezzi, era necessario.”

“Il problema è che la nostra attività è legata alla presenza del consumatore e servono più che altrove strumenti agili. La ristorazione è un settore che vive di momenti di punta, che non si possono programmare in partenza, e spesso bisogna organizzarsi la mattina per la sera.”

Purtroppo, anche la FIPE ha avuto segnalazioni di casi in cui datori di lavoro hanno dovuto rimandare a casa dipendenti che avevano contratto il COVID-19, e per le piccole imprese questa situazione non è affatto semplice da gestire. Molti ristoratori hanno dovuto assumere anche il ruolo di controllori, cosa che non gli competeva, ma lo hanno fatto lo stesso perché volevano evitare altre chiusure. E oggi devono fare i conti anche con il fatto che la pandemia ha portato a un ripensamento del tempo e dei ritmi vita-lavoro. In molti ora si domandano se valga la pena lavorare a ritmi così stressanti come quelli della ristorazione.

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