Salvini è Dorian Gray, purché se ne parli

Fenomenologia della comunicazione «Il discorso sulla comunicazione e sugli stereotipi legati a migranti e stranieri è molto complesso, se non altro perché ne parlano tutti ed è sulla bocca di tutti e, proprio per questo, rischia di diventare immediatamente luogo comune», commenta Federico Montanari, docente di Semiotica dei Media e di Comunicazione Visiva presso l’Università […]

Fenomenologia della comunicazione

«Il discorso sulla comunicazione e sugli stereotipi legati a migranti e stranieri è molto complesso, se non altro perché ne parlano tutti ed è sulla bocca di tutti e, proprio per questo, rischia di diventare immediatamente luogo comune», commenta Federico Montanari, docente di Semiotica dei Media e di Comunicazione Visiva presso l’Università di Modena e Reggio Emilia «Il primo punto è proprio questo: lavorare smontando gli stereotipi e i luoghi comuni. Il rischio, però, è che per motivi di varia natura — dall’uso massiccio e totale dei social media alla diffusione rapidissima delle informazioni — la gran parte delle persone tendano ad aderire non solo ad alcune modalità di contenuto ma anche di forma della notizia che procedono in modo automatico. Certamente, alla base ci sono forme di razzismo che si diffondono, persistono e si allargano, ma c’è anche una base di automatismo nei linguaggi nei discorsi dei media, per i quali si è portati ad aderire come se certe notizie fossero scontate».

«Prendiamo come esempio il caso della nave Diciotti. Quando i profughi che erano sulla nave hanno lasciato Rocca di Papa, Salvini ha immediatamente “proclamato” attraverso i social media: “Così, abbiamo la conferma che la storia degli scheletrini che scappano dalla guerra è una farsa”. Il problema è: come smontiamo una notizia del genere?», prosegue Montanari. «Da dove cominciamo? Perché la reazione della maggior parte delle persone è: “Allora, in fondo, il governo aveva ragione”? Già di per sé il fatto è stato clamorosamente grave. Bloccare una nave militare italiana appartenente ai corpi dello Stato da parte del Governo stesso è già di per sé un atto paradossale e crea un corto circuito non solo mediatico ma anche istituzionale: pensiamo all’imbarazzo del presidente della Repubblica, che è anche a capo delle forze armate. Un corto circuito clamoroso. Risolto questo, i migranti vengono fatti scendere, ricollocati, e poi viene data la notizia che sono scappati. Ebbene, la Caritas ha fatto subito notare che queste persone non sono scappate da nulla, perché non erano in stato di fermo né di detenzione, come invece alludeva la dichiarazione di Salvini. Questo è un caso tipico di mal discorso, sui temi e sulle parole, in cui vengono aggiunte falsità su falsità».

Un primo modo per smontare criticamente questi stereotipi e queste retoriche consiste, quindi, nell’adottare un atteggiamento critico e, perché no, di epoché e di sospensione del giudizio sui social media e prestare una fortissima attenzione al linguaggio. «Benché si corra sempre il rischio di essere attaccati e massacrati», chiarisce Montanari. «In genere, ci si concentra su piccolezze per sviare l’attenzione dal problema generale e questa è una tendenza tipica dei social media. Ad esempio, si pensa che i soldi che vengono spesi per l’accoglienza possano essere utilizzati per ricostruire il ponte di Genova: tipico collegamento fra due temi diversi, fra cui non c’è relazione. Il meccanismo, quindi, è duplice: colpire il particolare ignorando il tema principale e collegare temi che non hanno attinenza fra loro».

«A proposito di social media, Umberto Eco ha detto due cose. Prima la famosa battuta sugli imbecilli sulla rete («I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli» N.d.R.), che personalmente condivido, perché sui social rischiamo tutti di essere imbecilli. Ma Eco ha parlato anche di ipertematizzazione», prosegue Montanari. «L’ipertematizzazione consiste nel tematizzare qualcosa legandola a qualcos’altro e creando corti circuiti tematici che fanno sì che la notizia diventi unica. Ad esempio, si lega il termine “rom” al termine “ladri” e, agli occhi del fruitore, i rom appaiono automaticamente come tali. Questi meccanismi retorici sono fra quelli che funzionano di più nella rete e determinano non solo delle forzature tematiche (come dire, uno più uno uguale tre), ma anche il proliferare di un linguaggio un po’ orwelliano (“La guerra è pace”), una specie di non-lingua che si produce e si propaga attraverso i social media. Questo è il terreno di elaborazione e di costruzione per eccellenza dei meccanismi di retorica sui migranti».

Il diritto a una comunicazione differente

Quali possono essere, dunque, gli strumenti utilizzabili dei cittadini per costruire un’informazione consapevole, libera da pregiudizi e che consenta loro di maturare un’opinione propria, in linea o meno con la propaganda di turno?

«Tanta teoria ha dei risvolti pratici e tante parole, soprattutto quelle che toccano la pancia, mascherano una realtà complessa», commenta Giuseppe Massafra, Segretario confederale della CGIL. «Dobbiamo riprenderci il diritto a un pensiero complesso. Dobbiamo abbandonare l’idea che tutto è semplificato e che tutto è semplificabile. È una nuova forma di resistenza: tornare a un pensiero complesso, mantenendo e alimentando un confronto dal basso, già nelle dinamiche lavorative. Il processo di continuità con la base è l’elemento che permette di comporre pensieri articolati, di carattere generale ma anche adattati alle esigenze di tutti. È necessario costruire una ri-collettivizzazione dei bisogni, che vengono ormai percepiti come individuali. I bisogni sono gli stessi per tutti e quindi vanno accomunati, vanno resi collettivi, nonostante prima ancora di Salvini — Berlusconi docet — per anni abbiamo pensato che il tema fosse quello di risolvere il bisogno individuale di ciascuno, e questo ha portato a un processo di atomizzazione della società».

Ma tradurre un pensiero complesso e adattarlo alle dinamiche dei social media in cui la velocità di diffusione delle informazioni favorisce l’uso della retorica e sollecita il linguaggio persuasivo è un’operazione delicata e tutt’altro che semplice. «Nell’ambito dei convegni, dal punto di vista della teoria e dell’analisi è giusto rivendicare il diritto a un pensiero complesso — commenta Federico Montanari — ma la domanda oggi è: in che modo declinare questo pensiero complesso nelle forme dei social media? In che modo è possibile tradurre le forme del conflitto sociale?».

In definitiva, oggi la sfida nei confronti di un’informazione acritica consiste nell’adottare una prospettiva differente, che permetta di individuare, di riconoscere e, infine, di smontare una comunicazione spesso propagandistica e alla base di fenomeni come le fake news e gli hate speech. Ad esempio, modificando il modo stesso di fruizione dei media. Social ma non solo.

«Penso che il discorso debba essere spostato dai singoli post e dai singoli tweet di Salvini ai media nel complesso», commenta Giovanna Cosenza, Ordinaria presso il Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università di Bologna. «Il problema più pervasivo che riguarda il dibattito “migranti sì, migranti no” è mediatico, nel senso che la comunicazione di Salvini funziona perché fa parlare di sé. È la vecchissima regola, la parafrasi di una frase del romanzo di Oscar Wilde Il ritratto di Dorian Gray: nel bene e nel male, purché se ne parli. La risonanza mediatica trasversale su stampa, televisione e social delle affermazioni di Salvini ha una forza tanto maggiore quanto maggiore è l’opposizione che trova».

«La capacità di usare i mezzi di comunicazione di Salvini, inoltre, è tale che può essere disinnescata solo se c’è un cambiamento radicale di strategia mediatica, anche perché spesso i fatti smentiscono le sue dichiarazioni; ma insistere su questo tipo di temi, di polemiche, di aggressività aumenta i click e alza l’audience. La strategia da adottare, quindi, è non riprendere tweet e dichiarazioni, che sono palesemente delle “sparate” e che derivano sia da un meccanismo mediatico generale che da un abbassamento del livello della professione giornalistica in Italia, sia pur con le dovute eccezioni. Contro la presunta visione razzista degli italiani, quindi, raccontare episodi di accoglienza e di non razzismo. Raccontare e moltiplicare queste narrazioni anziché le altre», conclude Cosenza.

Ridiamoci sopra!

Solo in cartolina è un progetto che nasce nell’estate del 2018 da un’idea di un gruppo di creative fighters — copywriter, designer e illustratori — e che, attraverso la diffusione di cartoline molto particolari, mira a informare e sensibilizzare i cittadini sul ruolo delle ONG nei nostri mari. Una campagna autonoma, completamente autofinanziata e svincolata dalle istituzioni dalle logiche dei partiti. E che raccoglie attorno a sé un numero sempre maggiore di artisti, creativi, fumettisti e illustratori. Ma oggi i sostenitori di questa “sommossa epistolare” sono anche simpatizzanti e semplici cittadini, che hanno voluto esprimere il loro sostegno alle ONG che prestano soccorso in mare attraverso la realizzazione e la condivisione di cartoline. Con buona pace dei social polarizzati e di quella parte della stampa alla continua ricerca del like ad ogni costo.

 

«L’idea nasce a giugno, parlando con Michela (Michela Locati, copywriter e co-ideatrice della campagna N.d.R.) della dichiarazione del Ministro dell’interno Salvini, secondo cui quest’anno le ONG avrebbero visto l’Italia solo in cartolina», commenta Nicole Romanelli, content strategy, copywriter e fra le ideatrici del progetto. «Michela, con una battuta risponde che sarebbe “figo” inviare davvero delle cartoline. E io le rispondo: “Ma sai che sarebbe veramente ‘figo’ inondare il Viminale”», prosegue Romanelli. «E finisce lì, come primo barlume di idea. Poi nei giorni successivi continuiamo a ripensare alla cosa e alla possibilità che possa funzionare realmente, coinvolgendo gli amici creativi per la realizzazione di queste cartoline». Nasce così un primo documento, una “comunicazione fra amici” inizialmente spontanea e priva di pianificazione strategica e che, un po’ alla volta, si trasforma prima in un sito web, poi in un progetto vero e proprio che nel giro di pochissimi giorni coinvolge anche grafici e uffici stampa. L’intera campagna è pro bono, autofinanziata e oggi coinvolge tantissime persone, in un contesto eterogeneo e multidisciplinare che fa dell’ironia la chiave del suo successo.

“Mare e morti”, “Mediterraneo bello da morire”, “Saluti e baci dalla Pacchia”, “Una barca di abbracci”: sono solo alcune delle cartoline più ironiche e irriverenti legate alla campagna che, lungi dal fomentare il tono apertamente rissoso proposto da politici e media, strizzano l’occhio al fruitore con illustrazioni pungenti, payoff canzonatori e una comunicazione estemporanea solo in apparenza.

Un’ironia, peraltro, squisitamente tipica della tradizione italiana. «Pensiamo alla classica commedia all’italiana — chiarisce Romanelli — ricca di ironia e di melodramma e che rappresenta un modo semplice per comunicare “come comunicheremmo fra noi”». La cartolina, quindi, diventa un modo semplice, efficace e anche divertente per comunicare ciò che è accaduto durante l’estate nei nostri mari.

«La cartolina, inoltre, è sempre accompagnata da dati e da informazioni di fact checking, per dare più sostanza al messaggio che vogliamo inviare», prosegue. «È una modalità di comunicazione che funziona perché è semplice e perché è un archetipo della nostra cultura e che tocca un po’ tutti». Un mix, in definitiva, fra l’ironia amara della commedia all’italiana, che affronta in maniera sprezzante ma critica momenti di forte drammaticità e la corrispondenza estiva: le cartoline dalla Riviera e dalla Sicilia diventano, quindi, il filtro, per raccontare qualcosa di molto crudo, dando alle persone la visione di quello ciò sta accedendo.

Una comunicazione alla portata di tutti

Ma in che modo si costruisce una comunicazione semplice, efficace ma anche “di denuncia”? «Dal punto di vista retorico la campagna è stata costruita sul livello della metafora, fra gli espedienti più utilizzati nella comunicazione», commenta ancora Romanelli. «Abbiamo immaginato la metafora marina in cui la tradizionale corrispondenza estiva diventa uno strumento di denuncia: la spiaggia, gli ombrelloni pastello e una distesa di mare cristallino, ma sullo sfondo un gommone sgonfiato e un gruppo di persone in mare».

Anche dal punto di vista visivo, la campagna propone un’idea molto precisa. «Dal punto di vista grafico ho ripreso semplicemente il look and feel classico della cartolina, rivisto in chiave moderna», commenta Pietro Gregorini, designer, art director e altra mente del progetto. «Gli elementi in diagonale sono stati usati per creare delle correlazioni con la metafora della corrispondenza estiva e lo stesso menu del sito web è spostato a destra, come se fosse la barra dell’indirizzo di una vera e propria cartolina. Ho ripreso il classico stile italiano, molto dolciniano: colori netti, l’arancio che spicca e che si usa solitamente nel salvagente, che è anche l’emblema del nostro logo: un timbro postale con un salvagente, per riprendere e veicolare l’immagine dei salvataggi».

D’altro canto, il target della campagna è amplissimo e il progetto mira a coinvolgere una porzione il più possibile eterogenea di persone. «La campagna è destinata a tutti gli italiani — prosegue Gregorini — e, quindi, già in fase di preparazione sapevamo che non avrebbe dovuto essere eccessivamente elitaria. Anche la grafica non avrebbe dovuto essere troppo settoriale, ma al tempo stesso avrebbe dovuto strizzare l’occhio ai creativi perché il nostro intento è radunare proprio i creativi italiani, farci inviare delle cartoline da loro e spingerli a prendere una posizione chiara su questo argomento».

Semplificazione vs semplicità

«Oggi il grande dibattito, la grande sfida della comunicazione riguarda la semplicità del messaggio comunicativo: sintetizzare messaggi complessi senza banalizzarne il contenuto», conclude Romanelli. «In questo momento, a una realtà, a un immaginario sempre più complesso si risponde con la semplificazione. Siamo in una fase post-ideologica, in cui le vecchie categorie non funzionano più e le tradizionali strategie retoriche, di linguaggio e di contenuto vengono palesemente messe in discussione. Il linguaggio di Salvini è molto semplice, ma anche strategico, perché parla a una categoria di persone che hanno subìto dei cambiamenti provenienti dalla crisi economica e dalla complessità dei fenomeni che ne sono scaturiti. È tutta una questione di narrazione della realtà. Oggi esistono narrazioni vuote, che sono come contenitori riempiti di volta in volta con contenuti anti-establishment e basati sulla contrapposizione da stadio fra popolo ed élite. Io per prima sono stata definita “intellettuale da salotto”, anche se vengo da un paese sull’Appennino di 5mila abitanti. E non c’è Paese più reale di quello. Oggi è come se le persone che hanno studiato vengano semplicisticamente considerate radical chic e siamo al paradosso per cui gli esperti sono screditati perché non sono popolo. Tradizionalmente, la comunicazione si muove su tre leve: la rabbia, la paura, la speranza. Lavorare sulla speranza è più difficile che lavorare sulla rabbia e sulla paura e questo Salvini lo sa bene».

Nonostante ciò, le parole-chiave dell’attuale governo giallo-verde afferiscono a strategie comunicative decisamente più complesse. «Sia nel discorso di Salvini che in quello di Di Maio la speranza c’è. Eccome se c’è», commenta ancora Cosenza. «La stessa idea di definirsi “governo del cambiamento”, di dichiarare di essere “per la prima volta dalla parte del popolo”: poiché il governo è ancora recente, il discorso su ciò che sarà fatto dà speranza. D’altro canto, il gradimento nei confronti di Salvini nei sondaggi non è legato solo a rabbia e paura, ma anche alla speranza di definire una soluzione ai problemi dei lavoratori, che sono stati trascurati dai governi precedenti».

L’arma a nostra disposizione, quindi, è la modifica dei paradigmi comunicativi e lo spostamento dell’attenzione sul dato reale, verificato e comunicato in maniera semplice e leggera. Fra i progetti per il futuro dei creative fighters, un flash mob a Roma, previsto per domenica 30 settembre in piazza del Pantheon, dove i passanti potranno scegliere e firmare una fra le 10mila cartoline stampate (mille copie per ciascuna cartolina vincitrice del contest online), che saranno poi imbucate in una grande cassetta postale che verrà consegnata a sua volta al Ministero. In piazza saranno presenti tutte le ONG che hanno aderito all’iniziativa: da Medici Senza Frontiere a Refugees Welcome Italia, da Proactiva Open Arms a Sea-Watch, Greenpeace e Action Aid. Subito dopo partiranno una serie di iniziative in giro per l’Italia, come lo Spazio Ferramenta a Torino durante il Nesxt.

Staremo a vedere se il Ministro dell’Interno reagirà anch’egli con ironia oltre che con la consueta informalità sprezzante che oggi ne contraddistingue la comunicazione. «L’ironia, però, ha un problema: deve essere accettata», commenta Federico Montanari. «Si tratta di un problema molto comune, soprattutto sui social: a una battuta ironica si risponde in maniera aggressiva, interrompendo così la comunicazione. In questo caso, anche la stessa ironia è un’arma spuntata, perché dal punto di vista metacomunicativo si crea un corto circuito che non può essere risolto». Come nel caso di Bello Figo, il rapper finito nell’occhio del ciclone dopo le parodie rap su temi come immigrazione e integrazione, che ha visto annullare i suoi concerti a causa di minacce e intimidazioni da parte di gruppi di estrema destra. «È stato preso (volutamente) troppo sul serio».

Ma allora la soluzione è abbandonarli, questi social? «L’esodo non è una soluzione convincente — conclude Montanari — perché abbandonare i social significherebbe lasciare il campo a neonazionalismi, a identitarismi e a tutte le combinazioni di estremismo attuali. La soluzione, piuttosto, è adottare canali discorsivi alternativi, come forme di tolleranza, pur nel rispetto di valori di base condivisi. E giocare la partita fino in fondo, sui social, nonostante le difficoltà enormi, abbracciando una forma di ironia sull’oggetto più che sul tono: quella stessa ironia che il filosofo Jean Baudrillard definiva oggettuale, spostata sull’oggetto anziché su chi parla».

D’altro canto, la storia umana non smette di ricordarci la forza ribelle ma anche propulsiva del pensiero ironico e anche delle sue applicazioni nel genere satirico che, a partire dai silli greci, non smette di colpire con lo scherno e col ridicolo le passioni e i modi di vita delle diverse civiltà umane. Nella seconda metà dell’Ottocento, lo scrittore francese Victor Hugo scrisse che la libertà comincia dall’ironia. Solo una riflessione attenta sul cambiamento degli attuali paradigmi rimane lo strumento per conseguire un vero cambiamento. Quel cambiamento, oggi spogliato dal suo significato più autentico ma, di certo, così auspicato dagli italiani.

 

Leggi la seconda parte del reportage: Stereotipi sui migranti: un colpo al cerchio e uno alla pancia, di Marika Nesi Lammardo

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