Sanità lombarda e medici di base: non ce n’è uno che non abbia il massimo dei mutuati

Lombardia, genesi di un disastro sanitario: ecco che cosa ha portato la regione al collasso nel corso dell’emergenza COVID-19.

Ogni crisi mette alla prova la quotidianità. Si può dire che le crisi servano a questo, che in fondo non è altro che il loro sporco mestiere: testare se un rapporto è valido o no, se è poggiato su basi solide e solidi principi, o se è frutto di infatuazioni estetizzate, mezze interessate, effimere, quindi destinate a non durare.

Qui però non si parla di matrimonio o di rapporti d’amore, se non di quello che lega il paziente al suo medico. Che sia carità o altro genere di sentimento poco importa. Il punto è che, a un anno dallo sbarco in Italia di una pandemia che non si vedeva da un secolo, quel legame è messo alla prova.

I sentimenti che si diffondono tra la popolazione nei confronti dei medici sono vari, e vanno da apodittiche proclamazioni a eroi alla diffidenza strisciante, fino alla denuncia, con moratoria, del loro operato per supposta inadempienza. Ciò che sfugge al dibattito pubblico è come abbiano vissuto (e come stiano ancora vivendo) questo dramma collettivo proprio loro, i medici di base o di prossimità, insomma i medici di famiglia di un tempo, sempre più una rarità nei numeri. Una delle tante mancanze imposte da un sistema di eccellenza che forse meriterebbe qualche esame a settembre.

Glorie e miserie del sistema sanitario lombardo

Per chi viveva in Lombardia, ma anche fuori regione, fino a marzo dello scorso anno il ritornello era: eccellenza della sanità lombarda.

“Indubbiamente, se parliamo di strutture di terzo livello e centri specialistici, ciò corrisponde a verità”, premette Giorgio Barbieri è coordinatore regionale Fp Cgil Medici di Medicina Generale. Piuttosto, la discrepanza tra lo storytelling e la realtà dei fatti si evidenzia piuttosto alla base, ossia tra i medici che dovrebbero rappresentare il primo livello di cure, e che invece stanno a poco a poco scomparendo.

“Da sempre, il numero di mutuati ottimale per ogni medico è calcolato intorno ai 1.000, e il massimale viene posto a 1.500 pazienti. Oggi, se nel resto d’Italia la media è di 1.100 per ogni medico, in Lombardia non ce n’è uno che non abbia raggiunto il massimale e che non si consoli per gli alti guadagni che ciò significa; ma non è il modo ottimale per lavorare, appunto. Quindi già in condizioni normali il medico di prossimità che voglia fare il suo lavoro è sottoposto a uno stress atipico. Quando poi ci è stato chiesto di fare di più, straordinari salti mortali per contrastare il COVID-19, senza presidi adeguati né adeguate scorte di materiale (dalle mascherine ai guanti, per dirne dei già banali e arcinoti), l’intero sistema è andato subito in sofferenza”.

Barbieri ha una metafora scacchistica per quanto è capitato: “S’immagini che i pedoni siano la medicina di base, i pezzi in seconda fila la specialistica, e che il re sia il Sistema Sanitario Nazionale, o meglio la salute pubblica nel suo insieme. Si capisce che giocare una partita così complessa con file di pedoni già dimezzate è una lotta impari”.

Quella legge della regione Lombardia che ha indebolito i medici di prossimità a favore dei privati

Per i pochi medici di base che ci sono manca poi il ricambio, e basta seguire il bailamme di ogni piccolo paese lombardo, tipicamente popolato da una maggioranza di anziani, al pensionamento di un medico della mutua. Ciò che non manca, invece, è una volontà collettiva e un piano per ridurli e fare a meno di loro: “Si è calcolato che ogni dieci pensionamenti viene introdotto un nuovo medico di prossimità. In Italia specializzarsi in medicina di base non rappresenta un percorso universitario, ma regionale, e viene vissuto come un ripiego rispetto alla specializzazione”, prosegue Giorgio Barbieri.

“La Lombardia poi ha fatto di più. Con la legge sperimentale 23 del 2015, cassata da appena un mese e bocciata dal governo nazionale per una serie di ragioni puntualmente analizzate dalla Normale di Pisa, si è fatto in modo di depotenziare i presidi territoriali a vantaggio dei centri specialistici, che sono privati ma si avvantaggiano di soldi pubblici, e che tramite un nuovo sistema basato su gestori ed erogatori di servizi creano un certo conflitto di interesse.”

“Scavalcando i medici di prossimità, togliendo loro competenze, è qui che vengono inviati i pazienti. È successo anche per il COVID-19, con la rinuncia a diffondere sul territorio le bombole d’ossigeno che avrebbero garantito maggiori cure a casa dell’ammalato, preferendo invece portarlo nei reparti COVID-19. Anche per questo siamo arrivati impreparati alla seconda ondata. Non è poi un caso che il maggior numero di morti si conti tra il personale sanitario, lasciato sguarnito dai presidi, e tra i pazienti dei reparti non COVID-19.”

“Le inefficienze c’erano già da anni, ma non hanno voluto sentire ragioni”

Mentre fuori i presidi di medicina generale annaspano, alle porte della cittadella che è l’ospedale non è che le cose vadano molto meglio.

Bruno Zecca, segretario regionale Fp Cgil Medici Lombardia, è convinto che se qualcosa ha funzionato, se il sistema ha retto l’onda d’urto del Coronavirus, lo si deve principalmente al personale sanitario: quelle che in qualunque ambiente si chiamerebbero risorse umane. È una convinzione comune, ma chi ne fa parte ha maggiore titolo per trarre una lezione utile da un anno di pandemia senza farsi trascinare dalle emozioni del momento.

“Le inefficienze che sono emerse non sono altro che le stesse che andiamo denunciando da anni. L’idea di smantellare la medicina territoriale per mettere al centro l’ospedale, in una logica di erogazione delle prestazioni come volto della cosiddetta efficienza lombarda, ha mostrato la corda e tutto il suo carattere fallimentare. È chiaro che ci volesse un piano strategico migliore, e chi era preposto a gestire la macchina non ha voluto sentire ragioni. Sono andati dritti per la loro strada, accentuando quella frattura che già si avvertiva”.

Allo stesso modo, negli ospedali si presagiva ciò che sarebbe successo già alla prima ondata: “Quello fu per noi un periodo di grande sofferenza e paura al pensiero della superficialità e delle incapacità di un sistema che già mostra tutti i suoi limiti in condizioni normali. La lezione che dovremmo trarre da questa pandemia riguarda il ritorno a una medicina al cui centro vi sia la persona, e non più l’idea balzana di erogare prestazioni ospedaliere con illusoria efficienza, se poi a infettarsi per primi siamo proprio noi del personale sanitario”.

“Il compito nel dopo dovrà essere dunque di ricostruire un territorio distrutto proprio a partire dalla medicina di base e dal pronto soccorso. L’esatto opposto di quanto ebbe a dire l’onorevole Giorgetti riguardo ai medici di prossimità, ossia che non servono a nulla”.

A questo punto la parola torna d’obbligo a Barbieri, per tirare le fila di un ragionamento che corre sul filo dell’emergenza: “Questa pandemia è stata un campanello d’allarme che ha mostrato tutti i limiti di una riduzione progressiva e pianificata dei medici di prossimità o della medicina territoriale. Il nostro timore, assai fondato, è che successivamente si torni a viaggiare sugli stessi binari di prima, senza correzioni di rotta. Sarebbe una sciagura in relazione alle prossime sfide pandemiche, che in un mondo talmente antropizzato non sono azzardi, ma probabilità da mettere ragionevolmente nel conto”.

In copertina, foto del flashmob del 22 gennaio sotto il palazzo della Regione Lombardia per chiedere il commissariamento della sanità (Credits: milanotoday.it)

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