Se i romanzi sulla fabbrica sono una fabbrica di romanzi

Una prosa monocorde lega tre voci narranti nell’appiattimento di uno stabilimento produttivo giapponese. Recensiamo “La fabbrica” di Hiroko Oyamada.

Già dal titolo di questo romanzo di Hiroko Oyamada, La fabbrica (edito da Neri Pozza), si comprende quanto il tema del lavoro costituisca le fondamenta dell’opera della scrittrice giapponese.

La fabbrica: lo straniamento diventa un dramma anodino

Il racconto è condotto da tre voci narranti, appartenenti a due uomini e una donna di età ed estrazione sociale diverse, il cui percorso di vita trova uno sbocco comune proprio nell’impiego nella fabbrica. Non si tratta, però, di uno stabilimento più o meno esteso come si potrebbe pensare, bensì di uno spazio sterminato, una sorta di mondo a parte, in cui chi vi lavora svolge le mansioni più diverse, con una varietà analoga a quella presente nella società umana.

Yoshio è un ricercatore universitario che si trova a lavorare in questo contesto controvoglia, inviato dal proprio ateneo: gli verrà chiesto di occuparsi di un progetto sperimentale di lungo respiro su cui godrà di un’assoluta autonomia decisionale.

Diversa, se non opposta, la natura delle mansioni degli altri due personaggi: Yoshiko, ventenne di belle speranze, sarà invece assegnata a un impiego dalle caratteristiche impersonali e meccaniche. Infine, Ushiyama svolgerà compiti di correttore bozze in un contesto anomalo, ossia senza nessun feedback e continuità argomentativa e semantica dei testi esaminati.

Al contrario, unico sarà l’approdo di queste esperienze: un progressivo e fagocitante senso di straniamento derivato dal lavoro.

L’appiattimento individuale degli operai: si è ciò che si fa

Nelle prime fasi del romanzo, l’autrice rende bene il vissuto intriso di novità, l’attesa mista ad ansia e speranza che tutti noi proviamo di fronte a un nuovo impiego. Per i personaggi si tratta di un cambio di pelle che impatta tanto sulla percezione di se stessi in relazione al mondo quanto sulla propria autostima. Come detto, però, gli sviluppi saranno a tinte fosche.

Infatti l’unica entità vera del libro è la fabbrica: tempo e spazio nel racconto sono frammentati e dalla precaria concretezza; persino le stesse voci narranti non raggiungono una vera profondità. I loro lavori sono spersonalizzanti, non elevano o valorizzano. Più si procede nella lettura e più è come se gli individui sfumassero, inghiottiti dal corpo immenso della fabbrica che li omologa, annullandone le peculiarità.

Qui si è ciò che si fa: tutto l’enorme quantitativo di personale è classificato anche visivamente, grazie al diverso colore dei cordini porta badge, in base a compito e livello di assunzione. Nonostante la cura degli ambienti e il piacevole aspetto da mondo accogliente e attento alle esigenze dei propri dipendenti, la fabbrica ha elementi in comune con un campo di lavoro che li divide in caste. La persona non è una risorsa, ma un banale ingranaggio di un tutto sconfinato e incredibilmente vario.

Una prosa monocorde e funzionale al grigiore della fabbrica

La narrazione della Oyamada diventa veicolo e specchio di tutto ciò: è piatta, piana, priva di slanci. Si fa resoconto dei pensieri dei tre personaggi sugli incarichi compiuti e da svolgere, rendendone plasticamente la dimensione di intrappolati in una routine che avvelena. Nei loro asfittici compiti l’individualità non è mai prevista, e quindi non può trovare espressione nemmeno tramite il loro stesso racconto.

Ognuno, prima o dopo, metterà in discussione non solo il senso di ciò che sta facendo come lavoratore, ma andrà oltre. La fabbrica, infatti, mina l’identità nel profondo, corrodendola goccia dopo goccia in modo inesorabile. Non è un caso se nel libro gli unici segnali di vita sono le pochissime anomalie che sfuggono al sistema; si tratta di comparse assai fugaci, a volte contraddistinte da tratti disturbati e disturbanti, ma sufficienti a evidenziarsi per contrasto, rendendo ancora più grigio il quadro generale.

Voluti sono anche la somiglianza e il rimando fra nomi e cognomi dei tre, che rafforzano l’appiattimento del singolo in favore di una massa simile.

Un personaggio fa da collante alle voci narranti: le sue funzioni di guida, supervisore e coordinatore inizialmente gli consegnano un ruolo autorevole. Anche qui, però, la verità smentirà in fretta questa impressione: egli, attraverso approcci e direttive verso i tre lavoratori, espliciterà, incarnandoli, gli assurdi e grotteschi paradossi della fabbrica.

Assolutamente da rimarcare anche l’uso evocativo e simbolico che la Oyamada fa della natura, elemento che sottolinea la coesione dell’universo-fabbrica e che carica ulteriormente il racconto di scollamento dalla realtà.

Parlando dell’esperienza di lettura, durante buona parte della trama ci si attende sviluppi più concreti della vicenda; un’aspettativa che resta in parte delusa perché tutto si gioca su un livello diverso, più impalpabile e simbolico. Se, da un lato, questo è funzionale al condurci in una dimensione quasi onirica, dall’altro c’è il rischio di perdersi in un racconto che non decolla del tutto dal punto di vista narrativo.

Perché leggere La fabbrica di Hiroko Oyamada

Si tratta di un romanzo che dipinge in maniera fedele le pesanti conseguenze personali e sociali di un mondo eventuale, ma anche inquietantemente futuribile, in cui l’uomo si trovi a valere assai meno del lavoro che svolge.

Tramite la loro scarsa caratterizzazione, il libro mostra e restituisce l’immagine desolante di persone piatte, intercambiabili, piccole e tremendamente uguali di fronte all’entità della fabbrica che tutto contiene, prevede e conosce. Oyamada tratteggia il processo per cui, accettando un lavoro in un contesto simile, si demanda a un’autorità vaga ma potentissima la totalità della propria esistenza. L’autrice riesce anche a far sentire il lettore totalmente perso come i suoi personaggi, talvolta facendogli porre le loro medesime domande.

Insomma: un libro che richiede la capacità di sopportarne il buio, che crea un universo freddo come avvertimento e ammonimento, affinché quel costrutto narrativo non si realizzi mai del tutto nella vita vera.

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