Sicurezza sul lavoro, appello urgente: alle piccole imprese serve aiuto dalle grandi

Le grandi imprese hanno una cultura della sicurezza solida e rodata: ora sta a loro fare sistema e diffonderla anche alle PMI, per avviare un circolo virtuoso che sarebbe di beneficio per tutti.

È successo ancora: sabato scorso, a Torino, Roberto, Marco e Filippo sono morti mentre lavoravano all’assemblamento di una gru, che si è schiantata al suolo per ragioni ancora da chiarire. Dalle prime ricostruzioni pare che i tre operai, che si trovavano in cima alla struttura per montarne il braccio, siano precipitati da diversi metri di altezza e siano poi rimasti schiacciati dal crollo dei blocchi di cemento. Filippo, il più giovane, aveva appena vent’anni. È l’ennesimo, assurdo episodio che aggiunge nuove vittime alla scia di sangue causata dagli infortuni sul lavoro: una vera ferita aperta nel cuore del nostro Paese

Da anni, infatti, in Italia muoiono in media tre persone ogni giorno a seguito di incidenti avvenuti sul luogo di lavoro. Sono più di mille all’anno. Questi numeri sono confermati anche nel 2021: i dati INAIL relativi ai primi dieci mesi dell’anno contano già 1.017 vittime sul lavoro. E non si tratta solo di 1.017 vite strappate, ma anche di altrettante famiglie distrutte, con impatti permanenti e devastanti.

Nonostante questa strage si perpetui da almeno due decenni sotto i nostri occhi, la maggior parte di noi l’ha sempre guardata con distacco e rassegnazione, come se non si potesse fare nulla per cambiare le cose. Oggi però, forse per la prima volta, la questione della sicurezza sta finalmente conquistando una maggiore attenzione generale: in televisione se ne parla quasi ogni giorno, sui giornali nazionali sono nate rubriche specifiche (ad esempio “Morire di lavoro” del quotidiano La Repubblica) e sempre più testate riservano spazi di approfondimento sul tema, e anche il Governo e i sindacati sembrano avere un focus più mirato.

Come impiegare l’attenzione sul tema della sicurezza sul lavoro?

Se il primo passo per affrontare un problema è parlarne, renderlo visibile e tangibile, allora questa esposizione a livello mediatico e istituzionale è senza dubbio un segnale positivo. Allo stesso tempo, però, bisogna essere consapevoli che da sola non basterà: è ormai dimostrato da numerosi studi e ricerche (a partire dagli studi di James Reason, raccolti nel testo Human error, fino alle pubblicazioni INAIL su questo tema) che la maggior parte degli incidenti avviene non per l’assenza di regole o procedure, né per problemi di natura tecnica, ma a causa di comportamenti sbagliati, dettati dalla fretta, dalla disattenzione, dalla mancata percezione delle possibili conseguenze di un atto non sicuro.

Ecco perché l’azione normativa del Governo – ad esempio l’inasprimento delle sanzioni e il potenziamento dei controlli – e quella informativa degli organi di stampa vanno necessariamente supportate da iniziative che incidano più capillarmente a livello culturale, che permettano di diffondere e consolidare buone pratiche sia a livello individuale che collettivo. Ma chi si assume la responsabilità e l’onere di farlo?

Io credo che un ruolo fondamentale in questo senso lo abbiano le aziende, e in particolare le grandi aziende: quelle che già da tempo hanno avuto la lungimiranza, ma anche la possibilità concreta, di avviare al loro interno pratiche di diffusione della cultura della sicurezza.

Sicurezza sul lavoro, non se ne esce se le grandi aziende non aiutano le PMI

Le grandi aziende che operano in Italia possiedono un patrimonio di conoscenze e di esperienze incredibilmente prezioso. Negli ultimi vent’anni la maggior parte di esse ha assistito al progressivo calo degli indici infortunistici, frutto di un maggior focus sulla sicurezza e di investimenti più consistenti, in gran parte motivati dalle pressioni generate dal contesto internazionale, con i clienti esteri spesso molto più esigenti sul rispetto di standard elevati in termini di prevenzione degli incidenti.

Poiché il miglioramento delle performance di sicurezza ha portato anche vantaggi in termini di efficienza, oggi nelle grandi organizzazioni è diffusa la consapevolezza che maggiore è l’attenzione alla sicurezza, maggiori saranno i benefici anche a livello operativo. Eppure l’impatto di questi miglioramenti sulle statistiche nazionali è pressoché nullo, e questo dato è estremamente significativo.

Viviamo in un Paese il cui tessuto produttivo è soprattutto fatto di piccole e medie imprese; ed è lì che purtroppo da anni si concentra la maggior parte degli infortuni mortali. Manca la consapevolezza che le grandi aziende hanno acquisito, mancano i mezzi e la sensibilità per tradurla in formazione, in cultura, in azioni puntuali e concrete, e non per evitare eventuali sanzioni, ma perché the safer, the better, da ogni punto di vista.

Le grandi aziende hanno quindi oggi la responsabilità etica di influenzare l’ambiente che le circonda. Se fossimo in un videogioco, potremmo dire che hanno superato il primo livello; devono adesso alzare l’asticella, passare al secondo livello, dove le regole del gioco sono di tipo cooperativo. Fino ad oggi il tesoro di conoscenze ed esperienze che ha portato le grandi aziende a migliorare le proprie performance di sicurezza è stato nella maggior parte dei casi tenuto per sé; in parte per la cultura – molto diffusa nel nostro Paese – di alimentare più il bagaglio individuale che quello collettivo, in parte perché viviamo in un’era in cui siamo schiavi delle performance, del raggiungimento dei KPI, delle pressioni dettati dalle leggi di mercato. Non c’è stato, di fatto, l’interesse a fare sistema.

Almeno finora. Perché oggi, la pandemia ce l’ha insegnato, non possiamo più pensare di avere successo agendo individualmente: è evidente che, come ha detto anche il Presidente Mattarella il 29 novembre 2021, siamo indissolubilmente legati, dipendiamo tutti gli uni dagli altri.

Se vogliamo vincere la battaglia della sicurezza sul lavoro, se vogliamo arrestare questa assurda scia di vittime sul lavoro che ci accompagna da oltre vent’anni, occorre collaborare. Occorre che le grandi aziende rappresentino per le piccole e medie imprese quella spinta propulsiva di cui esse stesse hanno beneficiato in passato per migliorarsi.

Certo, il processo di crescita della cultura della sicurezza in Italia non può dipendere solo dal settore privato, deve coinvolgere anche la Pubblica Amministrazione. Ma le grandi aziende hanno la forza necessaria per mettersi insieme, condividere esperienze, produrre know how e diffonderlo presso le piccole e medie imprese, aiutandole a crescere, portandole a innalzare i propri standard, agendo da traino e da supporto per il bene del Paese.

Perseguire l’interesse individuale non premia più, anzi probabilmente non l’ha mai fatto: “Se brucia la casa del mio vicino, il problema è anche mio”, diceva il poeta latino Orazio. Le piccole e medie imprese sono il vicino: sono i nostri collaboratori, i fornitori che lavorano per noi e con noi, dai quali dipende in buona parte anche il nostro successo.

Quanto vale un investimento nella sicurezza?

Se questa giusta causa non fosse di per sé sufficiente, teniamo conto che oggi investire in sicurezza – e agire concretamente perché questo investimento ricada a cascata lungo tutta la filiera – è innanzitutto un’opportunità economica e un vantaggio in termini di immagine d’impresa. Basti pensare ai criteri ESG (Environment, Social, Governance), sempre più diffusi per analizzare un investimento non solo dal punto di vista economico, ma misurandone gli effetti di natura ambientale, sociale e di governance.

Tra i criteri di rating in area Social la componente Health & Safety, in termini di contenimento degli infortuni e di salvaguardia della salute e sicurezza dei lavoratori, ha un peso importante. Come sarà valutata quindi un’azienda che magari ha buoni standard di sicurezza, ma si appoggia a fornitori che non operano secondo principi sostenibili e che non garantiscono condizioni di lavoro tali da assicurare il benessere delle proprie persone?

A mio parere, dunque, parlare di Health & Safety oggi significa entrare in un nuovo scenario, quello della sostenibilità etica, in cui la creazione di valore non è più solo verso gli azionisti, ma verso tutti gli stakeholder: azionisti, investitori, management, dipendenti, fornitori, clienti, società civile, politica, associazioni. In sintesi, verso le persone, intese come risorse della società, delle aziende e del pianeta.

I “comportamenti emergenti” di un sistema di imprese

Auspico davvero che il contesto in cui viviamo sproni tutte le grandi aziende a prendersi una responsabilità nella creazione di valore per il Paese, che metta al centro il tema sicurezza innanzitutto da un punto di vista etico e sociale, ma con risvolti anche a livello economico e finanziario. Mi auguro che smettano di operare in maniera distinta e isolata, e che si uniscano per creare un insieme interconnesso, influenzandosi l’una con l’altra, mettendo a fattor comune conoscenze ed esperienze.

“L’insieme è maggiore della somma delle sue parti”, direbbero i fisici della cosiddetta teoria dei comportamenti emergenti. Secondo questa teoria, ogniqualvolta uno schema o una configurazione di alto livello si origina a partire dalle migliaia di interazioni semplici che avvengono tra agenti locali, si manifestano fenomeni nuovi e inaspettati, che non sono riconducibili a nessuna delle singole parti dell’insieme, ma solo al suo complesso.

Prendiamo ad esempio l’acqua, che ha caratteristiche diverse dalle molecole che la compongono. Una molecola d’acqua, isolata, non bagna e non è trasparente. Non è nemmeno liquida. Il fatto che l’acqua sia liquida è dunque una caratteristica “emergente”, in quanto appartiene all’insieme ma non ai singoli componenti. Queste proprietà emergenti, poi, generano comportamenti “emergenti” – come il fatto che l’acqua, a determinate temperature, si trasformi in ghiaccio – cioè dinamiche che non dipendono dai dettagli delle parti, ma sono figlie della loro interazione, del loro essere organizzate in “sistema”.

Pensiamo allora a quale comportamento emergente produrrebbe un sistema di grandi aziende che avesse come giusta causa la responsabilità etica, sociale ed economica a tutela di salute, sicurezza e ambiente, e che aggregasse le figure apicali HSE delle imprese leader del Paese al fine di unire forze, competenze e risorse in una rete attiva sul territorio. Se gli scienziati hanno ragione, non possiamo nemmeno immaginare le potenzialità emergenti di una tale intelligenza collettiva.

Allora non limitiamoci a immaginarle: rompiamo gli individualismi, facciamo sistema e scopriamo insieme l’impatto che avremo.

Foto di Cleyder Duque da Pexels

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