Il Solar Foundation’s National Solar Jobs Census 2014 è il quinto aggiornamento annuale del rapporto sul lavoro in corso, le tendenze e la crescita prevista del settore solare statunitense. Il Censimento 2014 ha rilevato che questa industria continua a superare le aspettative di crescita, incrementando l’occupazione ad un tasso quasi 20 volte più veloce rispetto […]
L’Europa metta una pezza allo sfruttamento nella moda
I grandi marchi sono i principali responsabili delle condizioni di lavoro nelle fabbriche del tessile: la direttiva europea sulla Due Diligence Aziendale Sostenibile è un passo cruciale per la risoluzione del problema. Le filiere pulite le fanno le leggi
“Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, diceva un vecchio adagio. Di certo però è accurato, soprattutto per le fabbriche della moda.
Il tessile è un settore in cui i luoghi di produzione sono così lontani dai luoghi del consumo che conoscere le condizioni alle quali sono prodotti i capi che indossiamo è impossibile. Lontano dagli occhi, quel che accade è inaccettabile: sfruttamento e salari da fame, lavoro migrante irregolare e talvolta forzato, turni di lavoro massacranti e straordinari obbligatori, fabbriche pericolanti, fumi tossici e lavoratori senza protezioni, assenza di strumenti di protezione sociale, limitazione della libertà sindacale o addirittura divieto di costituire sindacati, molestie e abusi soprattutto in danno delle giovani e giovanissime lavoratrici che costituiscono l’80% della forza lavoro impiegata dalle aziende.
Da anni la Clean Clothes Campaign domanda trasparenza lungo la filiera, chiedendo che i grandi marchi della moda dichiarino dove si riforniscono così da poter verificare le condizioni di lavoro nelle fabbriche fornitrici. Alcuni lo fanno, talvolta male o in parte, ma lo fanno. Finché però dovremo sperare di convincere l’ennesimo brand a pubblicare questi dati e a essere trasparente, il cambiamento del settore non sarà mai un cambiamento di sistema. Per cambiare il sistema ci vogliono leggi che contengono responsabilità chiare, obblighi, sanzioni e certezza della loro applicazione.
Le leggi che vogliamo non riguardano solo le pratiche di trasparenza, perché la trasparenza è solo un mezzo di controllo per raggiungere il fine ultimo della responsabilità sociale effettiva. Anche se non pubblicano i dati, i brand conoscono perfettamente le condizioni a cui sono costretti a lavorare i fornitori, perché sanno quanto li pagano: poco. Sanno quando li pagano: più o meno quando gli fa comodo. Sanno quanto li fanno lavorare: tantissimo, piazzando ordini con consegne sempre più rapide perché la macchina del consumo non può mai fermarsi.
Sanno anche quanto li ricattano, con la minaccia di cambiare fornitore, dato che la concorrenza nel settore tessile è altissima. Quindi di chi è la responsabilità di come si vive in una fabbrica tessile?
La direttiva europea sulla Due Diligence Aziendale Sostenibile: non una soluzione, ma quasi
La Clean Clothes Campaign da anni denuncia le pessime condizioni di lavoro nell’industria, sostenendo che siano i brand a doversi fare carico di migliorarle. Senza le fabbriche che producono i capi, i marchi non potrebbero macinare profitti stellari. Se la creazione di valore parte da lì, è lì che deve (anche) tornare. L’asimmetria di potere economico che sorregge le filiere tessili, del tutto sproporzionata in favore dei brand committenti, ha come conseguenza che i brand sono anche responsabili del tipo di rapporti che instaurano con i fornitori che da essi dipendono.
Quanto precede non ce lo siamo inventato noi: sono i Principi Guida delle Nazioni Unite su Impresa e Diritti Umani, approvati nel 2011, a dirlo chiaramente. Le aziende devono essere responsabili per gli impatti avversi (leggi: le violazioni ai diritti umani) che accadono lungo le loro filiere.
È anche questo il senso della direttiva in discussione (e, si spera, in corso di approvazione prima della fine della legislatura europea 2019-2023) sulla Due Diligence Aziendale Sostenibile, un corpo legislativo che introduce dei principi molto chiari: le aziende sono responsabili per quel che accade nelle loro filiere, e devono dunque concorrere a rimediare alle violazioni rispetto alle quali non possono fare finta di non sapere. Devono dotarsi, con la dovuta diligenza e dunque con serietà, di un piano di regolare (e quindi periodica) valutazione, monitoraggio, verifica ed eventualmente rimedio alle violazioni dei diritti umani e del lavoro che riscontrano nei propri fornitori, e non solo in quelli di primo livello.
Fra questi diritti ci sono, ad esempio, il diritto a godere di condizioni di lavoro giuste e favorevoli, tra cui un salario equo, una vita dignitosa, condizioni di lavoro sicure e salutari e una ragionevole limitazione dell’orario di lavoro; il diritto di non lavorare, se si è minorenne; il diritto ad associarsi in un sindacato. La dovuta diligenza è un obbligo di mezzi e comportamenti, dunque se una azienda in seguito alla verifica rileva una violazione, deve adoperarsi insieme al fornitore per porvi rimedio. Se non lo fa, incorre in responsabilità che devono essere accertate da tribunali competenti (idealmente nella giurisdizione in cui ha sede l’azienda, non quella in cui ha sede il fornitore) e deve risarcire i danni che ha contribuito a causare alle vittime. La proposta di direttiva in corso di discussione è lontana dall’essere perfetta, ma almeno è un primo passo. Questo impianto normativo è già stato introdotto in Francia, in Germania, in Norvegia, e in misura inferiore nei Paesi Bassi e nel Regno Unito.
Da qualche anno, infatti, sono diverse le iniziative legislative approvate, soprattutto nell’Unione europea, che tentano di porre un argine alla totale mancanza di regole dell’attività di impresa, soprattutto transnazionale, e che perseguono un modello diverso di integrità aziendale. Norme quali la due diligence di filiera, ma anche norme che impongono due diligence specifiche sul lavoro minorile, la direttiva sui diritti degli azionisti di minoranza, gli obblighi di trasparenza sugli approvvigionamenti di minerali provenienti da zone di guerra, norme che impongono una rendicontazione non finanziaria approfondita degli impatti sociali e ambientali dell’agire d’impresa.
Un corpus normativo ancora un po’ schizofrenico, che la direttiva sulla Due Diligence Aziendale Sostenibile dovrebbe riuscire a sistematizzare meglio, e che tuttavia non è ancora abbastanza.
Che cosa serve per arginare l’impunità dei grandi marchi della moda
Per portare un cambiamento concreto sulle filiere tessili è necessario che oltre alla direttiva due diligence l’Unione europea approvi almeno altre due normative: un regolamento sul divieto di circolazione nell’UE (importazione o fabbricazione, vendita) di beni prodotti con il lavoro forzato e una cornice legislativa che regolamenti le pratiche commerciali scorrette e abusive dei marchi.
Non basta infatti che un’azienda sia obbligata a verificare le condizioni di lavoro sulle filiere e a prendersi la responsabilità in caso di violazioni: dovrebbe essere responsabile per non creare condizioni di abuso. Se un marchio della moda si comportasse con fair play aziendale, e cioè piazzando ordini con tempi e volumi ragionevoli, non cambiando in corsa, pagando in modo adeguato e tempestivo, i fornitori potrebbero contare su una migliore pianificazione finanziaria e sarebbero messi in condizioni tali da offrire ai propri lavoratori e lavoratrici condizioni di lavoro altrettanto migliori.
Ciò, però, non accade. Con questo non si intende dire che i marchi sono sempre cattivi e i fornitori sempre buoni, ma un recente rapporto della Clean Clothes Campaign ha fatto luce sulle pratiche di acquisto dei brand, anche quelli del lusso, denunciando una situazione di totale impunità rispetto a questi comportamenti commerciali che provocano situazioni di grave sfruttamento e abuso. Le pratiche commerciali sleali, e in particolare i prezzi pagati ai fornitori, incidono direttamente sulla possibilità dei fornitori di garantire salari giusti alle lavoratrici che nel settore guadagnano paghe da fame, ancor più tagliate con la pandemia.
Il lavoro povero nella moda e in Italia
Il lavoro povero – un ossimoro, giacché lavorare dovrebbe essere veicolo di emancipazione e autonomia – è un fenomeno grave e diffuso in tutto il settore, anche in Europa. L’Italia, fanalino di coda in UE per perdita di potere di acquisto dei salari negli ultimi vent’anni, primeggia per numero di lavoratori poveri, quasi 3,5 milioni secondo le stime, con donne e giovani in testa.
Il crollo dei salari in Italia è avvenuto nonostante la forte tradizione contrattuale, a causa della lenta erosione dei diritti generata da leggi che hanno indebolito la protezione dei lavoratori e aumentato la precarietà, che oggi affligge cinque milioni di persone. Lavoro povero, atipico e sommerso sono un problema endemico della nostra economia, da cui non è esente l’industria della moda, che anche in Italia beneficia delle condizioni di vulnerabilità riscontrabili nei Paesi dell’Est Europa o dell’Asia.
Per questo è urgente che anche in Italia si faccia una buona legge sul salario minimo, affinché nessuno sia costretto a lavorare per salari da fame. Il salario minimo dignitoso è un diritto umano previsto nel diritto pubblico internazionale e dalla nostra Costituzione, serve a rispondere ai bisogni primari dei lavoratori e delle loro famiglie, perciò non può essere una variabile dipendente dal mercato. Per questo i contratti collettivi e le leggi nazionali, ove esistenti, dovrebbero stabilire minimi e soglie giuste che non condannino chi lavora alla povertà.
La direttiva europea sui salari minimi adeguati approvata nel 2022, nonostante le lacune e le debolezze, ha il pregio di imporre ai Paesi membri una revisione delle proprie politiche salariali e una verifica dell’effettivo accesso dei lavoratori a salari minimi adeguati da aggiornare con periodicità. Una bella sfida per l’Italia, dove i salari reali sono fermi da decenni nonostante l’alto livello di copertura sindacale, ma anche per l’intero settore moda, dove come abbiamo visto, man mano che scendiamo in basso nelle filiere, aumentano le violazioni e le diseguaglianze.
Insomma, il pesce puzza dalla testa. Se nelle parti basse della filiera si sta male, è nella parte alta che si deve cambiare. Non possiamo affidarci alla speranza che le aziende lo facciano da sole, perché non accadrà. Ci vogliono leggi chiare ed efficaci, sanzioni deterrenti e una vera presa di responsabilità collettiva.
L’articolo è a cura di Deborah Lucchetti e Priscilla Robledo.
In copertina e nel pezzo: La campagna Pay Your Workers, sostenuta da 260 organizzazioni in tutto il mondo, è scesa in piazza in una settimana di mobilitazione globale, dal 24 al 30 ottobre 2022, per chiedere ad Adidas di rispettare i diritti dei lavoratori nella sua catena di fornitura. Foto@CCC
Leggi anche
Il senatore Gianclaudio Bressa, intervistato da SenzaFiltro, parla delle azioni governative per contrastare morti e infortuni sul lavoro.
Non è possibile che non balzi alla nostra attenzione che in tutte le vicende aziendali in crisi a cui abbiamo assistito – e che hanno avuto impatti devastanti su stakeholder, azionisti grandi e piccoli, dipendenti, fornitori, loro famiglie – chi fosse responsabile di quanto accaduto, anche in modo oggettivo e lampante non abbia mai pagato direttamente […]