Smart working industriale: i lavoratori saranno più imprenditori

Gli operai non fanno smart working? Falso: nell’Industria 4.0 si può, e ci sono già i primi esempi. Ne parliamo con il professor Marco Taisch.

Chi svolge mansioni “da scrivania” oggi dà per scontato che può e sa lavorare in casa (o in luoghi diversi dall’azienda); eppure fino a pochi mesi fa le esperienze di smart working erano eccezioni presentate nei convegni. L’emergenza sanitaria, insomma, ha accelerato i tempi.

Pochi però sono consapevoli del fatto che sta avanzando pure lo smart working industriale: un sistema di metodi e tecnologie che permettono la gestione e l’esecuzione dei processi produttivi da lontano (da remoto, in gergo). Marco Bentivogli, ex segretario della Fim Cisl, ha accennato a questo tema nel corso di Nobìlita, il Festival promosso a Bologna da SenzaFiltro e FiorDiRisorse.

Un’evoluzione rivoluzionaria, già in corso. Ne parliamo con il professor Marco Taisch, tra i massimi esperti in questo campo, docente di Advanced & Sustainable Manufacturing e Operations Management al Politecnico di Milano e presidente del Made, uno degli otto competence center italiani (centri di competenza) impegnati nel sistema di trasferimento tecnologico e nella formazione, grazie anche alle risorse stanziate da governo e Unione europea.

Professor Taisch, dunque lo smart working non è soltanto un’opportunità per chi lavora dietro una scrivania?

No. L’emergenza sanitaria ha reso evidente che la digitalizzazione è fondamentale per garantire la continuità di ogni settore, incluso quello manifatturiero. Le tecnologie dell’Industria 4.0 spingono a adottare anche in questo campo lo smart working. Va chiarito che oggi, a livello industriale, la vera innovazione non consiste nel trovare soluzioni di tipo tecnologico, perché le tecnologie ci sono già. Semmai occorre capire bene come utilizzarle e gestirle in modo strategico.

È facile fantasticare sulla lontana miniera cinese in cui alcuni lavoratori, dall’esterno, gestiscono già le macchine nelle viscere della terra. Appare più arduo immaginare smart-operai impegnati nella fabbrica dietro casa nostra. Può farci un esempio pratico?

Certo. Durante il lockdown ABB, azienda multinazionale di automazione che realizza grandi impianti ed è presente anche in Italia, ha dovuto rinunciare a mandare i collaudatori dall’altra parte del mondo per provare gli impianti appena installati. Ebbene, alcuni addetti sul posto hanno indossato visori digitali e i tecnici, grazie alla realtà aumentata, sono riusciti a svolgere il collaudo a distanza. Ciò ha reso l’azienda consapevole dell’opportunità di continuare in questo modo, efficace e conveniente, pure dopo l’emergenza: i collaudi continueranno così. Infatti lo smart working industriale offre benefici come la riduzione dei tempi e dei costi, la maggiore facilità di condivisione della conoscenza e, in tempi segnati dalla pandemia, permette anche un calo del rischio di contagio.

Quali sono i pilastri tecnologici dell’Industria 4.0?

Soprattutto industrial internet of things (l’estensione del web al mondo degli oggetti e dei luoghi reali nelle aziende, N.d.R.), big data analytics, cloud computing (per la gestione dei dati) e cloud manufacturing (per l’esecuzione delle attività di produzione), manifattura additiva, robotica autonoma, realtà aumentata, realtà virtuale, modelli di simulazione e ovviamente il 5G.

Può descrivere i vantaggi offerti dall’industrial smart working?

Dal punto di vista delle aziende migliorano produttività, coinvolgimento dei lavoratori, competenze digitali, condivisione delle informazioni, utilizzo degli spazi. C’è poi una maggiore capacità di proteggere il business in momenti difficili. Il lavoratore può contare su migliore qualità della vita lavorativa, più sicurezza e soddisfazione, minori spostamenti tra casa e lavoro, più produttività personale e maggiore consapevolezza sul fronte delle informazioni. La collettività ha vari vantaggi: dal miglioramento della vita delle famiglie al minore traffico, con un calo di incidenti e inquinamento.

Quando si arriverà alla cosiddetta remote execution dei prodotti?

Tra non molto, sebbene dipenda dai Paesi. Occorre che l’innovazione tecnologica e l’automazione dei processi industriali siano integrate in piani precisi. Però di certo ci sarà una grande fase di cambiamento dal punto di vista organizzativo e gestionale della fabbrica e dei lavoratori. Si dovranno stabilire nuovi indicatori di prestazioni; sarà necessario ripensare la disposizione di reparti e servizi (il cosiddetto layout); i processi e le competenze dovranno essere rivisti.

Dovrà cambiare tutta la cultura aziendale?

Cambia il rapporto tra manager e lavoratori. I lavoratori dovranno essere dotati di più autonomia e di più responsabilità, e in un certo senso dovranno adottare un atteggiamento di tipo imprenditoriale.

Che cosa intende per cambiamento del layout di fabbrica?

Oggi servizi e reparti sono concepiti puntando sulla postazione del lavoratore nei pressi dei macchinari. Per attuare l’industrial smart working dovranno essere pensati e assegnati puntando sull’esecuzione efficace dell’attività da remoto.

Adottare l’industrial smart working sembra complicato.

Diciamo che sono richieste quattro fasi. Prima occorre conoscere bene lo stato originario della fabbrica: organizzazione, tecnologie, qualità e quantità degli spazi. Poi occorre capire quali obiettivi si vogliono raggiungere. Quindi si devono definire indicatori che misurino il livello di produttività, di qualità, di soddisfacimento dei collaboratori, di condivisione delle informazioni. Infine serve un chiaro piano di azione per quel che riguarda le attività fondamentali: per esempio adeguamento degli spazi, innovazione delle tecnologie, formazione di manager e collaboratori.

A che punto è l’Italia?

Nell’UE Francia e Germania sono più avanti dell’Italia. Il nostro Paese ha perso competitività. Abbiamo il parco macchine industriale più vecchio: nel 2017 l’età media era di 13 anni, mentre in Germania era di 6 o 7. Però sono entrati in gioco gli otto centri di competenza, come il nostro Made, promossi dal Piano Nazionale Industria 4.0 (del 2017, poi aggiornato, N.d.R.). Hanno vari scopi: diffondere la conoscenza e l’utilizzo delle tecnologie nelle aziende; avviare sinergie tra università, poli tecnologici, centri di ricerca, istituzioni e associazioni di rappresentanza; formare le figure professionali.

Il Made che cos’è precisamente?

Guidato dal Politecnico di Milano, è nato ufficialmente a gennaio 2019, con sede a Milano, ed è costituito da 43 imprese, più l’Inail e le università di Bergamo, Brescia e Pavia. Il progetto si rivolge alle PMI (ad aprile 2020 si è conclusa la fase di valutazione dei progetti presentati in occasione del primo bando pubblicato dal Made, con la selezione di 20 aziende italiane e un finanziamento di 1,5 milioni, N.d.R.).

L’operaio in smart working non rischia nuove forme di sfruttamento? Non si perderanno posti di lavoro?

Non credo. L’Industria 4.0 può avvantaggiare il lavoratore senza portare via il lavoro. Semmai fa lavorare meglio e con maggiore sicurezza: per esempio un esoscheletro (un apparato cibernetico esterno in grado di potenziare le capacità dell’utilizzatore, N.d.R.) rende meno faticose e più efficaci le mansioni (gli esoscheletri industriali esistono già: nel 2018 ne sono stati venduti oltre 7.000, ma si prevede un boom entro il 2024, N.d.R.), mentre un operaio smart può essere molto efficiente e meno costoso di un robot. Di certo, occorrerà sempre più formazione: oggi un giovane operaio potrebbe trovarsi ad affrontare nel corso della vita lavorativa due o tre evoluzioni tecnologiche. Prima capitava una volta per generazione.

A livello sociale che cosa serve di fronte a questa evoluzione?

Occorre un welfare nuovo. E serve volontà politica.

Occorre anche il consenso del sindacato. Le pare che in Italia sia al passo con le esigenze che ha esposto?

Anche il sindacato deve cambiare il suo modo di rappresentare i lavoratori. E deve evolversi, perché non mi pare che abbia capito quali sono i trend tecnologici dell’industria. Oggi i giovani lavoratori, diciamo quelli sotto i 35 anni, sono più capaci di capire gli strumenti digitali di quanto lo siano i sindacati.

La volontà politica c’è in Italia?

L’attuale ministro dello Sviluppo economico (Stefano Patuanelli, N.d.R.) ascolta i tecnici molto più del precedente. Di certo serve una politica industriale e serve un grande lavoro di squadra, condotto consultando le varie voci e comprendendo le necessità del Paese. Non ci sono alternative.

Foto di Dan Schiumarini su Unsplash

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