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Startup, playoff
Negli ultimi anni in Italia si assiste a una quantità di incontri, convegni e talk show nei quali ci si interroga e ci si risponde da soli sul futuro del Paese, ricorrendo anche ad argomentazioni piuttosto relativiste e fumose. Purtroppo queste manifestazioni non rappresentano sempre la pancia del Paese. Ci si chiede retoricamente se ci […]
Negli ultimi anni in Italia si assiste a una quantità di incontri, convegni e talk show nei quali ci si interroga e ci si risponde da soli sul futuro del Paese, ricorrendo anche ad argomentazioni piuttosto relativiste e fumose. Purtroppo queste manifestazioni non rappresentano sempre la pancia del Paese.
Ci si chiede retoricamente se ci sia un futuro solo fuori dall’Italia “per i giovani”, se ci sia un ruolo per l’Italia nell’Europa in crisi e nel Mediterraneo in fermento, se l’economia italiana stessa abbia un realtà un futuro con élite politiche e pubbliche al limite della legittimità.
Sociologia irrisolta dell’innovazione italiana
Dal crowdfunding ai business angel, passando per gli incubatori universitari, sono nate di recente strategie e azioni per rendere il nostro paese più ospitale nei confronti delle giovani imprese innovative, nonostante il ritardo rispetto ai principali competitor comunitari e internazionali. Da qui l’interesse per moltiplicati convegni, associazioni e blog a tema che, a vario titolo, offrono a queste imprese, a volte solo idee su carta, consigli, servizi e proposte più per affrontare il mercato.
Il grande obiettivo, anche dell’attuale governo, è diventato fare dell’Italia una “startup country”, come già accaduto negli anni del boom economico e favorire così l’uscita dalla crisi.
Ma quale crisi, andrebbe ancora chiarito a molti, visto che è iniziata in Italia subito dopo gli anni del boom economico, e che dura quindi da quarant’anni, decenni durante i quali i peggiori vizi manageriali sono diventati modello economico-culturale degradante per l’intera società italiana. Sono nate e cresciute intere generazioni nella crisi, in Italia, insomma, generazioni che non sono mai state giovani e che per il momento continuano a non esserlo. Siamo abituati a vivere nel nepotismo, nella criminalità, nella corruzione, tanto che anche il mondo delle startup innovative ne è già impregnato fino al collo e sta lasciando morire l’ennesima speranza.
Pochi si sono interessati, in questi anni, di documentare, verificare e analizzare i dati sulla nascita e la morte di queste startup, delle centinaia di migliaia di euro di fondi che ruotano intorno alle tante iniziative. Si tratta di operazioni d’informazione che si sono purtroppo spente, non si sa bene neanche perché, troppo presto.
La destinazione di certi fondi per finanziare le startup e i circuiti a loro sostegno, come gli hub, gli incubatori, i corsi di formazione extra-accademici, hanno seguito spesso logiche incomprensibili, antieconomiche, che hanno ulteriormente eroso la ricchezza per sfruttare agevolazioni messe a disposizione dei territori, lasciandoli ancora più desolati che prima del “decennio d’oro delle startup”, per definire in qualche modo questo periodo.
In alcun portale o giornale che abbia parlato di startup in tutti questi anni è stato mai posto l’accento sul modo in cui sono stati distribuiti e poi impiegati i fondi, o di come alcune startup siano riuscire a ricevere ingenti finanziamenti e in che modo siano diventate esperienze di successo, nonostante tutt’ora i loro servizi, incubati da anni tra programmazioni e rilasci sperimentali sul mercato, siano di dubbia utilità e funzionamento. Manca un’inchiesta sulla correttezza, l’equità e la trasparenza dei criteri di finanziamento delle imprese innovative o presunti tali, così come del modo di operare nei territori italiani e in tutto il tessuto economico nel suo insieme, fatto da distretti industriali, imprese tipicamente artigiane e a conduzione familiare, per lo più di piccole e medie dimensioni, che hanno seri problemi a rispettare le logiche del sistema.
Startup: la ricerca di un ecosistema sostenibile per l’Italia
A guardare i dati delle Camere di Commercio d’Italia e facendosi due conti, si comprende immediatamente che, dietro la scusa che le startup innovative hanno un tasso elevato di mortalità a causa della rischiosità del business, si nasconde in realtà un ingente sperpero di soldi, e che al netto di tutte le considerazioni sulle visioni che si possano avere sul futuro che ci aspetta, non si capisce la logica della spesa di milioni di euro per finanziare cloni di applicazioni popolari, motori di ricerca che sfiderebbero, a modo loro, Google e altre imbarazzanti iniziative sulle quali non solo investitori occulati non investirebbero, ma neanche i più ingenui cittadini, poiché non esprimono il dna per generare profitto né alcun impatto sociale o economico.
Perché si sprecano centinaia di milioni di euro anziché impiegarli correttamente per l’imprenditoria?
In Italia siamo arrivati a contare migliaia di startup. A leggere i dati documentati, addirittura non si scoprono solo business emergenti, cioè le startup tipiche, ma assistiamo ad uno stranissimo fenomeno di retrocessione evolutiva da parte di alcune imprese che, è evidente, pur di rientrare in queste ondate di finanziamenti, sono riuscite a tornate in qualche modo allo stadio di startup. Il paradosso, inoltre, mostra che in Italia ci sono molte molte molte meno startup di quelle che si contano realmente e per le quali si dedicano tanti momenti di formazione e investimento.
Chiunque abbia fatto esperienza diretta per esempio attraverso la partecipazione ad un bando, ha trovato schierata dall’altra parte una creatività dei burocrati nella costruzione dei requisiti per le imprese italiane innovative talmente fitta di ostacoli da essere praticamente invalicabile e, contemporaneamente, una risposta elevatissima a questi bandi che, puntualmente, satura prima del tempo previsto i fondi messi a disposizione, come nel caso di Invitalia.
Sarà sempre positivo parlare d’impresa e innovazione in un paese, come l’Italia, che ha visto deteriorare il proprio tessuto produttivo e il relativo capitale umano. Ma al di là delle condizioni di contesto e dei servizi di supporto indispensabili a garantire un futuro alle startup, non solo quelle digitali o tecnologicamente innovative, i limiti dell’ecosistema economico di cui stiamo parlando si sentono con tutta la loro problematicità. Stando al Rapporto “Doing business 2014” della World Bank, l’Italia si trova al al 65° posto su un totale di 189 economie del mondo relativamente alla regolamentazione d’impresa. Il report critica in particolare tre elementi: una burocrazia lenta ed inefficiente, i lunghi tempi della giustizia e l’alta pressione fiscale.
Se si ripete spesso quanto sia indispensabile puntare ad un deciso snellimento delle procedure e delle autorizzazioni per fare impresa, è altrettanto urgente che l’impegno di tutti i soggetti istituzionali, delle associazioni di rappresentanza e delle istituzioni creditizie verso la messa a disposizione delle imprese innovative di adeguati asset finanziari e manageriali per lo sviluppo si dotino di pragmatismo e di buon senso.
Oltre a questa base, c’è un secondo fondamentale insieme di asset necessario a garantire un ecosistema sostenibile per le startup: quello dei servizi finalizzati allo sviluppo del capitale umano. Da più parti le imprese denunciano sempre più il bisogno di competenze tecniche e manageriali in grado di sostenere i suoi processi di crescita e di confronto sul mercato, competenze che non si trovano tra i giovani startupper che dovrebbero innovare tali imprese. Ci siamo lanciati tutti nell’arena competitiva delle scelte strategiche, dei business plan, delle presentazioni ai venture capitalist e dei piani di marketing per affrontare le fasi di impianto e sviluppo delle proprie imprese ma la verità che nessuno, a partire dalle università, ci ha preparati vagamente a maturare un bagaglio di competenze specialistiche eccellenti per garantire il futuro delle organizzazioni che progettiamo.
Ciò che più manca in questi anni, infatti, è il tradizionale, ma non obsoleto, modello di formazione, quello che fa incontrare le competenze e le conoscenze di senior con le idee e il nuovo background di junior per fare problem-solving in azienda. Nessuno si forma, nessuno si innova, in questo modo, eppure tanti vincono premi e finanziamenti.
Per una risposta alla mancanza di innovazione reale
Infine, in corrispondenza all’aspetto culturale dell’innovazione, come ha fatto qualche anno fa Riccardo Viale nel libro La cultura dell’innovazione, vanno menzionate le (dimenticate) variabili storiche dell’innovazione permanente: cioè gli ostacoli cognitivi ad innovazione, il legame tra creatività e innovazione, la propensione a innovare in relazione alla conoscenza di sfondo, la dimensione locale dell’innovazione, la capacità di innovare nelle imprese, la conoscenza tecnologica e innovazione e la complessità nei percorsi dell’innovazione all’interno del contesto economico. Viale, come molti altri autori, fa giustamente risalire questa svolta tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, soprattutto negli USA, quando una serie di incentivi economici, culturali e istituzionali hanno incoraggiato in quegli anni comportamenti innovativi, che a loro volta hanno rafforzato tali incentivi, generando così circoli virtuosi e quindi di innovazione permanente, cosa che in Italia non è mai avvenuta in questi termini né sta avvenendo attualmente.
La psicologia (cognitiva) di questo fenomeno, spiegata da Fabio Del Missier e Rino Rumiati, ci viene in aiuto per provare a stendere alcune risposte alle tante domande in merito: siamo in grado di individuare i problemi e le opportunità non immediatamente evidenti? Possiamo generare soluzioni per problemi mal definiti? Riusciamo a scoprire nuove procedure?
Produrre innovazione, quindi fare startup, dovrebbe significare innanzitutto saper identificare i nuovi bisogni globali e quindi i nuovi modi di dare risposte sottoforma di prodotto; saper ideare questo nuovo prodotto o servizio, o di una sua componente, trasformando in maniera innovativa il processo preesistente. Gli elementi cognitivi, insomma, possono aiutare o opporsi all’innovazione, perché impostano quella mentalità capace di partorire idee innovative.
Ma è evidente che dove non c’è formazione, non può esserci cognizione di causa, non può esserci critica al sistema e non può esserci capitale umano pronto a sostenere l’Innovazione. Ci possono essere solo bandi e iniziative, a cui è difficile dare una risposta seria.
Di conseguenza, la vision delle startup italiane sembra essere funzione del paradigma per cui la necessità sia “massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo”, parole di Edward Banfield nel saggio Le basi morali di una società arretrata, che l’autore utilizzò proprio a ridosso degli anni di boom economico per descrivere il problema del sottosviluppo economico dell’ Italia: il familismo amorale.
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