Editoriale 68 – Università senza lode

Se non ti parli, non saprai mai cosa pensa l’altro e cosa avrà da dirti, pur dando per scontato che parlare sia ancora una forma di interazione e non una presa di posizione giusto per dire “esisto”. Certo il gioco del dialogo sta in piedi solo con l’interesse o meno ad ascoltare, più che a […]

Se non ti parli, non saprai mai cosa pensa l’altro e cosa avrà da dirti, pur dando per scontato che parlare sia ancora una forma di interazione e non una presa di posizione giusto per dire “esisto”. Certo il gioco del dialogo sta in piedi solo con l’interesse o meno ad ascoltare, più che a dire. Università e mondo del lavoro generalmente in Italia non parlano per scelta, quindi tantomeno si ascoltano; non parlano per praticità e disimpegno, non parlano se non quando strettamente necessario che vuol dire ottenere fondi e finanziamenti, piazzare qualcuno, stipulare convenzioni, mettersi in mostra facendo pubblicità. Settembre è il mese in cui nelle città italiane spopolano i manifesti in formato elefante delle università che si fanno belle per fare cassa, del resto nessun animale come l’elefante saprebbe rendere tanto bene l’idea di quel mondo. Poi le mosche bianche non si negano a nessuno, per carità.

L’università italiana è un centro di potere che parla poco e comunica peggio, un centro impolverato che ancora muove. Sotto certi aspetti ricorda l’atteggiamento con cui la maggior parte delle nostre aziende – soprattutto pubbliche, soprattuto comode – continua ancora a blindare l’accesso ai social network dai computer d’ufficio dei propri dipendenti facendo finta di non accorgersi che ormai sul web ci viaggiamo di continuo con tutto ciò che ci portiamo addosso, orologi compresi. L’università è una bolla su cui il vento del lavoro fatica a soffiare per farla alzare, è una giostra meccanica su cui i giovani continuano a salire pensando sia un innocuo tagadà e scendono raccontando di esser stati sulle montagne russe. L’università è soprattutto un tempio dentro cui ricercatori e docenti non raccomandati ma pieni di valore tocca vederli a mani giunte, ossequiosi verso una gerarchia che comanda, spesso intrecciati a ricatti impalpabili da fuori e fin troppo densi da dentro.

Avere una laurea, a dirla tutta, oggi serve solo a farti sembrare più alto in società se la società è questa giungla di disvalori in cui è saltato il banco: più la ostenti, più sprofondi. Anni di studio e compromessi che finiscono nella prima riga di un curriculum che poche aziende leggono oltre il primo sguardo, se arrivano al primo minuto è già una gran fortuna, figuriamoci se qualcuno mai verifica. All’Italia di oggi non servono lauree ma educazione, buon senso, rispetto del sapere, adesione alle regole, cultura dell’altro; insomma tutto ciò che dovremmo fare nostro già alle scuole elementari. In un Paese che decide costantemente di rinunciare alla ricerca perché pensa di avere già tutto in casa – poveri noi – la competenza si fa zavorra e quanto pesa caricarsela in aereo per portarla all’estero e farla fruttare. Per lavorare dovrebbe servire una maturità formativa capace di diventare un po’ alla volta esperienza sul campo, non serve per forza studiare. Pericolosi i genitori che trascinano le vite dei figli all’università per sentirsi loro più puliti, santi i genitori che in silenzio fanno una carezza ai figli che scelgono di non proseguire gli studi perché sanno che lavorare li nobilita meglio.

Che università e mondo del lavoro non parlino seriamente ma facciano solo gossip spinto lo confermano i dati della ricerca #socialuniversity promossa da Nexa, il centro studi del Politecnico di Torino che si è preso la briga di indagare il rapporto tra 96 università italiane e i social network. Per esser più precisi hanno indagato 67 università pubbliche di cui 6 istituti speciali di ricerca, 18 università private non telematiche, 11 università private telematiche. Social network sì, ma quali? Contattati direttamente, mi hanno confermato che l’ultima ricerca è datata 2014 e che stanno lavorando agli aggiornamenti. L’anomalia che trovo è che si siano concentrati solo su due piattaforme principali, Facebook e Twitter. Peccato che l’unico social network nato e cresciuto in pasto al mondo del lavoro e delle professioni sia Linkedin e che un centro di ricerca non lo prenda nemmeno in considerazione per stilare un rapporto specifico finisce per essere conferma più che anomalia. Le università, così come la maggior parte delle aziende, preferiscono illudersi che dentro il web sia sufficiente esserci con un profilo e che l’uno vale l’altro. Presentarsi sui social in modo serio e strutturato è complesso, costruire contenuti di livello richiede conoscenza e sensibilità; postare con leggerezza è invece un soffio e si illudono che un soffio possa bastare a spingere l’elefante. I docenti universitari con un profilo su Linkedin sono rarissimi e quei pochi che ci sono altrettanto raramente lo fanno con cura verso la propria rete di contatti e quasi mai mettono la propria foto come se mostrarsi fosse disdicevole o rischioso. Non sanno usare i social perché non li vogliono usare, banalmente credono di non averne professionalmente bisogno, stanno dove stanno tanto chi li tocca. Complicato parlare con quel mondo ancora blindato dietro i titoli e la forma, per non parlare degli equilibri fragilissimi su cui si rischia di cadere a chiamarli professori, docenti, ricercatori, cultori della materia, associati. Forse dissociati sarebbe più corretto. La Costituzione ci ricorda che siamo una repubblica e non più una monarchia ma la forma di stato più capillare si chiama ancora gerarchia.

Siamo italiani che pensano di essere geniali e divertenti ma siamo tendenzialmente deterrenti. Dell’università abbiamo smarrito il senso e le imprese sborsano soldi per allestirci totem e banchetti che ai giovani portano solo file disilluse e curriculum di carta straccia. I numeri che ciclicamente parlano di occupabilità e titoli di studio sono non solo fuori contesto ma anche fuorvianti eppure con costanza saturano tutti i media. É di oggi la notizia dei nostri laureati overeducated, troppo istruiti per i lavori che gli tocca fare o che scelgono di fare mentre la Gig economy sbanca e noi li chiamiamo ancora lavoretti. Lo sport nazionale è il prendere posizione tra fazioni, gli umanisti contro i digitali, i robot contro i filosofi; siamo persino arrivati a bollare questo tempo come post-umanesimo nonostante di umano sia rimasto il mondo animale e poco più.

Cosa valga la pena studiare oggi per domani è una domanda posta male, meglio chiedersi perché studiare e con chi. La docenza e la formazione universitaria testimoniano troppo spesso l’insulto all’intelligenza di chi vorrebbe crescere per sé e per il Paese. Non cresciamo, siamo nani. I numeri dicono che siamo troppo istruiti ma i numeri non dicono più la verità quando si tratta di lavoro. Siamo nani e non è colpa della specie.

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