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Welfare del nord a suon di marketing

Welfare del nord a suon di marketing

Il favoleggiato welfare del nord Europa è l'idillio che si racconta nelle convention di management? L'abbiamo chiesto a chi l'ha vissuto in prima persona.

Perché i Paesi nordici risultano sempre primi in classifica quando si tratta di indicizzare la felicità, sebbene detengano anno dopo anno il record di suicidi? Perché la felicità viene calcolata in base alla corrispondenza tra ciò che si ha e ciò che si desidera. Un po’ come quel detto: la felicità non è avere ciò che si vuole, ma volere ciò che si ha.

Come sempre i dati vanno letti nella loro interezza, altrimenti si restituisce alla cronaca una mezza verità. Lo stesso si potrebbe immaginare dello stato sociale, quella rete nazionale gestita dalla cosa pubblica che arriva in soccorso ai cittadini nella vita quotidiana, tra mezzi pubblici garantiti e puntuali, asili nido a profusione, pari opportunità nei luoghi di lavoro. Anche in questo caso spesso il Nord viene portato acriticamente in palmo di mano e assurge a prototipo di perfezione.

Quante volte abbiamo sentito parlare di “modello svedese”? Si tratta in realtà di una corsa affannosa per la parità di genere nel welfare e un incessante lavoro di marketing per far apparire perfettamente equo ciò che non lo è: ecco la dicotomia di cui sono testimone come giornalista che da anni vive in Svezia. L’etichetta è curata fino allo spasmo, e non è un caso che l’icona del modello svedese persista inossidabile nella sua lucentezza esemplare, oggi pesantemente appannata, quando non assolutamente fittizia. L’occhio da cronista mi ha portato negli anni a guardare allo stato sociale svedese con lo sguardo quotidiano di chi vive a queste latitudini. E a prendere un volo Stoccolma-Bologna per “respirare” Nobìlita. Cercando, con il confronto, di capirne di più.

Il welfare del nord contro il welfare mediterraneo

Chi invece si sta muovendo, seppur con innegabile ritardo, verso un benessere sociale intelligente è l’Italia. È un welfare non di Stato, purtroppo, che nasce prima di tutto dalle aziende, oggi sempre più attente al benessere dei dipendenti, come il festival del lavoro e alcuni suoi ospiti hanno fatto emergere. La dottoressa Sagrafena ha misurato la prima esigenza dei giovani in azienda: la libertà, che diventa business nella gig economy, come spiegato da Dominos Pizza per bocca del suo CEO Alessandro Lazzaroni. L’attenzione al benessere si fa “sartoriale”, cioè ritagliata su misura dei lavoratori, che sono prima di tutto persone e, come tali, tutti diversi. Chi l’ha detto dunque che interessi un asilo in azienda “per le mamme” (come si è soliti dire, come se i papà non fossero minimamente contemplati nella responsabilità della famiglia)? Chi dice invece che non interessi di più una struttura esterna, facilmente accessibile con mezzi pubblici affidabili, e personale scelto da concorsi di Stato? Perché dare per scontato venga apprezzata un’area relax interna all’azienda al posto di un “buono tempo-libero” da spendere dove e quando si preferisce? Incasellare anche il modo in cui ci si deve riposare non assomiglia più a una qualche forma di controllo del dipendente, piuttosto che a una scelta personale?

Passiamo al confronto tra il sedicente paradiso nordico del welfare e l’uso sapiente del buon senso mediterraneo.

Il bene “tempo libero”. Anticipiamo che a queste latitudini si lavora molto meno, e a un ritmo che in Italia farebbe scattare il licenziamento in giornata per scarsa rendita; quindi la percezione, sia dell’impegno che del disimpegno, è profondamente diversa. Denominatore comune sia nel pubblico che nel privato è l’abuso di pause caffè, ritenute intoccabili. Nel lavoro ci si muove sempre “in massa”, nessuno deve emergere nel rispetto dell’eterna vocazione alla parità. Ne consegue che nessuno è mai responsabile delle inefficienze o degli errori lavorativi.

L’elasticità non è contemplata. Non posso dimenticare un corridoio del maggiore istituto di ricerca europeo, il Karolinska, completamente pieno di polvere, cartacce, fanghiglia da neve portata dentro con le scarpe e poi scioltasi. Motivo? Si trattava di un corridoio-ponte tra due porzioni dell’istituto, in cui operavano due distinti gruppi di addetti alle pulizie. A nessuno di loro risultava di dover pulire anche lì, e quindi il crearsi di una situazione semplicemente inaccettabile sul piano igienico era assolutamente irrilevante. Per tutti. Ma la salute dei dipendenti non faceva parte del welfare?

Svezia, l’idillio che non c’è

Sul piano della prevenzione e della cura della persona, le aziende assegnano ai dipendenti un fisso che varia fino ai 250 euro l’anno da spendere in benessere e salute, massaggi e palestra compresi. Il bonus però varia in base alle dimensioni dell’azienda, e nel pubblico è più consistente che nel privato. Privilegio per molti, ma non per tutti, è il tempo extra da dedicare alla famiglia, come il congedo parentale dei papà. Le donne però guadagnano meno degli uomini anche in Svezia, e quindi rimangono a casa loro con i bambini anche dopo il periodo di maternità strettamente inteso, perché, percependo l’80% dello stipendio, si preferisce non intaccare quello degli uomini. Sarebbe troppo oneroso per la famiglia. Il dato è confermato dal fatto che recentemente, per indurre i padri a dedicarsi ai piccoli, il governo ha istituito due mesi di paternità esclusiva, cioè non cedibili alle mamme. O si usano, o si perdono. Giro di vite poi al congedo facile per malattia dei bimbi: troppi genitori sono stati beccati e denunciati dai vicini di casa mentre, dopo aver dichiarato di non presentarsi al lavoro perché i figli avevano la febbre, si dilettavano al centro commerciale (neanche in Svezia tutti i vicini sono discreti!).

In Italia l’attenzione della cosa pubblica in merito è impercettibile. Le aziende invece, come un’ampia pagina di Nobìlita ha mostrato, stanno cambiando rotta. Si studiano piani per agevolare sempre di più la sincronia tra i tempi della famiglia e quelli del lavoro, e non solo per le donne. Alessandro Lazzaroni, dati alla mano, ha mostrato che il mestiere di rider non è più “un lavoretto” per pagarsi gli studi. Al contrario, sempre più ragazzi lo fanno per 40 ore la settimana, ottenendo uno stipendio dignitoso e una gestione del tempo libero molto più elastica e adeguata alle esigenze personali. Cruciale, come sempre, la correttezza dell’impresa. Nel caso di Dominos Pizza i dipendenti vengono formati e messi in regola perfettamente, quindi si investe su di loro. Questo incoraggia a restare e a farne una professione a tempo pieno, con non pochi vantaggi bivalenti. Anche questo è benessere.

Mamme. In Svezia sono numerosissimi gli asili nido e le scuole materne pubbliche, ma a gestione privata, a disposizione delle famiglie. Solo un terzo del personale impiegato però, è competente e ha un titolo di studio attinente alla pedagogia o alla didattica. In Italia nelle scuole materne pubbliche e private possono insegnare solo maestri che hanno conseguito il titolo ed effettuato un tirocinio. Anche questo è welfare: qualità dei servizi.

Infine, se nel capitolo benessere vogliamo far entrare anche la parità di genere nei luoghi di lavoro, che tanto gioverebbe alla qualità di vita della società intera, un recentissimo sondaggio condotto dall’Institutet Allbright di Stoccolma (che studia come si forma l’opinione pubblica) ha mostrato come su dieci dirigenti universitari del settore scientifico sette siano uomini, e come l’essere maschi sia molto più importante dei meriti accademici, per la carriera. Questo anche grazie a forme di raccomandazione, nel senso di corruzione, tra uomini, che a loro volta preferiscono assistenti maschi, perché considerano le colleghe adatte solo a portarti il caffè. Amanda Lundeteg, tra le autrici del sondaggio, afferma: “Abbiamo parlato con diverse donne a diversi livelli e avuto testimonianze spaventose: le loro provette e i loro animali da cavia vengono spesso sabotati per alterare, e quindi falsare, i risultati dei loro esperimenti”.

Photo credits: Citynews