Wired Trends 2020: il lavoro che verrà

Quando vedo la parola “lavoro” nei titoli degli eventi, non so perché, leggo di cosa si tratta e se posso vado a farci un salto. Il 4/12 a Milano, presso il Luiss Hub, era in programma un evento Wired Trends 2020 – Lavoro. Nella quattro giorni di eventi organizzata dalla rivista Wired ho notato un […]

Quando vedo la parola “lavoro” nei titoli degli eventi, non so perché, leggo di cosa si tratta e se posso vado a farci un salto. Il 4/12 a Milano, presso il Luiss Hub, era in programma un evento Wired Trends 2020 – Lavoro. Nella quattro giorni di eventi organizzata dalla rivista Wired ho notato un topic che faceva per me in quanto HR e cittadino della complessità che ci divora.

Il lavoro determina ruoli sociali, aspirazioni, potere di spesa, potere, autostima, competenze, umori e spesso viene utilizzato come parametro per valutare lo stato di salute di un Paese; quanti disoccupati ci sono, quanto PIL si produce, reddito pro-capite e decreti su decreti per salvare capre e cavoli o per farne un minestrone. Piacendomi molto il minestrone, ho deciso di buttarmi in questo evento come spettatore attento.

 

Che cosa si è detto nello Wired Trends 2020 dedicato al lavoro

Giovanni Mari, un relatore, ha detto: “Chiedete cos’è il lavoro alle persone e vedrete che non sapranno rispondervi in maniera esaustiva”. Diamine, ma sai che ha ragione; spesso non sappiamo più attualizzare il significato delle parole che echeggiano nella nostra vita. Chissà se Marx, Agnelli, Olivetti, Elon Musk e Bill Gates darebbero la stessa risposta?

Credo sia quello il punto. Il lavoro si è modificato. I contratti hanno spesso lo stesso nome ma significati diversi; facciamo leggi per stabilizzare il lavoro e ci accorgiamo che aumentano i contratti a tempo; escono i dati OCSE sulla nostra scolarizzazione e mi tornano alla mente i film horror che non volevo guardare da bambino per paura di farmi la pipì addosso.

Si parte con molti numeri e dati IPSOS, tra i quali spicca un grafico che dice: in Italia il 22,5% dei giovani non sa cosa vuol fare da grande, ma ancora peggio, il 40% di coloro che sanno cosa vogliono fare non credono di realizzarlo; che brutta tegola!

Poi si dice che il lavoro è uno dei bisogni primari per la felicità degli italiani, ancora più del sesso e degli amici; mia madre mi ha sempre detto di studiare e di farmi il “mazzo” se avessi voluto realizzare qualcosa e credo avesse ragione, al di là del grafico. Il sesso è piacevole, ma forse con un lavoro in tasca lo si fa più felicemente.

Un dato che mi ha fatto barcollare sulla sedia è stato che il 27% degli italiani viene attratto da aziende che danno periodi sabbatici e congedi parentali aggiuntivi; unisco questo dato a quello che tra i benefit più graditi ci sono il lavoro da casa e gli orari flessibili e la domanda che mi faccio è: ma non volete stare in azienda a lavorare? Sono favorevole allo smart working come modello (non come lavoro da casa e basta) e la flessibilità bidirezionale lavoratore/azienda è un must, ma i numeri mostrano un trend che mi lascia perplesso.

 

Lo stipendio, e il lavoro che influenza il tempo libero

Abbandonati i dati si passa all’attraction, ma senza grandi novità sul tema da segnalare; si dice che le aziende devono essere attrattive dal punto di vista valoriale, che gli HR stanno mutando, che i social network vengono utilizzati per profilare i candidati e che anche le foto sui social possono essere un elemento che racconta di noi in contesti “travisabili”. Ascolto ma non mi vengono particolari stimoli rispetto alla letteratura degli ultimi mesi. Dico solo che fare uno storytelling dei valori e poi trattare le persone come KPI è una pratica distorta, e dal mio piccolo osservatorio posso affermare che le persone vengono addolcite in fase di selezione con promesse che spesso lasciano sulla strada corpi stanchi con la bocca rivolta all’ingiù.

Giovanni Mari, professore di Storia della filosofia dell’Università di Firenze e autore di Libertà nel lavoro. La sfida della rivoluzione digitale, nel suo intervento parla del tempo libero che viene influenzato da come la persona vive il proprio lavoro; chi lavora in maniera attiva e interessata è probabile che faccia la stessa cosa nel tempo libero. Diciamo che l’equazione potrebbe essere valida; mi sento di dire che il tempo libero in certi contesti lavorativi viene visto come una sorta di reperibilità al bisogno aziendale interrompibile secondo le necessità.

Il lavoro per me ha molta importanza, e da sempre cerco di alimentare vita privata e lavoro con interessi affini. Questo porta giovamento a me, ma potrebbe essere deleterio per altri; le aziende devono anche monitorare l’impatto dei loro bisogni produttivi sul tempo libero delle persone perché qui si gioca l’annosa partita del “ti pago lo stipendio e quindi devi darmi il tuo tempo”. Lo stipendio va onorato fino all’ultima briciola, anche perché in futuro a mio avviso potrebbe calare come valore assoluto, ma se veniamo privati di questo “potere” di essere liberi, tutto il resto potrebbe non bastare.

 

Wired Trends 2020, Milano.

 

Smart working, salario a obiettivi, il deficit delle competenze

Poi è il momento della coppia Pozzi, fondatrice e amministratore delegato di Impactscool, e Sammarco, amministratore delegato di ItaliaCamp, che parlano di education e del nuovo modo di proporsi alle aziende con progetti in fase di selezione.

Impactscool la conosco in prima persona e ha la buona idea di portare nelle scuole materie e metodi didattici innovativi, ma soprattutto basati sul dibattito e sull’interazione. Di ItaliaCamp, associazione che sforna idee imprenditoriali o di business partendo dal dibattito per poi proporle alle aziende, ne so poco; il modello mi sembra simile a quello che stanno facendo altri, cioè di non proporre candidati alle aziende, ma idee di business che poi portano con loro anche la necessità di assumere persone. Sono un po’ scettico, ma non ho elementi per dire “wow” o “buuu”. Tuttavia, se un modello porta lavoro alle persone che lo cercano, per me è wow.

Chiude Francesco Seghezzi, filosofo e presidente Fondazione Adapt, dicendo che in Italia ci sono 23 milioni di lavoratori (non molti rispetto alla popolazione), che il 65% dei part-time lo fanno in maniera involontaria (non trovano un full-time), che abbiamo ancora il salario legato al tempo ma spingiamo lo smart working che dovrebbe andare a obiettivi; insomma dice cose che non fanno ridere, ma che fanno pensare seriamente.

Questo principio del tempo però fa riflettere su chi detta gli obiettivi: come si fa poi a misurare solo quelli sulla base di contratti nazionali fatti una volta e poi non toccati per anni, mentre le condizioni e il mondo del business cambiano velocemente? Non vedo questo modello come praticabile a breve. Si sa, come dice anche Francesco, che il progetto Reddito di Cittadinanza e navigator non era partito con i fari accesi, e temiamo che anche le luci di Natale restino spente per un po’.

Chiusura: siamo un Paese poco digitalizzato e nelle scuole non ci sono le competenze che servono; i ragazzi non sono molto consapevoli della distanza che dovrebbero colmare con autoformazione o con percorsi formativi qualitativi; se non viene voglia ai docenti di farlo state tranquilli che c’è un effetto alone che non si può spegnere.

 

Un futuro di stipendi minori, ma (forse) non di minore felicità

Che dire, da HR del mondo digital? Sia che abbiate lavoro, che non lo abbiate o che non lo vogliate avere, il momento è molto complesso: l’economia ristagnerà anche in previsione, i nostri governi non stanno facendo manovre per alimentare la proposta di lavoro, le scuole non hanno i mezzi per correre veloci; quindi lo scenario non fa sorridere.

Per contro ci sono focolai positivi in giro, e vanno ricercati e intercettati. Si deve studiare più di prima per avere meno; i salari un domani potrebbero calare e occorrerà trovare una felicità di vita togliendo l’inutile. Bisogna cibarsi di relazioni che fanno bene allo spirito e anche al lavoro, partecipare come volontari a progetti interessanti che fanno fare esperienza e poi individuare futuri possibili, non probabili, e cercare con tutte le forze di realizzarli.

Se per anni sentirete le stesse cose non preoccupatevi, potrà capitare, le persone non cambiano velocemente come fanno le app. Ci sostituiranno i robot? In parte sì, ma loro non potranno amare, a mio avviso. Se continueremo a volere stipendi maggiori si arriverà al punto in cui converrà sostituirci con un robot; se invece sapremo essere equilibrati nella vita come nel lavoro avremo più speranze. Spegnere un robot per cambiare le cose sarà possibile, ma ci sono mille modi anche per spegnere una persona. Spero che la coscienza nella collettività non dipenda da un microchip.

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