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Il Made In Italy non pedala più: Campagnolo annuncia 120 licenziamenti, pari al 40% della sua forza lavoro. Ma la storica azienda ciclistica non è nuova ad annunci di questo genere, e la crisi ha radici più profonde di una congiuntura di mercato sfavorevole. La nostra analisi

Non tutti lo ricordano, ma questa non è la prima volta che succede. Anche nel 2015 Campagnolo aveva annunciato licenziamenti, 68, poi scongiurati dopo un accordo con i sindacati; già in quegli anni l’azienda adduceva come causa la “crisi del settore della bicicletta”. Un decennio dopo, la storica azienda vicentina del settore ciclismo raddoppia: questa volta i lavoratori messi alla porta, a fine novembre 2025, sono 120 su 300 totali. Il 40% della forza lavoro.
L’azienda fondata nel 1933 è rinomata per aver introdotto innovazioni fondamentali nel ciclismo, mantenendo un posizionamento di lusso e alta ingegneria all’insegna del Made in Italy di eccellenza. Tuttavia, negli ultimi anni, l’iconico marchio ha fronteggiato gravi difficoltà strutturali e finanziarie, aggravate da una nuova “crisi della bici”. Ma è la vulnerabilità gestionale e strategica, prima delle congiunture di mercato, che ha portato l’azienda sull’orlo di una drastica contrazione.
La giustificazione ai licenziamenti fornita dall’amministrazione di Campagnolo è di natura economica: i tagli sarebbero indispensabili per la sopravvivenza dell’impresa, dato il drastico calo del fatturato e le perdite registrate. La comunicazione ha sottolineato che, senza questa contrazione della forza lavoro, l’azienda affronterebbe “conseguenze drammatiche per l’azienda e per Vicenza”.
L’annuncio ha suscitato una reazione immediata e ferma da parte dei sindacati locali, che hanno definito la situazione “inaccettabile”. L’obiettivo primario del sindacato è la tutela dell’occupazione, con la richiesta esplicita di togliere i 120 esuberi dal tavolo delle trattative. In alternativa al licenziamento secco, i rappresentanti dei lavoratori hanno richiesto l’individuazione di strumenti di ammortizzatori sociali adeguati, come il Contratto di Solidarietà o la Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria (CIGS). Questo approccio è cruciale nel contesto locale, considerando che la provincia di Vicenza era già una delle prime cinque province italiane per numero di ore di CIG autorizzate nei primi mesi del 2024, a testimonianza di una congiuntura economica locale già tesa, specie a causa della conclamata crisi della manifattura.
L’azienda ha illustrato ai sindacati un piano industriale per il rilancio, su cui la parte sindacale ha richiesto un approfondimento urgente per valutarne la serietà e comprendere come l’azienda intenda rilanciarsi nel breve e lungo termine.
Ma da dove viene la crisi della Campagnolo, e quanto è davvero dipendente dal contesto macroeconomico?
Innanzitutto, il calo di fatturato denunciato dalla dirigenza è reale. Il Gruppo F.lli Campagnolo ha registrato un trend netto e preoccupante al declino dei ricavi: dopo un picco nel periodo pandemico, i ricavi sono scesi da circa 260 milioni di euro nel 2022 a una previsione di 205-210 milioni di euro per il 2024, un calo complessivo del 20% in soli due anni. Questa difficoltà si è tradotta in perdite operative stimate nell’ordine di 24 milioni di euro.
Proprio la pandemia e le sue conseguenze stanno all’origine della bolla che ha illuso il mercato di settore. Non che il COVID-19 abbia danneggiato le vendite, anzi: le ha portate a esplodere. Tra il 2020 e il 2021 c’è stato un boom di acquisti di biciclette in tutta Europa grazie agli incentivi pubblici e agli investimenti in piste ciclabili, ma la domanda si è raffreddata con grande rapidità dal 2022-2023 a causa dell’inflazione e dell’incertezza economica. Le bici non vendevano più come prima, e i magazzini sono rimasti pieni di ordinazioni pensate per soddisfare un trend che sembrava in crescita. In altre parole, l’industria ciclistica globale ha sofferto di un massiccio eccesso di inventario (overstocking); di conseguenza, i produttori di biciclette hanno interrotto o drasticamente ridotto gli ordini di primo montaggio (OEM, la messa a punto dei componenti per assemblare e approntare una bici dopo l’acquisto), cosa che ha danneggiato l’attività della Campagnolo, dipendente dal segmento di prezzo più alto e dalle vendite OEM.
L’azienda, tuttavia, non è esente da responsabilità, che si concentrano soprattutto nella decisione di concentrarsi su una nicchia di mercato di alta gamma. A livello di domanda finale, la bicicletta, specie quella di fascia alta equipaggiata con componenti Campagnolo, è classificata come un “bene voluttuario”, ovvero non essenziale. Non è sempre vero che il lusso non conosce crisi: in un contesto di generale impoverimento economico (negli ultimi anni causato soprattutto da inflazione e crisi energetica), i beni voluttuari sono i primi a essere tagliati dai consumatori; è il caso di chi, invece di acquistare una nuova bici, preferisce riesumare la vecchia mountain bike.
L’elemento strutturale più significativo nella vulnerabilità di Campagnolo è stato la sua scelta di concentrarsi in maniera quasi esclusiva su componenti top di gamma. Nonostante l’azienda sia riconosciuta per l’eccellenza dei materiali e il fascino estetico indiscusso dei suoi componenti, questo focus sulla forma ha spesso comportato un compromesso a sfavore della performance funzionale pura, a giudicare dalle analisi dei commenti online di ciclisti e cronisti di settore.
Nelle parole di clienti e valutatori, questa tendenza riflette una cultura aziendale permeata da ciò che è stato definito “estremo conservatorismo”, “miopia” e “mancanza di immaginazione”. Mentre i concorrenti – il duopolio composto da Shimano e SRAM – abbracciavano l’efficienza e la standardizzazione, Campagnolo manteneva un approccio quasi artigianale; un modello che, sebbene esaltasse la qualità percepita, si rivelava inadatto alla velocità e ai volumi richiesti dal mercato globale contemporaneo.
Questa strategia di dipendenza dal lusso ha trascurato o ignorato i segmenti di mercato più ampi e a volume (come nel caso dei componenti wireless, del gravel e dell’e-bike), dove si genera la maggior parte del fatturato e dove si costruisce la penetrazione del marchio. La conseguenza è la distruzione della fondamentale “piramide di prodotto”: in un mercato di componenti ciclistici di successo, i prodotti base finanziano i prodotti di fascia media, che a loro volta sostengono il flusso di cassa necessario per gli investimenti nella ricerca per il top di gamma. Campagnolo ha decostruito la base di questa piramide, auto-isolando i suoi costosi gruppi di componenti di lusso e rendendoli finanziariamente indifesi contro qualsiasi flessione della spesa voluttuaria. Come quella generata dal recente shock del mercato ciclistico d’alto bordo, appunto.
Proprio per questa ragione, l’annuncio dei 120 esuberi assume toni paradossali. La massiccia perdita occupazionale non è solo una cifra contabile, ma un evento socioeconomico di rilievo per il tessuto produttivo della provincia. L’azienda, con 300 dipendenti, opera su una scala comparabile a quella di una boutique industriale se confrontata con i giganti globali del settore. Un taglio del 40% non configura un semplice snellimento dei processi, ma un rischio esistenziale per la conservazione del know-how produttivo italiano di alta qualità – per tacere della sostenibilità del modello di business incentrato sull’alto costo e il basso volume.
È chiaro che l’azienda mira a tagliare i costi in tutta fretta per tamponare le perdite di fatturato; tuttavia, se Campagnolo punta davvero a un rilancio, deve preservare il suo capitale umano ad alta specializzazione. Il ricorso a strumenti come la CIGS, caldeggiato dai sindacati, rappresenta l’unico meccanismo per conservare le competenze operative e la capacità produttiva di alta ingegneria in attesa che il nuovo piano industriale generi i suoi effetti.
Per un’azienda che ha puntato a oltranza sulla qualità artigianale dei suoi prodotti, licenziare lavoratori qualificati significa provare a cancellare con un colpo di spugna degli errori di valutazione che si sono protratti per anni – in questo caso, più di dieci. Di fronte a un quadro simile, dare la colpa ai cicli e alle bolle del mercato non è del tutto onesto, ed è ancora più insopportabile a pensare che, nel Paese delle crisi e delle emergenze, almeno l’artigianato non prendeva scorciatoie quando la strada si metteva in salita.
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Photo credits: primavicenza.it

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