UE: “sostenibili” gli investimenti in armi. La nuova ESG è solo guerra

Non più Environment, Sustainability e Governance, ma Energia, Sicurezza e Geostrategia. Il nuovo mantra degli investimenti europei punta sull’industria bellica; ma la riconversione delle industrie al militare può generare occupazione? Ne parliamo con Gianni Alioti, ex sindacalista CISL e membro dell’osservatorio “The Weapon Watch”

11.07.2025
Nuova ESG spinge alla riconversione bellica: come è accaduto alla Berco, rappresentata in foto con un cingolo monumentale a fianco

A Castelfranco Veneto, provincia di Treviso, il caso dello stabilimento Berco ha coperto per diversi mesi le cronache locali. In dismissione da parte di ThyssenKrupp, la fabbrica che produce ruote tendicingolo e rulli per macchine agricole mira al salvataggio grazie all’ipotesi di un intervento della friulana Faber, intenzionata a convertire l’impianto in componentistica bellica.

A richiamare l’attenzione sul caso è l’adesione pressoché totale dei lavoratori al progetto, supportati dalle dichiarazioni della segreteria nazionale della CISL, secondo cui produrre armi serve alla difesa del Paese. Chiaro che, quando sul tavolo ci sono i legittimi interessi del sindacato e dei dipendenti, prevale la possibilità di risolvere un problema pratico, in barba all’etica. Realpolitik.

Lavoratori e sindacalisti della Berco di Castelfranco Veneto manifestano a favore della riconversione bellica dell'impresa.
Lavoratori e sindacalisti della Berco di Castelfranco Veneto manifestano a favore della riconversione bellica dell'impresa. Foto di Treviso Today.

 

D’altro canto in Italia la manifattura versa in uno stato catatonico dalla seconda parte del 2023, con dati 2024 in totale ribasso. Osservando l’indagine congiunturale di Federmeccanica, ben cinque comparti su sette della meccanica hanno presentato segno negativo nell’ultimo trimestre. Una situazione resa ancor più pesante dallo stallo continentale, considerato che secondo Eurostat nell’UE i volumi di produzione sono calati del 5,6% rispetto al 2023. E tutto questo mentre le ore di CIG continuano ad aumentare, lo spettro dei dazi incombe e i costi relativi all’energia aggravano un quadro già plumbeo.

A questa situazione fa da contraltare il quadro geopolitico, con i conflitti in Ucraina e Medio Oriente sempre in primo piano, insieme al programma di riarmo europeo e al 5% di PIL da dedicare – a tendere – al mondo della difesa. Tempesta perfetta per l’imprenditore italiano medio, alle prese con un dubbio amletico: si chiude o ci si converte alla produzione bellica?

"Spese sproporzionate, utili solo se ci si prepara a una guerra. (...) Quando i Paesi superano 4% del PIL in spese militari è perché si preparano a un intervento armato fuori confine."
Gianni Alioti, The Weapon Watch

Con la nuova ESG, l’UE incoraggia a investire sulla guerra

Un cambio di rotta per niente facile da digerire, considerato che molte imprese (chi per valori, chi per opportunità) sono ancora alle prese con l’implementazione di tutte le politiche legate alla sostenibilità, al fine di rispettare i parametri ESG: responsabilità ambientale, sociale e di governance. Una scalata non indifferente, in termini di investimento, ma non più prioritaria, anche alla luce di quanto emerso da Euronext.

Il principale mercato finanziario e di borsa dell’eurozona, infatti, a inizio maggio ha introdotto tre nuovi indici, creando un alter ego dell’iniziale acronimo. Presto detto: la New ESG cambia vestito e diventa “energia, sicurezza e geostrategia”. Una giravolta coerente con il cambio di passo europeo, dove dal green deal si è passati al riarmo, come peraltro lascia intendere lo stesso comunicato di Euronext, che spiega la scelta per rafforzare l’autonomia strategica europea.

È lo stesso amministratore delegato Stéphane Boujnah a raccontarlo, riconducendo la decisione alla difesa dei valori del Vecchio Continente, in virtù degli interessi degli investitori, “sempre più desiderosi di aumentare la propria esposizione alle crescenti opportunità legate agli investimenti in corso nei settori aerospaziale, della difesa, dell’energia e delle infrastrutture strategiche in Europa”.

Gli indici in questione sono appunto l’Euronext European Energy Security Index, che tiene traccia delle imprese con un ruolo nell’energia in settori chiave (tra cui il nucleare); l’Euronext European Aerospace & Defence, che raccoglie gli innovatori nel settore della difesa, e l’Euronext European Strategic Autonomy Index, che promuove l’indipendenza strategica in questi stessi settori.

Una decisione discutibile, a maggior ragione per la scelta del linguaggio, e una notizia che preoccupa, anche se c’è ancora qualche esperto che con razionalità prova a buttare acqua sul fuoco. “C’è il rischio che passi una narrazione che non corrisponde alla realtà, perciò è necessario ragionare sui dati e sulla reale dimensione del fenomeno” commenta infatti l’ex sindacalista Gianni Alioti, già responsabile dell’ufficio internazionale FIM CISL e ora membro dell’Osservatorio “The Weapon Watch”.

Perché la riconversione bellica delle industrie non genera occupazione

D’accordo, riflettiamo sul contesto. “Bisogna anzitutto analizzare il momento storico. Partiamo dall’esempio di Berco, a Castelfranco. Qui si tratta di un ritorno al passato, perché quel sito fino al 1998 apparteneva all’azienda Simmel Difesa, che ha sempre prodotto materiale come esplosivi, bossoli, ogive, produzione nel campo del munizionamento. Dopo la fine della guerra fredda Simmel, in evidente crisi, aveva passato la mano a Faber e Berco, convertendo la produzione in attività civili. A fare la differenza è sempre il mercato, e di questi tempi stupirebbe se non ci fossero riconversioni”.

Non proprio rassicurante, come punto di vista. “Prendo un secondo esempio: nel giro di poco tempo, durante il COVID-19, Israele ha trasformato la produzione di missilistica in ventilatori utilizzati per le terapie intensive, perché aziende di quel tipo non ce n’erano. Anche negli Stati Uniti si sono utilizzate risorse professionali tecnologiche del militare per realizzare test durante la pandemia. Tutto è sempre legato alle scelte politiche. Se a livello europeo si orientano le proposte pubbliche verso il militare, chiaro che arriva una spinta conseguente”.

Per Berco, considerato il passato, la spinta viene facile. “Tutt’altro. Al di là del parere positivo dei lavoratori o del sindacato, il sito è tuttora in crisi e il personale in CIG. Il dato di fatto è che sono passati diversi mesi e la situazione è quella di sempre; non è detto che ci sia un interesse industriale nell’utilizzare quello stabilimento per il bellico. La scelta dei lavoratori, sostenuta dalla FIM CISL territoriale, dal punto di vista industriale non ha rappresentato una svolta”.

In che senso può mancare l’interesse industriale? “Perché il fenomeno, rispetto all’occupazione, rappresenta solo una minima parte della realtà industriale in Italia. Il rapporto Mediobanca sul settore difesa quantifica il valore aggiunto dell’industria della difesa al 0,30% del PIL. Mediobanca, non una fonte pacifista. Dal 2014 al 2024, senza contare le ulteriori spese previste a livello di piano di riarmo europeo, la spesa militare in Europa è cresciuta del 121% e quella in armamento del 325%; ma se andiamo a vedere quanto sono cresciuti gli ordini, e soprattutto gli occupati, ci si rende conto di un disallineamento completo”.

Qui, a supporto, è utile riportare i dati proposti da Analisi Difesa, magazine online di difesa, industria e tematiche militari. Dal 2021 il costo di quasi tutti i prodotti militari è triplicato, ragion per cui, se oggi le nazioni europee riuscissero a triplicare la quota del bilancio della Difesa e della Funzione Difesa dedicata agli investimenti, potremmo acquistare lo stesso numero di armi. Il prezzo medio dell’esplosivo a uso militare è lievitato del 90%, l’acciaio del 59%, l’alluminio del 50%, i circuiti stampati del 64%, la carpenteria leggera del 100%.

Le motivazioni di questi costi sono legate alla frammentazione del mercato UE, all’assenza di un sistema di acquisizione comune, oltre all’assenza di materie prime e di energia a prezzi convenienti. Per questo il massiccio riarmo dell’Europa, tanto evocato, appare inattuabile e insostenibile.

“I fatturati di Leonardo, in valore, cresceranno moltissimo ma non dal punto di vista quantitativo; la quantità di acciaio, di alluminio e di prodotto non aumenterà altrettanto. Ecco perché l’occupazione non è direttamente proporzionale all’aumento delle spese militari. Prendiamo il caso della Germania, che sta iniettando centinaia di miliardi in campo militare. Lì abbiamo Rheinmetall, principale hub militare su cui si sta ristrutturando il sistema industriale della difesa in Europa. Un gruppo che, per dire, ha stipulato una joint venture con Leonardo per beneficiare dei 23 miliardi per la produzione di 280 carrarmati e 1.050 veicoli da combattimento. Ecco, in questo momento si parla anche della negoziazione con Volkswagen per rilevare uno dei due stabilimenti automotive in chiusura. Un’operazione importante ma dobbiamo sempre considerare che Volkswagen converte uno stabilimento sui dieci presenti in Germania – e nemmeno il più importante. Parliamo di un 5% di addetti reimpiegati nel settore militare. Un plant, peraltro, che si doveva dismettere, sui 24 totali del settore auto; 44, se si comprendono i veicoli commerciali”.

Parliamo quindi di un fenomeno circoscritto? “In Italia porterà alcune PMI della componentistica a spostarsi dall’auto al militare; soprattutto le aziende in difficoltà dovranno porsi il problema se trovare nuovi clienti nel settore bellico. Però, appunto, bisogna avere anche consapevolezza che in alcuni casi non si tratta di nuova occupazione, ma di sostituzione, che significa assicurare lavoro a chi lo sta perdendo”.

Con il supporto del nuovo ESG di Euronext. “Perfettamente d’accordo sulla questione del linguaggio. Sono socio di Banca Etica, che si è opposta fermamente, ma è stata una voce nel deserto. Alla fine è passata l’idea che anche le spese cosiddette per la difesa possono contribuire alla sostenibilità. Ma non si capisce perché ulteriori 7 miliardi per gli F35, a cosa servono? Bisogna evidenziare tutte le contraddizioni e le incongruenze che giustificano spese sproporzionate, utili solo se ci si prepara a una guerra”.

Il successo delle armi Made in Italy

In generale, comunque, l’Italia ha una significativa produzione di armi e le aziende italiane, come appunto Leonardo e Fincantieri, sono tra i maggiori produttori mondiali, con un fatturato che supera i 13 miliardi di euro. Nel complesso siamo sesti nella classifica dei Paesi esportatori di armi, con un aumento del 138% nel quinquennio 2020-2024.

Seguendo il ragionamento, va ricordato che l’industria europea esporta una percentuale rilevante fuori dai propri confini. Se oggi puntiamo alla difesa a causa della possibile invasione russa, non si capisce perché non ci si riorienti verso il mercato interno: in Leonardo solo il 18% dei ricavi rimane in Italia. Poi, certo, ci sono eccezioni opposte. Fincantieri, per aumento degli ordini, ha sfruttato gli impianti di Castellamare di Stabia e Palermo, delocalizzando le attività civili in Romania e Vietnam. Dal punto di vista occupazionale poche novità, ma il gruppo cresce nel fatturato.

Quando i Paesi superano 4% del PIL in spese militari è perché si preparano a un intervento armato fuori confine. Se si guarda non solo l’andamento delle esportazioni di armi, ma le importazioni, si capisce quali sono i Paesi che prima o poi entreranno in conflitto tra loro. Pensiamo a India e Pakistan, tra i maggiori importatori degli ultimi anni. Da noi il tema è ancora di linguaggio, con la volontà di far passare spese in armamenti in attività socialmente sostenibili, come qualcosa che riguarda tutti”.

In sintesi estrema, siamo purtroppo sul piano inclinato. La buona notizia è che non si tratta di un piano verticale.

 

 

 

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Photo credits: estense.com

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