A Milano salario minimo vuol dire misero: l’Italia offre di più

Il capoluogo lombardo ha innescato un nuovo paradosso: la sua proposta di salario minimo locale (8,30 € all’ora), da estendere a tutto il Comune, è più bassa di quella nazionale (9 €), applicata solo a certi appalti pubblici; eppure si tratta della città più costosa d’Italia. E i sindacati temono un ritorno alle gabbie salariali

21.07.2025
Una banconota da zero euro con Duomo e Madonnina, metafora del salario minimo locale pensato per Milano

Il passo tra i nuovi salari minimi comunali e le vecchie gabbie salariali rischia di essere più breve di quanto si possa pensare. Almeno questo suggerisce il dibattito che, negli ultimi mesi, si è creato a Milano attorno al tema.

Nel capoluogo lombardo, dove le numerose opportunità di lavoro offerte conducono una battaglia quotidiana con l’altrettanto elevato costo della vita, da tempo arrivano proposte che prevedono l’istituzione di un salario minimo locale, una soglia che dovrebbe stabilire quanto si dovrebbe guadagnare per avere una vita dignitosa in una città così costosa. Politici, economisti e giuristi del lavoro, associazioni e think tank avanzano suggerimenti, ma i sindacati fanno muro perché vedono in questo un modo per far tornare una forma riveduta e corretta delle vecchie gabbie salariali, abolite a partire dal 1969.

Salario minimo locale: dove è stato applicato e perché a Milano è diverso

L’eurodeputato Pierfrancesco Maran, del Partito Democratico, è uno di quelli che sostiene il salario minimo locale. Durante lo scorso autunno il centro studi Tortuga ha anche individuato una cifra, pari a 8,30 € all’ora. A marzo del 2024, tra l’altro, si è “insediato” una sorta di gruppo di lavoro, con Tortuga e il movimento Adesso!, che quantificherà anno per anno il salario minimo milanese per poi mettere questa elaborazione a disposizione della politica locale, delle associazioni di imprese e dei sindacati, affinché tutte le parti coinvolte possano favorire l’applicazione di questo strumento. Questo significa che a Milano il tema del salario minimo locale è stato sviluppato in modo diverso rispetto a quanto successo in altre città.

Bisogna infatti ricordare che nell’ultimo anno molti Comuni, in genere amministrati dal centrosinistra, hanno approvato delibere che prevedono l’applicazione del salario minimo da 9 € nei propri appalti; insomma, impongono alle imprese che vogliono partecipare alle gare di garantire la soglia minima a favore dei loro dipendenti. Partito da Livorno e Firenze, si è presto diffuso a macchia d’olio, e di delibere come queste se ne contano già a decine – almeno. La ragione principale è politica: di fronte al governo Meloni, che respinge la proposta presentata dalle opposizioni di istituire il salario minimo nazionale pari a 9 € l’ora, i Comuni hanno fatto partire una forma di disobbedienza organizzata.

Tuttavia, si tratta anche di atti amministrativi che hanno (o quantomeno dovrebbero avere) un risvolto pratico, cioè dovrebbero davvero imporre una norma da recepire nelle buste paga delle imprese appaltatrici. Non è ancora chiaro se ciò stia effettivamente avvenendo: per esempio, alcuni mesi fa il sindacato USB ha denunciato la mancata applicazione della mozione in un appalto per guardiania della Regione Toscana.

A parte questo, sulla legittimità di queste delibere è in corso un dibattito. C’è chi sostiene che i Comuni sono liberi di inserire quella clausola nelle gare di appalto, al pari di tutte le altre condizioni tecniche previste, e chi invece sostiene che l’unico obbligo da imporre alle ditte partecipanti corrisponde al rispetto dei contratti collettivi più rappresentativi.

Comunque vada a finire – al momento non risultano significative pronunce giudiziarie – queste delibere hanno aperto i dibattiti locali sul tema del salario. Milano, come da tradizione, si è però distinta dal resto del Paese.

Salario minimo, la proposta milanese più bassa di quella nazionale. Ma è la città più cara

Nel capoluogo lombardo il punto non si è soffermato sull’imporre di applicare negli appalti la cifra proposta a livello nazionale. Qui l’esperimento è stato più “ambizioso”: scovare una cifra che costituisca il minimo per vivere bene in questa costosa città, e poi mettere in campo ogni azione affinché questa sia assicurata a tutti i lavoratori, non solo quelli degli appalti pubblici. Bisogna ricordare che i Comuni e le Regioni non hanno la competenza, sul piano giuridico, per istituire un salario minimo nel loro territorio, quindi al massimo questa sperimentazione potrà arrivare favorendo accordi tra le parti sociali a livello locale, o norme premiali e incentivanti da parte degli enti pubblici.

Ecco perché i sindacati hanno guardato con estrema diffidenza a questa proposta. Il timore, insomma, è che da ora in poi ogni città si attrezzi allo stesso modo e che, attraverso questo sistema, tornino le gabbie salariali, cioè quel meccanismo che differenziava gli stipendi in base al diverso costo della vita dei territori, cristallizzando le disparità.

Prima di proseguire è necessaria una precisazione: oggi le gabbie salariali non esistono più a livello giuridico, ma gli stipendi effettivi del settore privato sono molto diversi da una zona all’altra del Paese, in particolare da Nord a Sud. Pur essendoci stipendi tabellari uguali per tutto il territorio nazionale, così come previsto dai contratti collettivi di lavoro, la situazione pratica è differente. Come è possibile?

I motivi sono diversi. Innanzitutto, nei fatti le imprese del Nord sono costrette a offrire retribuzioni più alte per invogliare i lavoratori ad accettare le proposte e sostenere il più alto costo della vita. Inoltre sono più diffusi i cosiddetti contratti di secondo livello, cioè gli accordi firmati dai sindacati a livello territoriale o di singola azienda, i quali in genere prevedono premi e indennità aggiuntive.

Il paradosso milanese è questo: essendo una città più cara del resto d’Italia, il salario minimo dovrebbe essere più alto che in altre aree del Paese. Tuttavia, avendo adoperato il criterio del costo della vita solo in questa città, parametrato sulle soglie di povertà ISTAT, finora le cifre venute fuori sono di parecchio inferiori ai 9 € da più parti proposti come salario minimo nazionale.

C’è però da aggiungere un tema al dibattito. Che cosa si intende per salario minimo che garantisca una esistenza libera e dignitosa? Che cosa è compreso, in quella vita libera e dignitosa? Possiamo pensare che sia sufficiente potersi permettere un tetto, un pranzo, una cena e dei vestiti per poter ritenere soddisfatto questo standard? L’opinione di molti sociologi, economisti e giuslavoristi è che dentro una esistenza libera e dignitosa ci sia anche il potersi permettere determinate attività culturali e sociali: il cinema, il teatro, i libri, lo sport, i viaggi. Insomma, la possibilità di partecipare in modo attivo alle reti sociali.

La posizione dei sindacati: due su tre hanno cambiato idea

Il tema, quindi, è molto complesso, prima di tutto perché bisognerebbe stabilire il significato di alcune parole, e poi compiere il secondo passo, quindi quantificare il salario minimo. Bisogna sempre ricordare che in Italia abbiamo una solida tradizione di contratti nazionali, e questo è il motivo per cui i tre sindacati – CGIL, CISL e UIL – hanno per anni rifiutato l’idea di introdurre un salario minimo legale. Secondo loro, infatti, stabilire la soglia a livello legislativo avrebbe indebolito i sindacati, privandoli di una delle leve negoziali, e nel peggiore dei casi avrebbe favorito una fuga dai contratti collettivi da parte delle aziende che avrebbero preferito applicare semplicemente il salario minimo.

Ma si tratta di un timore eccessivo per diverse ragioni. Innanzitutto, i contratti collettivi restano uno strumento previsto dalla nostra Costituzione all’articolo 39; inoltre, il salario minimo proposto dalle opposizioni è stato presentato come una soglia minima per gli stessi contratti collettivi. Quindi, stabilendo una base di partenza, questo semmai rafforzerebbe i sindacati nelle trattative sui rinnovi contrattuali. Il salario minimo, quindi, sarebbe applicabile solo ai livelli più bassi dei contratti nazionali, mentre per tutti gli altri bisognerebbe stabilire comunque retribuzioni a salire in modo graduale.

Ecco perché, negli ultimi due anni, la CGIL e la UIL hanno cambiato orientamento e aderito alla proposta di Partito Democratico, Movimento Cinque Stelle, Alleanza Verdi e Sinistra e Azione. La CISL, invece, è rimasta fedele alla linea storica, anche in virtù della vicinanza con il governo Meloni. CGIL e UIL hanno modificato il tiro in quanto consapevoli che nell’ultimo decennio in Italia è cresciuto il fenomeno dei contratti pirata: accordi al ribasso firmati da sindacati non rappresentativi. Da una ricerca del centro studi ADAPT emerge che un lavoratore con un contratto non rappresentativo può guadagnare, in alcuni casi, diverse migliaia di euro in meno all’anno. Al CNEL, infatti, sono depositati oltre mille contratti; nel settore terziario ne abbiamo 250, ma solo 18 firmati da CGIL, CISL e UIL.

Attenzione però, perché negli ultimi anni anche i contratti rappresentativi sono stati, qualche volta, parte del problema: in alcuni settori il potere negoziale dei sindacati – anche dei maggiori – è ancora troppo debole, e le condizioni ottenute sono scarse. Un caso è stato la vigilanza, in cui fino a due anni fa lo stipendio minimo previsto per i livelli più bassi era addirittura sotto i 5 €. Dopo il commissariamento di alcune imprese di vigilanza da parte dei magistrati, l’accordo è stato rinnovato con aumenti che comunque mantengono basse le retribuzioni del settore, pur cresciute rispetto a quelle cifre indecenti. È uno dei vari motivi per i quali almeno due sindacati su tre hanno detto sì al salario minimo nazionale.

Ora però il patema è evitare che a diffondersi siano i salari minimi locali, e che questi ripropongano una nuova versione delle gabbie salariali. A dimostrazione che non esistono soluzioni semplici a problemi complessi.

 

 

 

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Photo credits: numismaticaeuromania.com

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