Matteo Saudino a Nobìlita 2025: il lavoro in quattro miti

Il professore e fondatore di BarbaSophia analizza i quattro capisaldi filosofici su cui si imperniano il passato e il presente del lavoro, dal disprezzo dell’età classica alla rivalsa della rivoluzione industriale, fino alle false promesse delle STEM

Matteo Saudino a Nobìlita 2025

Leggi la nostra intervista a Matteo Saudino sulla rivista “Miti e paure del lavoro“.

 

 

Quando Matteo Saudino sale sul palco il pubblico cambia. Negli occhi e nell’anagrafica: l’età media si abbassa di vent’anni, lo spazio si riempie di giovani che lo cercano e parlano tra loro, fino a che non lo vedono sedersi davanti al microfono. Professore di scuola superiore da più di vent’anni e titolare di BarbaSophia, è uno dei divulgatori più noti d’Italia, sui social e non solo. L’ambito è quello più attuale e inattuale di qualunque epoca, la filosofia.

Nell’edizione 2025 di Nobìlita, a Reggio Emilia, Saudino ha accettato di parlare di lavoro e dei miti che lo condizionano. Gli astanti sono circa centocinquanta; lo spazio che ospita l’evento è stracolmo, ma non vola una mosca. Annuiscono, scuotono la testa, si scambiano commenti per contrappuntare il suo discorso, che dura circa un’ora, senza interruzioni. Una disamina stretta e appuntita che esplora il lavoro dove fa male, nei luoghi da cui quel dolore proviene, compresi quelli di cui non ci siamo accorti – talvolta per secoli.

Ogni tanto scoppia un applauso, come una catarsi che scandisce i punti del discorso: i quattro miti del lavoro che ne hanno condizionato la storia e il presente.

Matteo Saudino apre il festival Nobìlita 2025, a Reggio Emilia
Matteo Saudino apre il festival Nobìlita 2025, a Reggio Emilia

Non lavorare rende felici

Il primo è il mito del non lavoro, del lavoro che va rigettato, perché lavorando non si può essere felici.

Nell’età classica il lavoro è appannaggio degli schiavi, considerati privi di capacità intellettuali. Nel mondo greco, in particolare, il lavoro fisico e materiale che produce delle merci, viene disprezzato da governanti e uomini di pensiero, come nel paradosso degli ateniesi, che pur amando i bei vasi disprezzavano le mani di chi li realizzava.

«Essere aristocratico significava non lavorare in senso fisico, per dedicarsi al governo, alla riflessione, alla cultura: in una parola, all’ozio» racconta Saudino, «concetto, questo, caro anche ai latini. In quell’ozio c’erano la letteratura, lo sport, il teatro; era contrapposto al lavoro».

Lo stesso cristianesimo ha in sé il rifiuto del lavoro. Leggendo la Bibbia, la fatica fisica è un elemento di dannazione: la condizione ottimale era quella di Adamo ed Eva, che potevano cogliere i frutti del paradiso terrestre, amarsi e vivere in armonia. Il loro peccato comporta l’obbligo a partorire di Eva e a lavorare di Adamo. Il lavoro è la conseguenza della caduta dall’Eden.

«L’esaltazione delle virtù cristiane prevede l’allontanamento dal lavoro fisico, che è distante dall’orizzonte del cristianesimo» prosegue il professore: il mondo cristiano esalta ancora un ozio, impiegato nella preghiera e nella purificazione dell’anima; ora et labora è un motto figlio di un lavoro comunitario, inevitabile, “nobilitato” dalla necessità. «Molti crociati erano nobili di seconda e terza generazione, che non avrebbero potuto accedere ai titoli dei loro avi (i primogeniti, che li avrebbero ereditati, davano le terre in concessione perché altri le lavorassero, N.d.R.), e che andavano in terre straniere per cercare ricchezza e redimersi da una condizione in cui erano costretti a combattere per sostenersi. La loro dedizione alla guerra era frutto della mancanza di lavoro».

Colombo incarna il medesimo desiderio: «Convinse i regnanti di Castiglia con la promessa dell’oro, che avrebbe trovato nelle Indie, e anche i suoi compagni di navigazione; ma che cos’è l’oro se non un mezzo per affrancarsi dal lavoro?». Così si arriva all’Eldorado e ai conquistadores di Cortez e Pizarro, quest’ultimo ossessionato dall’Eldorado, con i suoi uomini che si uccidono a vicenda nel corso della ricerca. È un mito alimentato in tutto e del tutto dagli uomini occidentali e dalla loro avarizia, indotta dal desiderio di liberarsi dalla necessità di faticare.

Va in senso diverso l’utopia ideata da Thomas More, con cui Saudino congeda il primo mito, che cinque secoli fa raccontava l’utopia di un’isola perfetta, in cui la giustizia è gestita socialmente e si lavora poco per lavorare tutti: sei ore, per dedicare il resto al riposo, alla famiglia, e poi all’ozio utile, cioè lo studio della matematica e dell’astronomia. Con buona pace di settimana corta e formazione continua.

Lavorarsi dio e il suo favore

Il secondo mito è il lavoro come successo, esaltazione del vivere – quello degli imprenditori che vivono per lavorare.

Nel sedicesimo secolo nel mondo tedesco e svizzero accadde qualcosa che ha cambiato per sempre il lavoro: si tratta dell’avvento del luteranesimo e del calvinismo. In queste nuove correnti cristiane, non esenti da motivazioni politiche, veniva esaltato il rapporto individuale tra uomo e dio, con la sottomissione totale e la necessità di dimostrarsi degno ai suoi occhi. L’uomo doveva lavorare per incarnare in Terra il favore divino.

Calvino, grande propugnatore dell’etica del lavoro, si spinse oltre: sosteneva che dio avesse già destinato ogni uomo alla beatitudine o alla dannazione, e che all’uomo non restava che cercare in vita i segni di ciò che dio aveva previsto per lui; segni che andavano cercati nel successo lavorativo: una famiglia numerosa, il lavoro e il denaro che ne deriva. Secondo Marx il calvinismo si diffuse in Svizzera, Germania e Francia meridionale perché in una società di economia protocapitalista come quella sviluppatasi in quei luoghi il cattolicesimo non era più adatto. Max Weber ne ha dato una definizione agli antipodi: per lui non è il capitalismo a generare il calvinismo, ma il contrario.

«Weber non ha torto» commenta il professore. «Quegli stessi calvinisti, cacciati dagli ugonotti e dai rivolgimenti della chiesa anglicana, colonizzarono l’America con la Bibbia sotto il braccio, e diedero il via al principale centro di diffusione del capitalismo mondiale».

Il capitalismo quindi esalta l’ideologia dell’uomo che si fa da sé. «Il problema finale di questo mito» chiosa Saudino, «è che, dopo aver passato una vita a lavorare, della vita si perde il senso».

Come muore un mito: la coscienza di classe

Il terzo mito è il lavoro come emancipazione, come lotta collettiva.

La rivoluzione industriale portò milioni di persone a lavorare tutte insieme, entrando in fabbrica al mattino e uscendo la sera: si diceva che un operaio di Manchester non vedesse mai il sole.

«Erano condizioni di lavoro pessime, violentissime, che portano l’idea che tutti insieme ce ne si possa liberare, perché il lavoro è sfruttato, e i grandi imprenditori lo utilizzano per accumulare capitale.»

Lì nacque la coscienza di classe. Le donne cominciarono a uscire dalle famiglie e dal lavoro a cottimo; l’emancipazione ebbe inizio allora, dalle donne operaie, che a breve avrebbero incontrato le suffragette – donne colte, istruite, con gli strumenti per criticare il potere maschile. La condizione di lavoro delle donne in fabbrica, infatti, era terrificante, e spesso peggiore di quella dei maschi.

«La solidarietà oggi è morta e sepolta» prosegue Saudino. «Non empatizziamo con i lavoratori che sulle navi da crociera tagliano frutta per dodici ore al giorno, non tolleriamo il corriere Amazon che arriva con un po’ di ritardo. L’idea che lavorando insieme si potessero migliorare le condizioni di tutti è scomparsa, e siamo tendenzialmente in competizione con gli altri lavoratori, spesso poveri come noi; eppure era un mito potente, sostenuto da migliaia di filosofi e intellettuali». Anche i miti, in altre parole, possono morire, a prescindere dalla loro forza originaria.

«Oggi registi e sceneggiatori, in America, stanno portando avanti battaglie per i loro diritti, mentre in Italia siamo così arretrati da pensare che Elio Germano sia uno snob che parla per se stesso, quando dà voce agli stessi temi. Un film Marvel è realizzato da migliaia di persone, ma la maggior parte del denaro finisce nelle tasche dei grandi produttori; il lavoro è sociale, ma il profitto è privato. Perché?»

Il mito del lavoro come lotta è del tutto finito, insomma? Secondo Saudino, sì: «Intorno a noi non c’è una primavera, ma il grande gelo che avvolge le macerie del lavoro sociale».

Il (falso) mito delle STEM

Il quarto mito: il lavoro tecnologico-digitale che fa guadagnare molto e avere tanto tempo libero.

Lo smartphone è l’ultimo grande salto tecnologico dopo l’aratro, il vapore, il motore a scoppio, l’elettricità; di recente è arrivata l’IA. Fino a pochi anni fa si raccomandava ai giovani di studiare le lingue e le materie STEM, perché il futuro era lì, e lì stavano il profitto e i salari più alti, con tanto tempo libero per gli eletti che potevano accedere a quei mestieri di alto livello. Molti dirigenti sindacali all’inizio degli anni Novanta la videro anche come un’opportunità per liberarsi dall’alienazione lavorativa.

«Questo mito è propugnato ancora oggi, sia da quelli bravi che dai fuffa guru che vivono a Dubai. Ecco: la tecnologia non libera il tempo. Non ci sono più ragazzi che escono dalla quinta superiore e pensano che studiando ingegneria, informatica e matematica avranno un lavoro ben pagato e un futuro assicurato: ormai sanno che cosa li aspetta. La laurea non basta

E per chi un mestiere lo trova? Il lavoro odierno è un mito in cui la maggior parte delle persone ha poco tempo, si vive per lavorare, ma non per fare soldi, bensì per arrivare a fine mese. Anche se talvolta questo mondo viene raccontato in modo diverso.

«Un espediente tipicamente americano è prendere una persona su un milione che ce l’ha fatta e usarla come modello, ma è dannosissimo e frustrante, perché tutti gli altri non ce la faranno, e si incolperanno di non esserci riusciti». In questo, prosegue Saudino, si vede una voragine in cui avrebbe dovuto inserirsi la politica, per governare questi cambiamenti – come per esempio l’IA. Non si pone, la politica, il problema della governance dell’intelligenza artificiale. Se l’avvento dell’IA facesse guadagnarci tutti di meno, ma automatizzasse la sanità e la rendesse accessibile a tutti, non accetteremmo il compromesso? «Invece viene utilizzata per sterminare palestinesi: siamo in una cornice di dominio economico. Leonardo sta facendo pressioni nelle università per spingere la ricerca a stringere accordi con Israele; chi rifiuta questo sistema rischia di non fare carriera. La politica, purtroppo, è al servizio di queste lobby. Non c’è un partito che ne sia immune».

In conclusione: le persone più anziane non vedono l’ora di uscire dal mondo del lavoro. I giovani, invece, non hanno alcun modello per entrarci, nessun obiettivo. Non hanno più nessun mito correlato al lavoro.

«Abbiamo bisogno di mettere il lavoro al centro della dimensione politica e culturale. Per farlo, però, abbiamo bisogno di parlarci e stare insieme, perché non possiamo riuscirci stando fermi nelle nostre case. Lo status quo si nutre della rassegnazione delle persone, e se noi pensiamo che la storia non sia un terreno di protagonismo anche delle masse popolari, la stiamo consegnando a pochi deus ex machina, i Bill Gates, i Trump, gli Xi Jinping. E questo non possiamo permetterlo. Essere qui, adesso, è un atto politico

 

 

 

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Foto di Domenico Grossi

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