26 Comuni su 50 senza assessori al Lavoro: meglio la Gentilezza

Chi ha detto che la politica locale non ha margine per intervenire sul lavoro nei territori? Analizziamo gli alibi che molti Comuni impiegano per non occuparsi dei lavoratori e, al contrario, la casistica di alcuni casi virtuosi, come Firenze, Livorno e Napoli

28.01.2025
Comuni e Lavoro: un sindaco guarda altrove in una riunione dell'ANCI

Se consideriamo solo i cinquanta Comuni più popolosi d’Italia, ben ventisei di questi non hanno un assessore alle Politiche del lavoro. Più di metà delle prime cinquanta città del nostro Paese, in pratica, è sprovvista di un delegato in giunta che si occupi del tema; al massimo, alcune di esse hanno distribuito deleghe specifiche alla sicurezza sui luoghi di lavoro o ai rapporti con le organizzazioni sindacali, ma non una che affronti il lavoro a 360 gradi.

Potrebbe sembrare una questione molto formale, ma assume maggiore sostanza se si pensa a quanto poche siano le politiche del lavoro sviluppate a livello locale nei nostri Comuni, anche in quelli che hanno previsto un assessorato preposto. È il risultato di vari fattori: le scarse competenze in materia a livello comunale, le ancora più scarse idee delle classi politiche locali, e la convinzione per cui la creazione e la protezione del lavoro non siano ritenute prioritarie dalle comunità.

L’impatto dei Comuni sul lavoro: il salario minimo negli appalti

Negli ultimi mesi abbiamo assistito a una positiva eccezione: decine di Comuni in tutta Italia, a partire da Livorno e Firenze, hanno approvato delibere che istituiscono il salario minimo negli appalti comunali.

Che significa? Significa che chiederanno a tutte le imprese interessate a partecipare alle gare di assicurare un trattamento minimo da almeno nove euro lordi l’ora ai lavoratori impegnati in quelle opere. Gli addetti alle pulizie dei locali pubblici, alla vigilanza, il personale delle cooperative che gestiscono le biblioteche o i musei comunali: tutte queste persone dovranno vedersi riconosciuto il salario non inferiore a nove euro. Si tratta di un’iniziativa assunta perlopiù da amministrazioni di centrosinistra, che in questo modo hanno innanzitutto lanciato un segnale politico al governo Meloni. La maggioranza di centrodestra che guida il Paese, infatti, non ha alcuna intenzione di introdurre il salario minimo per legge, come invece richiesto dalle opposizioni.

Tuttavia, il salario minimo negli appalti vuole essere anche un atto amministrativo con conseguenze pratiche. E su questo è partito negli ultimi mesi un dibattito tra i tecnici in merito alla legittimità di queste delibere, in quanto la competenza di regolamentare la materia dei rapporti di lavoro appartiene, secondo la Costituzione, al Parlamento.

I professori Marco Barbieri e Roberto Voza, giuslavoristi dell’Università di Bari, hanno in diversi interventi ritenuto pienamente legittimi – oltre che condivisibili nei contenuti – questi provvedimenti. In sintesi, il ragionamento dei due docenti è questo: i Comuni non stanno regolamentando la materia generale del rapporti di lavoro; stanno solo inserendo una condizione per la partecipazione agli appalti comunali. Una condizione tecnica, quindi, e legittima, in quanto tesa a garantire un diritto costituzionale quale quello al giusto salario.

Opposta è la valutazione di professori e ricercatori del centro studi Adapt. In un intervento sul bollettino dell’associazione, il professor Michele Tiraboschi e il ricercatore Giovanni Piglialarmi scrivono che “queste delibere difettano di un fondamento giuridico posto che la legge non conferisce alcun potere agli organi amministrativi locali di stabilire trattamenti economici e normativi diversi da quelli previsti dall’articolo 11 del Codice degli appalti pubblici”. Che cosa dice questa norma? Che le imprese devono applicare i contratti firmati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative. Insomma, secondo l’Adapt l’unico obbligo che si deve imporre alle aziende è quello derivante dal Codice degli appalti, quindi quello di rispettare gli accordi di categoria rappresentativi; sarebbe invece illegittimo inserire un’ulteriore condizione quale, appunto, quella di un salario minimo orario, a prescindere da quanto previsto da quegli accordi.

Nei prossimi mesi, qualora alcune di queste delibere dovessero essere impugnate, vedremo quali orientamenti adotteranno i giudici. Comunque vada a finire, questo movimento di città può essere considerato come una positiva eccezione all’inerzia che in genere si riscontra sulle politiche del lavoro da parte dei nostri Comuni.

Deleghe al Coworking e lotta al lavoro irregolare: anche la politica locale può agire sul lavoro

Se buona parte dei sindaci italiani non ha ritenuto di dover delegare un componente della giunta alle politiche del lavoro, al contrario quasi tutti i Comuni hanno un assessorato alle Attività produttive. Molti di loro considerano l’argomento del lavoro inglobato in questo. Anche qui, la forma diventa sostanza: per settori produttivi generalmente ci si riferisce alle aziende, e infatti quasi sempre gli assessorati preposti si rivolgono al mondo imprenditoriale, occupandosi di servizi a esso dedicati, come per esempio la progettazione urbanistica delle aree produttive. Difficilmente si occupano di questioni dal lato di chi lavora.

Volendo invece citare un esempio che potremmo definire virtuoso, abbiamo il Comune di Livorno, che ha sia un assessore alle Politiche del lavoro, sia un assessore con delega al Coworking. È probabile che non sia una casualità, ma il frutto di questa attenzione, che Livorno abbia inaugurato la stagione delle delibere sugli appalti comunali. Aver poi individuato il coworking tra le materie della giunta suggerisce un’importante riflessione: se anche il Comune non ha competenze in materia strettamente tecnica sulla regolamentazione dei rapporti di lavoro, può comunque promuovere politiche del lavoro in senso più ampio, per esempio creando spazi di coworking per chi lavora da remoto; questo ricade senza dubbio nelle materie comunali.

Altri Comuni, come Napoli, hanno negli scorsi anni sperimentato azioni congiunte con gli enti preposti alla lotta al lavoro irregolare: il capoluogo campano ha infatti sottoscritto un protocollo di intesa con l’Ispettorato del lavoro al fine di non concedere il suolo pubblico alle imprese con sanzioni da parte degli ispettori.

Insomma, a prescindere dal fatto che si possano condividere o non condividere i contenuti dei provvedimenti, una serie di casi dimostrano che non è tanto la carenza di competenze, ma quella di idee e visioni, a bloccare oggi i Comuni dal portare avanti misure sul lavoro.

La Gentilezza non salverà il Lavoro

C’è però poi un’altra difficoltà oggettiva: la ricerca economica, statistica e sociologica sui territori è molto scarsa. Basti pensare a quanto rare siano le rilevazioni dell’ISTAT a livello comunale. A marzo di quest’anno, per esempio, l’istituto di statistica nazionale ha diffuso i dati “A misura di Comune”, nei quali erano presenti i tassi di occupazione, disoccupazione e inattività di tutti gli ottomila Comuni italiani, oltre che una serie di altri indicatori sul precariato e sul divario di genere. Una miniera d’oro: peccato che questo report, diffuso nella primavera del 2024, sia aggiornato solo all’anno 2021. Insomma, quei dati raccontano una situazione di tre anni prima rispetto alla loro pubblicazione.

I dati nazionali sul lavoro, invece, vengono diffusi ogni mese e fotografano la situazione dei mesi precedenti: per esempio, a inizio febbraio 2025 escono i dati su dicembre 2024. Questo permette al Governo di monitorare quasi in tempo reale gli effetti delle sue misure sul mercato del lavoro. Che cosa può farsene, invece, un Comune dei dati di tre anni prima? Poco più di un diletto per appassionati di statistica.

Ma questa assenza di dati finisce per fornire l’ennesimo alibi alle classi politiche locali: perché mai proporre politiche del lavoro se non ci sono gli strumenti per misurarne gli impatti? Per la verità, anche questo problema potrebbe essere aggirato: i Comuni stessi potrebbero prevedere rilevazioni sui loro territori, per esempio usando alcuni indicatori che già sono presenti nei loro database amministrativi. Qualche esempio: il gettito dell’addizionale comunale IRPEF – che è una imposta sul reddito da lavoro – o il numero di utenti dei servizi sociali che lamenta disagi a livello lavorativo, entrambi dati utili a studiare il mercato del lavoro nel territorio.

In conclusione: la politica locale appare poco attenta al tema del lavoro sul territorio. Questo è vero nel metodo, e lo dimostra il fatto che molti Comuni non nominino assessori al Lavoro, e ancora di più nel contenuto, visti gli scarsi provvedimenti adottati sul tema, quasi mai sistematizzati. Tuttavia, se vogliamo, c’è anche un’aggravante: finora nessuno, a partire dai sindacati, ha preteso la presenza di un assessorato al Lavoro in ogni Comune d’Italia. Al contrario, da circa sei anni esiste in Italia un movimento che promuove la nascita degli assessorati alla Gentilezza.

 

 

 

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Photo credits: anci.it

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