Olivetti e l’Italia dei fastidi

“Andiamo, andiamo lì al balcone di Villa Casana che la vista dall’alto la può aiutare a capire meglio chi era Adriano Olivetti. Io lo chiamavo il balcone del “padrone delle ferriere” perché da qui ci si poteva affacciare e dominare tutte le fabbriche, ma Adriano certamente non è mai stato un padrone delle ferriere. Li […]

“Andiamo, andiamo lì al balcone di Villa Casana che la vista dall’alto la può aiutare a capire meglio chi era Adriano Olivetti. Io lo chiamavo il balcone del “padrone delle ferriere” perché da qui ci si poteva affacciare e dominare tutte le fabbriche, ma Adriano certamente non è mai stato un padrone delle ferriere. Li vede? Sono tutti edifici pensati da lui, originali, pieni anni ’50. Quello di fronte a noi è uno dei famosi centri di ricerca, ora in ristrutturazione. Sono la testimonianza più pura dell’architettura olivettiana, così come la caratteristica degli uffici fatti tutti a vetrate perché era profondamente convinto che chi lavorava potesse guardare all’esterno. Ora quell’edificio è la sede di Vodafone, ci sono circa tremila persone”.

Tutta questa spinta di Olivetti verso l’architettura avrà avuto una ragione.

“Per Adriano l’architettura della fabbrica e della città era l’ambiente in cui le persone potevano vivere, operare, incontrarsi e conoscersi, insomma esprimere se stesse. Ma deve dominare la bellezza perché il bello aiuta a fare meglio e vivere megliio. Anche la maggior parte degli edifici dei dipendenti era stato progettato dall’Ufficio tecnico della Olivetti. Guardi, là c’è il complesso che veniva chiamato Talponia perché le case stavano sotto il livello della strada, impatto zero da fuori”.

Siamo appena entrati nel viale che arriva alla villa, sede dell’Archivio Storico Olivetti. Una villa di nobili piemontesi che nel ’50 Olivetti comprò per farci il suo ufficio di presidenza. “Era nato a Ivrea ma la sua famiglia veniva da Biella, una famiglia ebraica e una mamma valdese; l’aspetto curioso è che lui, a un certo punto della sua vita, si convertì fortemente al cattolicesimo”. Mentre attraversiamo il parco, Bruno Lamborghini mi racconta quanto la presidenza dell’Archivio per 15 anni lo abbia fatto sudare per la manutenzione della villa e del verde. “Del resto le cose belle hanno bisogno di più cure. Villa Casana venne dedicata all’Archivio Olivetti a metà degli anni ’80. ma fu nel ’97 che, da membro del CdA della Olivetti, proposi di costituire qui un’associazione che potesse autosostenersi. Da quel momento non l’ho più lasciata per 15 anni. Alla Associazione parteciparono la Compagnia di San Paolo, la Provincia di Torino, il Comune di Ivrea, il Politecnico di Torino e soprattutto la Fondazione Adriano Olivetti guidata dalla figlia di Adriano, Laura”.

Ma fino a quel momento non c’era stata attenzione verso questo progetto?

“Diciamo di sì in particolare nella seconda metà degli anni ’80 da parte della Presidenza di Carlo De Benedetti, però nel ’96-’97 la situazione aziendale ha avuto un netto peggioramento. Questo archivio nasce da lì, oggi lo sostiene Olivetti-TIM, che ne trae di certo anche un beneficio di immagine. Il Presidente dell’Associazione è il capo delle relazioni esterne di Olivetti, Gaetano Di Tondo che, oltre a valorizzare l’Archivio  internamente, ci organizza anche eventi e appuntamenti culturali che attraggono pubblico”.

Prima di arrivare, giriamo un po’ per Ivrea a bordo della sua utilitaria celeste, ho sempre misurato la grandezza delle persone anche dal valore relativo che danno alle cose. Ha insistito per venirmi a prendere di persona in stazione, uno di quei galantuomini che ti aprono ancora la portiera.“Nel ’99 ci fu l’operazione per acquistare Telecom, io ero nel Consiglio di Amministrazione, poi le cose si sono invertite e l’ultima Olivetti, quella in cui ho fatto poi da Presidente, è diventata lei stessa parte di Telecom. Certo la Olivetti continua ad esistere come media azienda ed è parte innovativa di TIM. Forse Adriano Olivetti non avrebbe voluto creare un archivio storico aziendale perché era rivolto a progettare il futuro, non pensava mai troppo al passato”.

Mi dice subito che la strada sotto di noi si chiama Via Jervis ed è lì che ancora oggi restano le tracce di una grande storia industriale che dagli anni ’50 ha visto l’impronta di Adriano Olivetti, la sua storia, valori ed eredità purtroppo in parte tradite. Willi Jervis era il nome di un ingegnere olivettiano, cristiano valdese e fortemente antinazista, che nell’agosto del ’44 venne fucilato dai nazisti e trovato con una bibbia accanto sul cui retro lasciò un ultimo messaggio d’amore scritto con la punta di uno spillo.

Bruno Lamborghini ha passato tanti anni dentro la storia industriale dell’Italia e del mondo – mosca bianca tra manager spesso ignavi – che mi vergogno un po’ a strizzarlo dentro i titoli. Per decenni dentro il Gruppo Olivetti da chief economist, manager e amministratore, cofondatore e Presidente dal 1998 al 2013 dell’Associazione Archivio Storico Olivetti, Fondatore e Presidente dell’EITO (European Information Technology Observatory) a Francoforte-Berlino, a lungo Presidente di AICA (Associazione italiana per l’informatica e il calcolo automatico), docente di tecnologie informatiche e di economia aziendale all’Università Cattolica di Milano dal 1993, Presidente del BIAC (Business Industry Advisory Council) dell’OCSE a Parigi e di Eurobit a Francoforte, pedina cruciale a Bruxelles per conto della Olivetti presso la Commissione Europea dove ha collaborato negli anni ’90 alla redazione del Rapporto Bangemann sulla Società dell’Informazione in Europa. Di questi tempi mi piace raccontarlo soprattutto come economista industriale che continua ancora oggi a occuparsi di innovazione e organizzazione d’impresa sempre con un interesse puro verso l’evoluzione dell’ICT e dell’economia digitale. La sua spinta verso i valori olivettiani dell’impresa responsabile è ancora fortissima.

“Io Adriano purtroppo non l’ho potuto conoscere, sono entrato in Olivetti negli anni ’60 ma ho vissuto in pieno tutta la sua eredità, la storia, ciò che ha lasciato. L’ho seguita anche da amministratore fino al 2010 in tutta la parabola che poi ha portato a  Telecom. Lì vede anche una sede dell’Università, lì ancora altri uffici e laggiù in fondo, se guarda bene, c’è un edificio che dà sul blu: ecco, lì sono nati i progetti più belli della Olivetti. Quella Casa Blu a breve tornerà ad essere la sede dell’ultima Olivetti, per fortuna c’è ancora molto fermento in questa parte di Ivrea anche perché non c’è cosa più triste delle fabbriche vuote e dei capannoni abbandonati. Oggi Olivetti conta circa 500 persone ed è un braccio operativo di Tim, certamente non sono i 70mila dipendenti in giro per il mondo che si contavano nel suo massimo, negli anni ’70. Ivrea era una città che già a quel tempo faceva 25mila abitanti ma chi lavorava in Olivetti veniva anche da fuori, come me che venivo da Bologna.

Il suo cognome in effetti la tradisce.

Mio padre era un cugino di Ferruccio Lamborghini e purtroppo ci ha lasciato troppo presto. Contribuì con Ferruccio negli anni ’50 a fabbricare  i primi trattori, le auto sono arrivate dopo quando mio padre non c’era già più. Ferruccio, me lo ricordo anche se ero un bambino, era un uomo pieno di idee, un genio dei motori. I soldi li ha fatti coi trattori, mai con le auto. Per fortuna poi è arrivata Audi-Volkswagen che ha rivitalizzato l’azienda. Come economista, sono sempre favorevole a certe operazioni quando dall’estero non vengono a comprare solo un marchio ma a valorizzare un marchio. Al contrario, ci sono tanti  imprenditori italiani che vanno a delocalizzare all’estero. In realtà, non bisogna concentrarsi sul costo del lavoro ma dare un senso alle competenze; come sanno fare in Emilia. L’Italia è piena di competenze che stiamo rischiando di perdere e non sappiamo formarne di nuove.

Olivetti madre come Fiat?

Qui tutti ci lavoravano, non c’era famiglia che non avesse almeno una persona dentro la Olivetti e non mi riferisco solo a gente di Ivrea ma dell’intero Canavese. Sulla grande crisi di Olivetti del ’96 molti attribuiscono la colpa a Carlo De Benedetti: io ho lavorato davvero a lungo con lui e non posso non riconoscergli di essere stato un uomo di industria oltreché sul piano finanziario così come gli attribuisco di aver fatto errori. Però negli anni ’90 si trattò soprattutto di una crisi generale dell’informatica, la stessa IBM ci cadde dentro anche se poi si è ripresa. La tecnologia informatica prima e il digitale poi sono stati e sono tuttora una vera rivoluzione a cui noi italiani non siamo  preparati. Io mi sono occupato a lungo di Internet e della rivoluzione della telefonia cellulare sin dai primi anni ’90 e a volte mi fa sorridere il fatto che giro ancora l’Italia per parlare di tutto questo alle imprese e alle business school. L’Italia è indietro perché la scuola non ha capito il peso di questa trasformazione e continuiamo a pagarne le conseguenze. Non parliamo delle Università, ho insegnato a lungo in Cattolica a Milano cercando con fatica di avvicinare scuola e lavoro. Con gli allievi e collaboratori ogni anno scrivevamo un libro che ci pubblicava Franco Angeli che tra l’altro è stato il mio primo datore di lavoro quando negli anni ’60, appena laureato, andai a Milano per fare il giornalista e mi affidarono la redazione di un paio di riviste su vendita, marketing e pubblicità.

Quindi ha fatto anche il giornalista prima di stare per una vita dentro le aziende.

Franco Angeli mi insegnò un mestiere che è la scrittura e non l’ho più lasciato, con loro imparai tutto. Mi mandavano in aereo a Roma a fare interviste a presidenti e amministratori delegati, partivo con la mia macchina fotografica e quando tornavo in sede facevamo i cliché delle immagini, mi sporcavo le mani, mi insegnarono a raccontare storie. Una volta mi spedirono a Genova per una settimana a capire come venivano posizionati nei negozi i prodotti della Zuegg e ci passai giorni dalla mattina alla sera. Oggi il giornalismo è un copia incolla quando va bene, che peccato.

Come è arrivato in Olivetti?

Avevo fatto un paio di colloqui in Fiat, ma non mi ispirava proprio. Avevo conosciuto la mia futura moglie in Francia, a Grenoble; lei era di Torino. Quando ricevetti un’offerta da Olivetti invece non esitai a scegliere quella strada.

Quindi nel pieno del boom della Fiat, lei rifiutò l’offerta.

Non c’era confronto tra le due realtà, erano imparagonabili sotto ogni punto di vista. Fu così ancora per molti anni dopo la morte di Olivetti, avvenuta improvvisamente nel 1960 durante il periodo del carnevale di Ivrea, la città interruppe le celebrazioni e la notizia lasciò di ghiaccio tutta la popolazione. Era in treno in Svizzera quando un infarto spezzò una parabola intera non solo personale ma, secondo me, nazionale e forse internazionale per quanta spinta c’era nei suoi progetti rivoluzionari.

Cosa accadde davvero dopo la sua morte?

L’erede fu il figlio Roberto, una ottima persona, aperta all’innovazione tecnologica, ma certo molto diverso dal padre. A quel punto entrò in scena il regista dell’Italia di qugli anni, cioè il banchiere Cuccia che con la sua Mediobanca decise di prendere il controllo della situazione nominando un gruppo di intervento in cui dominavano lui e Valletta, Mediobanca da un lato e Fiat dall’altra. Cuccia mise alla Presdienza Bruno Visentini, un grande fiscalista, poi ministro, che però conosceva poco la gestione di un’impresa industriale come quella. Iniziò lì la parabola di Olivetti in mano ad azionisti e manager che guardavano ai numeri e poco alle persone, una Olivetti che iniziò a cedere a pressioni esterne, a cedere agli americani la divisione elettronica e il grande computer italiano, Elea 9003. Non solo gli americani vedevano come fumo negli occhi questa azienda – una Olivetti dava  fastidio alla IBM oltreoceano – ma ancor più la Fiat che a meno di cinquanta chilometri gestiva la cultura del lavoro e delle persone in maniera totalmente diversa. Non si racconta mai abbastanza quanto la Fiat spinse per affossare la Olivetti.

Fiat e Olivetti, gabbia e libertà.

Proprio così: libertà è la parola che definisce la filosofia imprenditoriale di Adriano. Se guardo oggi il mio curriculum appare evidente che, se da un lato ho ricoperto così tanti ruoli aziendali, di fatto ho anche potuto svolgere contemporaneamente molte attività esterne in Italia e all’estero: questa è libertà. La Fiat è stata sempre una organizzazione gerarchica di tipo militare, un posto di lavoro fatto di esecuzione e controllo. Non se ne stupisca troppo che sia diventato un modello per i torinesi che fondamentalmente si ritrovavano a proprio agio dentro una gestione come quella, l’appartenere a un ente che poteva guidarli e non doversi sforzare di esprimere se stessi.

Ivrea è stata capace di trattenere uno spirito tanto alto?

In linea di principio direi di sì perché lo sforzo grande di Adriano è stato far capire alle persone quanto loro stesse fossero centrali non solo in fabbrica ma anche nel territorio, nei propri paesi e nelle proprie radici. Se lei facesse un giro nei paesi qui intorno scoprirebbe che esistono ovunque Biblioteche olivettiane. La biblioteca era per lui fabbrica della cultura e veniva prima della fabbrica del prodotto. Una settimana prima di morire, in un’intervista per la Rai, Olivetti accompagnò il giornalista a vedere la biblioteca di fabbrica in Via Jervis di fronte alla fabbrica dicendogli che senza quel luogo non ci sarebbe stata alcuna produzione. Le persone erano protagoniste in quella che lui chiamava la comunità concreta. E questo spirito lo si può ancora ritrovare.

Come operava Adriano Olivetti?

Adriano assumeva direttamente le persone, ci parlava, le ascoltava, le faceva alzare per vedere la postura, studiava la loro grafia. Di contro aveva un carattere introverso e timido. Di recente è uscito un libro di Furio Colombo, bellissimo, che racconta la sua vita e il suo modo di fare, si erano a lungo conosciuti. Una volta lo convocò qui a Ivrea alle 6 di mattina, si immagini lo spaesamento iniziale di un giornalista romano. Quando gli chiese a che ora si alzasse, Adriano rispose “quattro, quattro e mezzo”. “E cosa fa fino a che la città e la fabbrica non si mette in moto?”. “Penso e progetto”. La sua ricerca continua era il dopo, il poter evolvere, il rendere possibile un’idea. Era un utopista vero, puro, concreto, necessario all’Italia.

Che rapporto aveva Olivetti coi suoi dipendenti?

Massimo rispetto e massima libertà nel fare le cose. Non so se conosce il famoso caso di Cappellaro, un operaio semplice che un giorno fu fermato dalle guardie all’uscita con un borsone pieno di pezzi di ferro. Lo incolparono di aver rubato pezzi dalla produzione e all’ufficio del personale decisero che in quei casi non ci fosse altra via che il licenziamento. Quando ne parlarono con Adriano lui volle subito conoscerlo e quando chiese a Cappellaro perché avesse quel borsone pieno, gli rispose che a casa ci passava notti intere a progettare e realizzare un oggetto innovativo per l’azienda. Olivetti lo fece prima capo reparto e poi direttore tecnico. Fu una vera fortuna perché Cappellaro avrebbe dato vita alla famosa Divisumma, la prima macchina calcolatrice scrivente nel mondo: utili pazzeschi con un margine lordo dell’85% perché di fatto era ferro trasformato in idea.

Solitamente si dice siano state la meccanica e l’elettronica a spaccare la Olivetti.

Adriano come suo padre Camillo operava nella meccanica ma credeva nell’elettronica. Pochi sanno che aveva investito in un piccolo laboratorio in America e poi a Pisa. Tutto è nato a Pisa dove alla fine degli anni ’40 si stava lavorando alla calcolatrice elettronica pisana, la famosa Cep che ancora oggi, ogni tanto, viene ricordata. Capì subito che in quel campo c’era del futuro, comprò una villa vicino Pisa e ci mise dentro un team di tecnici e ingegneri per lavorare ad un  progetto che fu trasferito non ad Ivrea ma in Lombardia, a Borgo Lombardo. Ebbe l’intelligenza di capire che meccanica e elettronica si sarebbero congiunte anche se gli ingegneri meccanici di Ivrea guardavano con immensa diffidenza a tutto quanto fosse diverso da loro. Nel ’64  la Dvisione elettronica fu ceduta e Pier Giorgio Perotto, ingegnere informatico, che venne a Ivrea per far nascere quella che diventò la Programma 101 (ndr, la cosidetta Perottina dal nome del suo inventore), il primo desktop computer famoso in tutto il mondo. Dopo la morte di Adriano si rivelò dentro alla fabbrica tutta la resistenza dei meccanici verso l’elettronica ma fu lo stesso Capellaro, inventore appunto della Divisammo meccanica, a capire che il futuro sarebbe stato elettronico.

Non resisto. Più la ascolto più ho nelle orecchie tutte le volte in cui Università e business school si riempiono la bocca parlando di Olivetti pur non incarnando nulla del suo pensiero e del suo agire.

Non lo dica a me. Le Università sono spesso la dimostrazione dello scollamento tra conoscenza e mondo del lavoro. Quando mi invitano a parlare, ricordo sempre che in prospettiva le Università rischiano di non avere più clienti non soltanto perché la demografia crolla ma perché il loro essere lontani dalla realtà non può che allontanare i giovani. Ci sono docenti che non hanno mai visto un’impresa e parlano di management, ecco cos’è oggi l’Italia di tante università, per fortuna ve ne sono altre diverse. In Cattolica, da docente proveniente dall’industria, ho avuto l’opportunità di seguire un centinaio di tesi; i colleghi dicevano agli studenti “andate da Lamborghini” per togliersi il peso di dover seguire ricerche collegate al mondo del lavoro. Ero visto come un marziano. Anche le varie Confindustrie sono spesso fuori dal mondo delle imprese e in particolare fuori dal mondo internazionale.

Cosa è successo davvero con l’arrivo di De Benedetti?

L’arrivo di De Benedetti in Olivetti nel 1978 è stato la salvezza di Olivetti che stava fallendo e lui è stato il leader di Olivetti almeno fino alla fine degli anni ’80. Nonostante questo, De Benedetti non è stato amato a Ivrea perché non era Adriano Olivetti. De Benedetti non si sentiva Adriano Olivetti. Si vedeva completamente diverso da lui, io ho viaggiato tanto con lui perché avevo l’ufficio a Bruxelles, mi occupavo dei rapporti con la Comunità Europea e avevo anche la presidenza dell’eurobet (Federazione delle associazioni industriali dell’ICT) a Francoforte e in più collaboravo con lui nella European Round table of Industrialists di Parigi. Insieme abbiamo collaborato volentieri perché riconosceva quanto facevo. Ha grande capacità di analisi delle aziende e dei bilanci. Spesso è stato giudicato male per gli errori commessi talvolta anche nei confronti di alcune persone.

Ricordo che qualche anno fa mi chiese “Cosa pensano di me a Ivrea, in azienda, in fabbrica?”.

Io provai a rispondere così. “Ha presente le medaglie? Hanno due facce: una è la faccia buona che per lei inizia nel 1978 e sembra concludersi nel 1987 dopo il suo ritorno da Bruxelles, dopo aver perso con la Societè de Belgique la conquista dell’Europa e dopo la fine dell’accordo con ATT in cui decise di non vendere Olivetti agli americani” Questa è una decisione poco nota all’Italia ma che onora De Benedetti rispetto ad altri imprenditori italiani. “Poi c’è l’altra faccia, quella negativa, che si conclude col terribile 1996 e con l’entrata di Colaninno e l’opinione corrente che De Benedetti abbia fatto finire Olivetti”. Lui a quel punto mi chiese: “Come posso fare a raccontare almeno la parte bella di tutto ciò che ho fatto?”. Gli risposi di far scrivere un libro. Nacque da lì il bel lavoro di Paolo Bricco, La Olivetti dell’Ingegnere che racconta la storia in base a tutta la documentazione privata che De Benedetti gli ha messo a disposizione con grande apertura e senza condizioni, cosa che tanti altri imprenditori non avrebbero mai fatto. Il libro ha avuto grande successo e pensi che è stato venduto persino a Torino, città Fiat.

Quale fu allora il vero limite della Olivetti?

Il problema della storia di Olivetti è un problema di leadership, come tante altre aziende. Dopo la morte di Adriano, vero leader, non ce ne furono più: arrivarono solo azionisti e manager. Quando arrivò De Benedetti, lui aveva tutte le carte per esserlo e infatti glielo riconobbero da subito ma la leadership è una dote delicata e quando viene a ridursi e a perdersi per mille fattori naturali, interni o esterni, si finisce per perdere la stima degli altri e anche di se stessi col grande rischio di fare errori. È in quelle fasi che certi leader arrivano ai continui cambi di management e alla ricerca disperata di soluzioni. Poi come ho detto, c’è stata la grande rivoluzione digitale che ha distrutto tante aziende, si pensi a Kodak, alle TV, all’editoria, alle telecomunicazioni. Nell’informatica sono pochi i sopravissuti, in Europa di fatto nessuno. Nel momento più difficile, il 1996,  arrivò prima Caio e poi Colaninno, manager del gruppo De Benedetti. Su richiesta dell’Ingegnere entrai nel CdA Olivetti dopo aver partecipato ai CdA di Omnitel e Infostrada, la nuova via delle telecomunicazioni. Nel 1997 la situazione era davvero difficile, c’era il rischio di non avere più fidi. Si iniziò a cedere i computer e poi i sistemi informativi perchél’attività delle reti di telecomunicazione, soprattutto dei cellulari, non portava ancora risultati. Nel ’99 venne decisa l’operazione Telecom, in parte a debito. L’unica attività industriale era Olivetti Lexicon di cui divenni presidente, poi Olivetti Tecnost e successivamente con il nome di Olivetti controllata da Telecom Italia. Nel 2001 gli imprenditori che avevano investito in Olivetti (i cosidetti bresciani), insieme a Colaninno decisero di cedere Olivetti, che possedeva Telecom, alla Pirelli di Tronchetti Provera. Nel 2003 il titolo di Olivetti esce dalla borsa e resta solo Telecom. Ecco come è andata.

La storia di Adriano Olivetti ha dettagli che non si conoscono e che potrebbero aiutare a capirlo meglio?

“In me non c’è che futuro” era la sua frase preferita, guardare solo avanti. Nella storia di Adrianio ha un gran peso la figura del padre Camillo che è meno conosciuto. Camillo, un gigante di idee che accompagnò Galileo Ferraris da giovane ingegnere a trovare Edison in America. Sapeva l’inglese e per curiosità andò a Stanford a parlare con alcuni docenti che rimasero talmente colpiti da lui e dalla sua conoscenza da proporgli una cattedra: insegnò lì che aveva appena 22 anni. Mentre commercializzava biciclette americane, capì la propria passione per l’elettricità: non c’era ancora al centro l’elettronica e si mise a produrre contatori elettrici con una società di cui mise base a Milano, la CGS (centimetro grammo secondo). Andava su e giù per l’America, rimase folgorato dalla Underwood che faceva macchine per scrivere e si mormora che forse copiò qualche disegno dando poi vita alle prime macchine col suo marchio, qui a Ivrea. Le vendeva porta a porta, personalmente una a una: iniziò prendendo a bersaglio i notai torinesi, la categoria migliore per il suo prodotto. Mia moglie mi raccontava del suo zio notaio a cui un giorno Camillo bussò alla porta per proporgli la macchina per scrivere: rimase in quella casa un giorno intero facendosi persino invitare a pranzo. Da lì fu un successo, il tam tam tra tutti i notai della città fu immediato e nessun professionista poté più farne a meno.

Quando Adriano iniziò a lavorare, il padre lo mise subito alla catena di montaggio e lì capì che non sarebbe mai stato il suo posto. Disse “Questo non è un lavoro, qui le persone non hanno il tempo di pensare” e da lì iniziò a mettere in campo il fordismo dolce, i tempi più dilatati, il cottimo lento, le isole di montaggio.

Che senso ha oggi parlare di fabbrica?

Fabbrica è una parola con cui abbiamo perso il contatto e invece è una parola densa di significato, una parola stupenda che dovremmo pronunciare più spesso ai nostri ragazzi. La fabbrica oggi è un mondo pieno di fascino se la attualizziamo in chiave digitale e tecnologica. Ogni attività è fabbrica se serve a costruire qualcosa di nuovo, bello e utile.

Il Premio all’imprenditore olivettiano, da lei ideato e curato, purtroppo si è interrotto. Onestamente: dipende forse dal fatto che l’Italia non ha più imprenditori capaci di far luce?

No, assolutamente. Trovo ogni giorno imprenditori olivettiani. Il premio messo in palio è sempre stato una vecchia Lettera 22 è si è interrotto per ragioni organizzative ma spero potrà riprendere. Il primo premiato fu Enrico Loccioni che secondo me incarna molto di quello spirito. Un altro è stato Brunello Cucinelli. Quando andai a incontrarlo per parlargli del Premio, mi disse sinceramente che lui la Olivetti la conosceva pochissimo e che i suoi ispiratori erano due umbri. “Beh”, gli dissi, “fammeli conoscere, allora”. Mi rispose: “Sono Francesco d’Assisi che mi ha insegnato l’umiltà e Benedetto da Norcia che mi ha insegnato l’operosità”. Di fronte a questi non potevo competere e feci per andarmene, allora mi spiegò meglio la sua filosofia e mi chiese quale fosse il premio. Davanti alla Lettera 22  accettò. Da allora ha citato spesso questo premio perché ci tiene molto. Il trattamento delle persone non è male nella sua azienda ma resta una figura ambigua”.

 

 

Ero arrivata a Ivrea in treno la mattina, da Porta Susa. Faceva caldo per me e per i quattro ragazzi che stavano a parlare animatamente nei sedili accanto al mio. Scesi anche loro a Ivrea, avevano tra i ventotto e i trentadue anni e andavano perplessi a fare il test finale di un corso di formazione a pagamento che li convinceva poco perché non sapevano se sarebbe davvero arrivato il posto di lavoro che era stato promesso a parole per un call center che lavora tanto in Germania. “Io mi sono licenziata da una piccola azienda per fare questo corso. Mi hanno garantito che alla fine ci assumeranno tutti ma, dopo che ci siamo conosciuti meglio, qui abbiamo capito che a ognuno di noi era stata data una versione diversa durante i primi colloqui. Mi dà fastidio pensare che si approfittino di noi giovani, io ho studiato tanto. Speriamo bene”, mi aveva detto Elena mentre scendevamo dal treno.

Saluto Bruno Lamborghini davanti alla stazione, dopo alcune ore siamo di nuovo lì.

Mi ripete che abbiamo visto poco di Ivrea e di tornare quando voglio per continuare il giro. “Che poi Ivrea è una città strana, qui forse il progresso fa paura o crea disturbo. Nel 2018 è diventata città industriale patrimonio Unesco ma in giro non è che si respiri niente di particolare, è sempre una fatica aprirsi al mondo. Del resto negli anni della prima fabbrica, quando all’alba passavano centinaia di operai in bicicletta, gli abitanti si lamentavano di quel rumore.

Quanto fastidio da sempre intorno a Ivrea e sembra non sia ancora finito.

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