A che punto è la notte del Nord

Marco Revelli è professore ordinario di scienze politiche in Piemonte, ma se volessimo andare oltre il suo ruolo accademico potremmo dire che è un segugio che si muove da anni sul territorio italiano per capire quali sono stati i cambiamenti negli ultimi tre decenni dell’Italia industriale e post-industriale. Perché il Nord non ha più quella […]

Marco Revelli è professore ordinario di scienze politiche in Piemonte, ma se volessimo andare oltre il suo ruolo accademico potremmo dire che è un segugio che si muove da anni sul territorio italiano per capire quali sono stati i cambiamenti negli ultimi tre decenni dell’Italia industriale e post-industriale. Perché il Nord non ha più quella spinta propulsiva che ha dato ossigeno alla ricostruzione post-bellica, e almeno in parte al boom economico degli anni Sessanta? Dove è finito lo spirito animale degli imprenditori del Nord?

Quando lo chiamo per proporgli una conversazione per SenzaFiltro sul declino del capitalismo italiano insediato nel Nord Italia, sulle paure del profondo Nord e sulle illusioni del grande capitale di ritrovare un’identità perduta, lui accetta volentieri. Basta accennargli al ruolo di Mediobanca, tutor del capitalismo italiano, che capisce subito su che cosa vogliamo indagare: “Già, quello è un punto chiave”. Ma poi la nostra conversazione torna sul terreno a lui caro: il territorio, i luoghi dove il declino si dispiega, i luoghi raccontati nel “viaggio di un eretico nell’Italia che cambia”, sottotitolo del libro di Revelli Io non ti riconosco.

Professor Revelli, proviamo a tornare sui suoi passi. Lei ha indagato tanto sul declino del Nord: proviamo a capire che cosa è successo in quell’area che per decenni è stata il motore dello sviluppo economico italiano?

Per capire a che punto è la notte io partirei proprio dal fordismo. Come tutti sanno il Nord è stato la locomotiva del capitalismo italiano nel famoso triangolo industriale Torino-Milano-Genova. Torino in particolare è stata la patria del fordismo. Con questa definizione non intendo soltanto la catena di montaggio e la produzione di mezzi: il punto nodale del fordismo è la centralità della grande fabbrica, che a sua volta si strutturava senza soluzione di continuità attraverso un labirinto fatto di piccole e medie imprese. Una struttura tayloristica con un potere di comando centrale che si imponeva sul territorio in modo gerarchico. Fino alla metà degli anni Settanta le cose stavano così, un’epoca molto conflittuale all’interno di un paradigma tutto fordista. Poi molte cose sono cambiate: oggi assistiamo a un rovesciamento nel Nord Italia: il Nord-Ovest ha lasciato un cratere impressionante, come dimostrano ad esempio i dati Eurostat sul declino del Piemonte o sull’arretramento della Lombardia. Certo, nel Nord-Est è nato l’esperimento dei distretti industriali che per un certo periodo ha prodotto crescita, ma poi quel modello non è riuscito a diventare un modello di sviluppo nazionale.

Quali sono i connotati principali di questa metamorfosi? L’abbandono della centralità della fabbrica che cosa lascia sul campo?

Lo scenario del postfordismo è all’incirca questo: disseminazione della produzione, delocalizzazione, nascita – come dice Aldo Bonomi – di un capitalismo molecolare, dissipazione produttiva. È vero, i distretti industriali (fenomeno tipicamente postfordista), la Puglia e la spina tirrenica permettono al capitalismo italiano di non sprofondare, così come sono un’ancora di salvezza alcune imprese medio grandi che riescono a realizzare autonomia produttiva e finanziaria. Ma come osservava lei, con la fine del capitalismo famigliare e con la mancanza di una regia come era stata quella di Mediobanca si paga un prezzo molto caro, cresce e si sviluppa un capitalismo senza regia e senza strategia. In campo resta un capitalismo fragile, incapace di affrontare la concorrenza straniera, modellato dai flussi e incapace di creare un nuovo modello di sviluppo e di crescita. Insomma un capitalismo incapace di diventare una nuova forza di attrazione. L’asse lombardo-veneto in parte resiste a questo declino, ma diventa una disseminazione occasionale di capannoni che sostituiscono la fabbrica senza avere la stessa forza di attrazione.

Quali sono i punti di forza che consentono al capitalismo del Nord di non sprofondare?

Se pensiamo a quei passaggi scopriamo che gli unici ancoraggi di salvezza di quell’epoca rimangono la svalutazione, che fu usata come l’ultima arma competitiva delle aziende italiane fino all’introduzione dell’euro, e la compressione salariale. Oserei dire che uno dei punti di forza del cosiddetto miracolo del Nord-Est è stato proprio la compressione salariale. Una leva che viene usata non soltanto in Veneto, ma su tutto il territorio nazionale. Dal 2000 a oggi, ci dicono i dati Ocse, l’Italia vanta in Europa la più bassa dinamica retributiva e il più grande impoverimento economico e di qualificazione.

Uno scenario per nulla confortante. La compressione salariale, se diventa sistematica, produce degli effetti assai negativi sul ciclo economico: la compressione dei consumi e, in assenza di investimenti, la stagnazione, un fenomeno ancora presente sulla scena italiana e internazionale.

Non voglio sostenere che lo scenario fosse soltanto a tinte fosche. Nel quadro di indebolimento del Nord la macroregione composta da Lombardia e Veneto è rimasta per un certo periodo competitiva, anche se, questo non possiamo negarlo, in un quadro di forte debolezza strutturale con equilibri molto incerti e molto frastagliati. Questa macroregione infatti non è riuscita a diventare punto di attrazione di forza lavoro e di sviluppo per tutto il territorio nazionale, come fu invece il triangolo industriale. C’è stato, fino alla grande crisi finanziaria del 2009, un fenomeno di crescita, soprattutto nel Nord-Est, ma è rimasto molto localizzato. Milano, pur non essendo mai riuscita a diventare un centro finanziario come Londra, ha resistito in parte al declino fondando la sua forza sulla produzione immateriale e sul terziario avanzato, mentre il Nord-Est fino a un certo punto è cresciuto dentro “la città infinita di distretti”; ma quello che non ha consentito un New Deal è stata la mancanza di una regia, di un modello piramidale che si vedeva bene nel Piemonte, dove per decenni la Fiat ha irradiato il territorio, la produzione e lo sviluppo di centinaia di piccole e medie aziende.

Non crede che sia mutato anche qualcosa negli imprenditori italiani, nella loro cultura imprenditoriale?

Certo che è mutato qualcosa. Senza voler essere cattivi direi che il mancato sviluppo è dovuto anche al fatto che la terza generazione di imprenditori non ha più l’animal spirit di cui parlava il grande economista John Maynard Keynes. Il capitalismo famigliare non ha lasciato alle sue spalle granché nella formazione di una nuova classe dirigente. Pensi all’Università Bocconi: è una fabbrica di giovin signori che una volta usciti pensano di essere Henry Ford, ma in realtà sanno ben poco della gestione di un’azienda. C’è poi un fatto atavico che spiega il mancato sviluppo e la mancata crescita di questi ultimi decenni: scarsi investimenti e scarsa ricerca. A parte il caso delle cosiddette multinazionali tascabili che abbiamo in Italia, che restano un’ossatura importante del sistema produttivo, le imprese italiane sono dipendenti dal sistema bancario: non hanno cioè una capacità innovativa autonoma che pure avevano, almeno le grandi imprese, quando la regia era in mano a Mediobanca.

Per un certo periodo il Nord-Est sembrava la nuova frontiera del capitalismo italiano, sia pure nella sua nuova forma molecolare. Che cosa è successo?

Nel Veneto il punto di rottura è stata la crisi del 2008, quando sono cadute le illusioni che quella regione potesse diventare un modello di sviluppo. La crisi finanziaria del 2008 si trasforma in crisi industriale, taglia le gambe al mito del Nord-Est e provoca tragedie: è il periodo in cui purtroppo il Nord-Est diventa la patria dei suicidi, è la fine di un sogno, la fine del mito degli sghei.

E la ricca Lombardia che fine fa?

La Lombardia è un caso a sé. Sul territorio si crea una specie di dualismo: la metropoli e l’hinterland. Finanza, terziario e produzione immateriale dentro le mura spagnole di Milano e frammentazione industriale nelle aree limitrofe. Ma anche in questo caso la crisi finanziaria del 2008 corrode le fondamenta della patria dell’industria e della moda, ambedue finite spesso in mani straniere. Eurostat segnala un calo del reddito pro capite della regione, che vantava una competizione con l’Assia. Anche politicamente queste due aree si oppongono. Come lei mi faceva osservare, non è un caso che a Milano città vinca le elezioni il centro-sinistra mentre in tutta la fascia dell’hinterland domini la Lega, che sta saldamente sul territorio circostante. Il COVID-19? Lo paragonerei a quello strumento che mi pare si chiami Luminol, un composto chimico utilizzato dalla polizia scientifica per rilevare il sangue. Il COVID-19 mette a nudo la vulnerabilità del sistema produttivo proprio nelle aree dove il declino è stato più accentuato.

Foto di copertina: Newpress

CONDIVIDI

Leggi anche

Più lupi o più Agnelli nell’editoria italiana?

Neppure la scaltrezza finanziaria di Enrico Cuccia, dominus di Mediobanca e tutore del capitalismo italiano fino al 2000 (anno della sua morte), avrebbe mai immaginato che la famiglia Agnelli un giorno avrebbe venduto il Corriere della Sera e dopo tre anni avrebbe acquistato l’irriverente la Repubblica. Eppure è accaduto. Anzi, si potrebbe coniare un titolo […]