Anche il carcere ha il suo open day. E dietro le sbarre c’è il lavoro

Molti ne parlano, ma pochissimi scelgono di entrarci: siamo andati nel carcere di Castelfranco Emilia in occasione di un open day, dove abbiamo raccolto le voci dei detenuti e della direttrice Maria Martone: “Qui occorre il lavoro. E con la legge Smuraglia gli incentivi fiscali per gli imprenditori sono notevoli”

Open day in carcere, una donna vestita di bianco apre una porta a sbarre

È stata la mia prima volta. Ormai sono due anni che scrivo di carcere, cercando di capire cosa c’è di buono dentro le mura ed evitando le solite notizie di suicidi e sovraffollamento. Ho intervistato detenuti, direttori degli istituti penitenziari e persone che lavorano e fanno volontariato, ma sempre al telefono. Non ero mai riuscita a metterci un piede dentro, al carcere. La pandemia ha reso impossibile per un lungo periodo ogni visita, e in questi due anni l’ho sempre visto e raccontato con gli occhi degli altri.

Questa volta no. Questa volta gli occhi sono i miei.

L’occasione mi è stata offerta da Roberto Cavalieri, garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, che mi ha invitato a un open day nella casa di reclusione di Castelfranco Emilia (in provincia di Modena). Lo so, in questo caso l’espressione “open day” ha un suono davvero strano.

Arrivata a Castelfranco, ho parcheggiato nel posto sbagliato e ho fatto parecchia strada prima di capire dove fosse l’ingresso del carcere. Ero in anticipo, poco male. Ho attraversato un parco pieno, anzi strapieno di conigli che sicuramente avrebbero trovato la strada prima di me.

Una volta entrata ho trovato un albero di Natale, un presepe e un’atmosfera quasi accogliente. Poi a ricordarmi che ero in galera ci hanno pensato gli agenti della polizia penitenziaria che mi hanno avvicinato per richiedere il documento. Mi hanno anche fatto lasciare il telefono in una cassetta di sicurezza. Poco male, mi sono detta; invece di registrare prenderò appunti. Invece male, perché mi è mancato molto il fatto di non poter fare fotografie. Fotografare mi aiuta a mettere a fuoco particolari inaspettati, a ricordare sensazioni ed esperienze. Invece ho dovuto fare affidamento sui ricordi, scritti e non, dei miei incontri.

Maria Martone, la direttrice-manager dell’istituto penitenziario di Castelfranco Emilia: “Qui occorre il lavoro”

Tra gli incontri, per prima citerei Maria Martone.

Più che la direttrice di un istituto penitenziario a me è sembrata una manager, nelle idee, nelle parole, nei fatti. Per la prima volta in Italia ha voluto sperimentare l’open day in carcere, e non per far vedere quanto sia gestita bene la “sua azienda”, ma per cercare investitori.

Qui occorre il lavoro” sono state le sue prime parole. “Il carcere è una realtà praticamente sconosciuta, ma le cose possibili sono tante. C’è del buono da far conoscere, e il nostro scopo è trovare realtà produttive disposte a investire usufruendo di tutti vantaggi logistici e fiscali che possiamo offrire, senza contare l’importantissimo investimento in sicurezza sociale. Ci sono innumerevoli studi che dimostrano che uscire dal carcere con un mestiere in mano abbatte i rischi di recidiva, e sappiamo altrettanto bene che, se questa possibilità non viene offerta, una volta usciti il reato è dietro l’angolo”.

La visita era infatti dedicata alle associazioni di volontariato, con l’obiettivo di mostrare loro le attività della casa di reclusione e cercare cooperative e imprese che abbiano voglia di investire sul lavoro dei detenuti. Grazie alla legge Smuraglia – che prevede sgravi contributivi e fiscali per le imprese o cooperative che assumono detenuti – e alla possibilità di usufruire gratis di spazi e capannoni, per l’imprenditore gli incentivi sono notevoli. E non solo a Castelfranco Emilia: i detenuti vogliono lavorare in tutta Italia. Non solo per avere un reddito con cui aiutare le proprie famiglie, ma anche per dare un senso alla reclusione e al tempo trascorso in carcere.

Coltivato in carcere: lo scambio con l’imprenditoria e il mercato locale

Per questo Maria Martone nella sua casa di reclusione ha dedicato 22 ettari di terreno a serre, vigneti e colture biologiche. Qui gli spazi sono molto ampi sia all’aperto che al chiuso, c’è anche un allevamento di galline ovaiole, e i detenuti frequentano periodicamente corsi di formazione che gli permettono di avere l’abilitazione per la guida dei trattori e altre certificazioni.

Le attività che si possono svolgere in questa struttura sono tante e diverse. La direttrice ci ha mostrato laboratori per la produzione di miele, di ostie e di presepi. Tra le attività lavorative c’è anche un call center e una lavanderia, attualmente l’unica esperienza fallimentare del carcere. Infatti, tutti i prodotti agricoli vengono venduti al mercato settimanale del paese e sono anche molto apprezzati dai cittadini. Le ostie, la cui produzione è seguita dalla cooperativa Giorni Nuovi, hanno una distribuzione nazionale e sono arrivate persino al congresso eucaristico. Anche il call center funziona molto bene. La lavanderia, invece, non ha retto il colpo della pandemia. Lavorava soprattutto con gli alberghi e il crollo di commesse è stato inevitabile. Non ha smesso di funzionare, però: è rimasta attiva per le esigenze del carcere.

“Stiamo cercando un collegamento stabile con l’imprenditoria locale – mi spiega la direttrice Martone – perché qui ci sono capannoni e spazi liberi che possono essere utilizzati gratis da chi vuole portare il lavoro dentro il carcere e usufruire di tutte le agevolazioni logistiche e fiscali che possiamo offrire.”

La sua è un’operazione di marketing a tutti gli effetti, e per dimostrare il valore del lavoro dentro le mura ci offre anche la possibilità di chiacchierare con i detenuti. Lei fa da capofila e prima di entrare nei laboratori si pulisce a lungo le scarpe sullo stuoino davanti all’ingresso. Noi seguiamo il suo esempio con una sorta di automatismo, e solo dopo capisco l’importanza di un gesto così accurato: stiamo entrando in un ambiente pulito e ordinato, che tale deve rimanere. Un gesto che dimostra il rispetto e la dignità di chi vive quegli ambienti.

Voci, lavoro, lacrime: i detenuti di Castelfranco Emilia

Il primo detenuto con cui parlo è Arbi, un giovane che lavora nell’apiario biologico. È timido e noi lo abbiamo assalito con i nostri sguardi curiosi. Però quando gli ho chiesto del suo lavoro ha vinto la timidezza e mi ha parlato del processo di smielatura e della produzione di candele: “Lavoro sei ore al giorno e amo molto stare con le api. Quando uscirò da qui spero di tornare in Tunisia con un mestiere in mano”. Non è di molte parole, mi racconta ciò che per lui è essenziale.

I detenuti che incrociamo sono tutti disponibili e impazienti di mostrare al mondo esterno ciò che fanno. Ci sono ragazzi che studiano e le aule sono piene di cartelloni e disegni appesi alle pareti. Nei corridoi scorrono murales coloratissimi e l’ambiente è caldo e pulito. Incontro sorrisi e tanta disponibilità, ma anche le lacrime di chi ha moglie e figli lontani e sente un grande vuoto che non riesce a riempire con il lavoro o con lo studio. Lacrime che hanno fatto diventare lucidi anche i miei occhi e quelli dell’amico detenuto che è lì, accanto a quel padre triste.

Ripeto, era la mia prima volta in carcere e non sapevo cosa aspettarmi da quella giornata, ma di sicuro non questo. E non lo scrivo spinta da un buonismo ingenuo, ma semplicemente con la consapevolezza che lì dentro ci sono vite che non conosciamo e che spesso meritano la nostra attenzione.

Il marketing del carcere e l’osmosi con il territorio

Dopo i luoghi di lavoro abbiamo visitato le celle. Uso la parola visitato non a caso, perché ci era inaspettatamente concesso di entrare nelle loro stanze. Io però non me la sono sentita. Ho intravisto da fuori le coperte colorate, i panni stesi, le scarpe riposte ordinatamente sotto i letti e le foto delle donne e dei bambini appese alle pareti. Era evidente che si erano preparati per l’occasione, che avevano riordinato gli ambienti come meglio potevano, ma non me la sono sentita di entrare. Mi sono tornate in mente le lacrime di poco prima e mi sembrava di invadere troppo la loro tristezza.

Uscendo dalla zona delle celle ho ascoltato i commenti delle persone accanto a me. Ero l’unica giornalista, gli altri erano delegati di associazioni di volontariato e di cooperative che si dedicano ai detenuti, quindi tutti abituati a lavorare dentro le mura. Qualcuno diceva che “questa di Castelfranco Emilia è davvero una realtà unica, ma la gestione è piuttosto semplice perché è una casa di reclusione a custodia attenuata che ospita solo 78 detenuti”.

Secondo loro organizzare le attività qui è meno complesso rispetto, ad esempio, al carcere di Parma dove i detenuti sono 700 e si dividono tra alta e media sicurezza. Non è sempre vero. Certo, il carcere di Castelfranco ha enormi spazi e molti terreni (anche qui scorrazzavano un sacco di conigli), ma il garante Roberto Cavalieri mi ha spiegato che organizzare il lavoro dove ci sono pochi detenuti non è semplice, perché tra chi è anziano o malato, o chi già lavora per l’amministrazione penitenziaria (svolgendo attività utili alla gestione quotidiana del carcere), non sempre si riescono a trovare i numeri giusti. Invece la direttrice Maria Martone non solo li ha trovati, ma ha individuato anche le giuste attività e ha dichiarato che in futuro vuole garantire sempre più lavoro e formazione.

Vorrei che il carcere si contaminasse con le attività del territorio, rispettando la vocazione del territorio”. Lei ha scelto con forza di investire nell’uomo e nel marketing del carcere. Riuscite a darle torto?

Io no.

 

 

 

Photo credits: artribune.it

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