Animali feroci e come domarli: il romanzo del mestiere senza domani

Frusta, alamari e cilindro: la figura del domatore è una delle più evocative (e anacronistiche) dell’arte circense. La recensione di “Vita breve di un domatore di belve”, di Daniele Santero, che racconta la storia vera di un ammaestratore ottocentesco.

Più che un mestiere, quella del domatore è una vocazione. E forse non esiste nemmeno più, visto che la sensibilità animalista dei nostri giorni ci ha molto allontanati dalla curiosità, un po’ primitiva, che tutti abbiamo avuto in passato per animali selvatici custoditi in gabbie anguste negli zoo e nei circhi.

Personalmente, ho un vivido ricordo della prima volta in cui sono stato portato a vedere un circo. Dopo i numeri di equilibristi e pagliacci, nella pista veniva montata una grande gabbia nella quale entravano tre o quattro leoni dall’aria piuttosto mansueta, che si disponevano ordinatamente su appositi sostegni.

Impressionante l’ingresso del domatore: in giacca rossa con gli alamari, pantaloni da cavallerizzo, stivaloni neri, cilindro in testa, era armato di una frusta e portava alla cintura una grande fondina nella quale, mi è stato spiegato, custodiva una pistola che gli sarebbe potuta servire nel caso le belve lo avessero aggredito.

Facendo schioccare la frusta faceva fare ai leoni, un po’ riottosi, semplici esercizi come salire e scendere dai loro alloggiamenti e, a un certo punto, passare attraverso un cerchio. Il domatore non fu sbranato  come temevo, ma ho ancora ben vivida l’immagine di quest’uomo che correva un rischio mortale davanti ai miei occhi.

Anche se oggi, con un eufemismo, gli zoo sono diventati “bioparchi”, e i circhi non dovrebbero più tenere belve in cattività, qualcuno che si occupa delle bestie più o meno feroci che sono custodite in vari luoghi c’è. Dunque il mestiere del guardiano, se non domatore, delle belve esiste ancora.

Vita breve di un domatore di belve, la vita romanzata di Upilio Faimali

Di questo lavoro parla Vita breve di un domatore di belve, di Daniele Santero, Elliot editore, che oltre a essere il racconto romanzato della vita di Upilio Faimali, un domatore veramente vissuto nell’Ottocento, è anche una sorta di studio antropologico sul rapporto tra l’uomo e gli animali.

Perché Upilio (nome veramente romanzesco, e tanto raro quanto spesso storpiato) ha una predisposizione naturale al rapporto con le bestie e fin da giovane viene assunto come guardiano in un circo, dove deve soprattutto spalare lo sterco e pulire le gabbie. Ma ha tanto talento nell’addestrare gli animali da essere promosso da pulitore a domatore, perché riesce a mettere in pista – senza che nessuno gliel’abbia chiesto – una cavalcata con equilibrismi e piroette di una scimmia in sella a un cagnolone.

Quando un collega, probabilmente per invidia, gli ammazza la scimmia, il nostro non si perde d’animo e si mette in proprio: gira l’Europa con un carretto trainato da un asino sul quale trasporta scimmie, iene e altri animali da lui addestrati che esibisce nelle fiere.

Tigri, leoni, ma anche asini: come vive un domatore?

C’è un episodio che dice molto sul modo in cui il nostro Upilio tratta gli animali.

Un giorno, nel tragitto tra un paese e l’altro, il suo asino, vecchio e stanco, non ce la fa più a trainare il carretto del piccolo zoo ambulante. Upilio stacca l’asino e si mette lui a trainarlo, lasciando che l’asino si riposi e segua il carretto. Fortuna vuole che passi di lì un ricco feudatario che, capito il personaggio, gli regala un efficientissimo cavallo. E l’asino vivrà tranquillo i suoi ultimi anni di vita al seguito di Upilio e della sua banda.

Ma Upilio è uomo pieno di risorse e presto si procura una tigre e un leone, che ammaestra a dovere: comincia dando da mangiare alle belve e, dopo averne avuto la fiducia, si avvicina sempre più. Al primo atto di ribellione, le ammansisce con un colpo di frusta sul naso.

Lentamente, gli animali si abituano a lui fino a permettergli di entrare nella gabbia senza rischiare di essere sbranato. L’ammaestramento è tanto efficace che Upilio arriva a esibirsi con le belve che lo abbracciano e lui che gli mette la testa nelle fauci, senza troppi inconvenienti. Ne segue una carriera sfolgorante, tanto autonoma quanto al seguito di circhi famosi e in società con un altro domatore.

Non mancano i momenti drammatici: una tigre gli ferisce un braccio perché eccitata da uno spettatore incauto, ma Upilio non si smarrisce. Accade anche che un suo aiutante, per emularlo, si avvicini troppo a una gabbia di leoni e ci rimetta un braccio. Ma la lunga vita di domatore di Upilio, in fondo, è segnata da pochi incidenti, qualche graffio, da tante tournée e da una lunga serie di successi.    

Perché leggere Vita breve di un domatore di belve

Nel passato esibire animali feroci era un mestiere come gli altri: gli “orsanti” giravano con enormi orsi ammaestrati fino a non molto tempo fa (in Turchia se ne vedono ancora).

Malgrado oggi la sensibilità comune ci porti a condannare la cattività di ogni animale, è vero anche che di belve più o meno feroci ce n’è ancora. Chi se ne occupa ha una doppia responsabilità.

Verso se stesso, perché deve saper stabilire – come Upilio – un rapporto che potremmo definire paritario, che permetta di accudire gli animali senza rischiare. Il che significa una conoscenza profonda delle loro esigenze e della loro psicologia.

Ma c’è anche un’altra responsabilità: quella del rispetto che sappiamo di dovere alla natura, e a chi ne rappresenta la parte simbolicamente meno conciliabile con la civilizzazione.

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